Nel recente saggio Dio in uniforme, cappellani, catechesi cattolica e soldati in età moderna, Vincenzo Lavenia, professore di Storia Moderna all’università di Bologna, si è posto l’obiettivo di indagare il rapporto fra la disciplina degli eserciti, il linguaggio della violenza e la religione, utilizzando come fonte i trattati e i catechismi stampati per i soldati.
L’arco cronologico preso in esame esula in realtà dai confini temporali indicati nel titolo. L’ultima parte si presenta infatti come una riflessione sull’età contemporanea a seguito della Restaurazione, con un occhio critico tanto volto alla catechesi durante le Guerre mondiali dello scorso secolo, quanto alla radicale posizione ecclesiastica radicalmente ostile alla guerra inaugurata da Giovanni XXIII e seguita ancora oggi, come sottolinea Lavenia, dall’attuale Pontefice. Questa considerazione è assai rilevante perché rappresenta l’antitesi più assoluta ai principi descritti nel corso dei capitoli. Ripartito in otto parti, infatti, il volume accompagna del lettore all’atteggiamento della Chiesa nel Cinquecento, secolo in cui il dibattito intellettuale sulla liceità della guerra fu aspro (come dimostrano le prese di posizione a esempio di Erasmo, Machiavelli, Govio e Sepulveda) e spesso pronto a giustificare l’agire politico (come accadde per la teologia di Sepulveda leggittimatrice delle conquiste spagnole del Nuovo Mondo). L’azione diretta diventa protagonista nel secondo capitolo, che oltre a narrare la vicenda di Giovanni da Capestrano, archetipo del cappellano militare e della guerra santa contro gli ottomani, contiene una lucida riflessione sull’istituzionalizzazione della figura del cappellano, assente nella prima età moderna. In quest’arco cronologico, infatti i sacerdoti assunsero una funzione celebrativa delle vittorie. Il cambiamento fu portato avanti attraverso le cinquecentine a stampa, soprattutto grazie alle riedizioni dei trattati medievali che disputavano sul ruolo del sacerdote nel conflitto. Mentre ciò accadeva i gesuiti, dalla seconda metà del XVI secolo, cominciarono a svolgere un’effettiva assistenza delle truppe tra le fila asburgiche; infatti, furono proprio i confratelli di Loyola a redigere i primi catechismi per i soldati. Il capitolo terzo affronta un esame di queste opere, in particolare quelle di Edmond Auger (La pedagogia delle armi del 1568) e di Antonio Possevino (Soldato Cristiano del 1569). Un’ampia circolazione di questi testi si ebbe in una fase iniziale fra le truppe pontificie e medicee in aiuto di Carlo IX, ma la loro efficienza si sviluppò a partire da Lepanto, ove i gesuiti ebbero un’intensa attività assistenziale delle truppe per quanto concerne l’amministrazione dei sacramenti e la confessione. Lavenia, pertanto, sottolinea nel capitolo quarto come solamente dopo il 1571 si instaurò il bisogno di avere cappellani preparati per correggere gli errori abituali dei soldati, con un’assistenza che fosse tanto spirituale quanto sostanziale, promuovendo un’attenzione per il milite ferito tramite cure mediche e letture devote. Si cominciò altresì a pensare a un modello di soldato che smetteva di essere un mercenario e diventava il fedele e il suddito, il combattente che rifiutava i metodi più barbari della guerra, tipici degli infedeli. Una reificazione di tali concetti si ebbe con la rivolta delle Fiandre contro Filippo II, in cui il segretario di Possevino, il gesuita Sailly, fondò nel 1587 la missio castrensis (e navalis dal 1623), vicina alla figura del comandante Ambrogio Spinola. Essa consisteva in una missione stabile della Compagnia di Gesù nelle Fiandre con il compito di assistere e plasmare un soldato retto moralmente. La missio risultò essere un successo tale che la Compagnia promulgò sulla base del testo di Possevino regole di comportamento e avvisi ufficiali, che ebbero applicazione nella guerra degli Ottant’anni e diedero inizio a una vasta produzione di testi catachetici per i soldati, come il Castra dei del 1642 di Mansfeld, cappellano generale dei contingenti nelle Fiandre.
