La conferenza, tenutasi all’interno del corso di storia contemporanea del professore Mauro Elli, avente come titolo “USA e ambiente globale” con Dario Fazzi professore di “Transatlantic Enviromental History” presso la Leiden University, si è aperta con una presentazione dei due filoni di studio che hanno mosso la sua ricerca concretizzatasi nel saggio Smoke on the Water Incineration at Sea and the Birth of a Transatlantic Enviromental Movement. Il primo filone punta ad analizzare le caratteristiche della nuova modernità industriale che si affermata dal 1945 e il ruolo-guida degli Stati Uniti nel suo sviluppo, oltre alle sue conseguenze sull’ambiente. Il secondo studia la natura dei movimenti ambientalisti che, soprattutto a partire dagli anni Settanta, hanno combattuto gli aspetti più distruttivi di questo modello di sviluppo e di sfruttamento. Questi due temi apparentemente contrastanti sono in realtà legati da un filo rosso che va dal rinnovato ruolo dello Stato affermato dal New-Deal in difesa della democrazia, alla costruzione di una nuova sensibilità nei confronti dell’ambiente che, affermandosi, produce una nuova forma di “democrazia ambientale”, di cui gli Stati Uniti sono stati l’avanguardia.
Prima ancora però di affrontare la trattazione, il professor Fazzi ha illustrato alcuni aspetti di metodo sul significato della ricerca storica in campo ambientale, e di come questa viene portata avanti, per comprendere meglio il ruolo e il peso degli Stati Uniti in ciò che viene chiamato “Antropocene”. Il professore ha infatti specificato che questa particolare ricerca ha origine da un filone storiografico più ampio che in principio andava ad analizzare le relazioni tra gli USA e il mondo e il modo in cui essi avevano influenzato queste relazioni e, quindi, il mondo stesso. La svolta interpretativa consiste in un cambio “semantico” della parola “mondo” che cambia significato, passando dall’ambito delle relazioni diplomatico-politiche fra stati, a quello dell’ambiente, “mondo” in quanto pianeta. Si pone quindi la problematica all’origine del primo filone di studio: qual è stato il ruolo e l’impatto degli Stati Uniti, nell’ambito del paradigma della Global Earth, nell’affermazione di un nuovo modello di sviluppo industriale in un momento di grande cambiamento sia tecnologico che di sensibilità nei confronti dell’ambiente?
È stato quindi necessario identificare e chiarire la scansione cronologica all’interno della quale si è svolta l’indagine, quella che è oggi chiamata “l’Antropocene”. Questo termine, che è nato in ambienti delle “earth sciences” negli anni 2000, definisce quell’era in cui le azioni umane hanno modificato il funzionamento del pianeta stesso. È ancora dibattuto il punto di partenza di questo periodo tra chi sostiene che si debba trovare all’inizio della civiltà umana, e chi sostiene che riguardi solo gli ultimi settant’anni in corrispondenza della cosiddetta “great accelleration” della società industriale.
Perché la great accelation ci porta a interrogarci sul ruolo specifico degli Stati Uniti nei confronti dell’ambiente? Dopo il 1945 si assiste a una correlazione fra l’accelerazione di tutti i parametri di produzione industriale, di crescita demografica e di spostamento dei beni – replicando a livello globale il “modello statunitense” – e un’impennata di altri parametri quali l’innalzamento delle temperature, il tasso di acidità dei mari e di inquinamento delle acque, che indicano una correlazione innegabile tra sviluppo umano e impatto sulla natura.
Quanto di questo impatto è riconducibile agli Stati Uniti? Fondamentale è il concetto di modernità portato avanti dagli USA dal 1945 che ha al proprio cuore il modello di sviluppo economico-industriale attorno al settore petrolchimico. Questa struttura è stata poi promossa ed esportata