Di rilevante interesse rispetto ad un’indagine sulla catechesi cattolica è l’approfondimento, anche comparativo, che l’autore esegue nel capitolo quinto, dedicato al mondo protestante continentale e inglese. Per gli ugonotti e per gli evangelici tedeschi non furono redatti dei catechismi dedicati ai soldati ma solamente alcuni libretti di preghiera, che videro una vasta diffusione durante la Guerra dei Trent’anni. Al di là della Manica, invece, si diffusero piccole pubblicazioni catechetiche basate sui sermoni e che generalmente condannavano l’idolatria ispanica, contro cui si doveva instaurare una sorta di guerra santa. I sermoni furono accompagnati dalle adunanze dell’esercito in sessioni di preghiera, che si moltiplicarono, come i catechismi, con la guerra civile inglese, in cui le pubblicazioni riflettevano la dicotomia di posizioni realiste e parlamentari. L’autore allora sottolinea come siano, sotto questo aspetto, di fondamentale importanza gli studi di Barbara Donagan, la quale, con acume, dimostra come vi fosse una profonda differenza sul piano comportamentale dei pastori rispetto a quello teorico dei catechismi, svelando come i religiosi fomentassero lo scontro e tralasciassero gli aspetti di cura e assistenza. La Guerra dei Trent’anni è la protagonista del capitolo sesto, che illustra la faziosità degli ordini religiosi durante il conflitto e le conseguenze nella produzione di testi. Questi, pertanto, assunsero una sfumatura giuridico-morale, che si basò su un esame dell’esperienza portata dalla guerra; esempio fulgido del cambiamento della concezione fu il Casus militares del 1635 di Crispolti, comandante delle truppe papali e nipote di Urbano VIII. Lavenia conclude la panoramica sul protestantesimo spostandosi nuovamente sul contesto cattolico, ponendo l’esempio del Piemonte sabaudo con la regolamentazione del personale delle cappellanie a partire dal 1678, azione regolatrice già tratteggiata in termini generali a seguito della guerra dalle congregazioni del Concilio e dei Vescovi e dei Regolari. La prospettiva di lungo periodo porta alfine l’autore a dedicare gli ultimi due capitoli del saggio al Settecento e al tardo Ottocento.
Nel secolo dei Lumi si svilupparono due modelli comportamentali per il soldato. Il primo fu il “militare filosofo”, ovvero il combattente formato nelle accademie e nelle caserme, che possedeva un’esperienza tecnica e una formazione. Fu l’espressione della sincrasi fra fede e ragione, fra civilizzazione e catechesi, che tuttavia relegava gli ordini religiosi al solo compito di assistenza, eludendoli dalla formazione dei militi. Il testo portatore di questi principi e che incontrò la maggiore diffusione continentale fu Le Soldat Chrétien del 1751 di Claude Fleury. Ma El soldado catolico en guerra de religion del 1794 di Diego José de Cadiz ebbe un successo ancora maggiore poiché riprendeva il concetto di guerra santa e propugnava il modello di soldato cristiano schierato contro la Rivoluzione e che vide il suo massimo apice nelle forme di guerriglia nelle diverse parti d’Europa che l’osteggiarono. Tuttavia, un’unione indissolubile fra il patriottismo e la religione si ebbe solamente con la Restaurazione. I gesuiti tornarono a avere un ruolo preponderante nella formazione dei soldati e nell’affiancare le truppe. La concezione generale di guerra santa di Cadiz risultò, come spiega Lavenia, vetusta. I gesuiti con i testi del XIX secolo contribuirono a formare un soldato che almeno in teoria fosse il primo a rispettare i civili, poiché la guerra era esclusivamente diventata una questione degli eserciti professionisti, i cui soldati dovevano essere tanto devoti alla Patria, quanto alla fede. Il patriottismo fu dunque l’elemento più innovativo del periodo, di cui fece esempio il Manuel du soldat belge di Barbineux del 1871, in cui la concezione di servire si trasformava altresì in una opportunità di egualitarismo, eliminatore delle differenze cetuali in nome dell’unico scopo: servire Dio e la Patria. Un binomio apparentemente indissolubile, che pare sfaldarsi solamente dopo la seconda metà del secolo scorso, quando la Chiesa assunse la posizione pacifista di cui ancora si fa portavoce.
Flavio Luigi Fortese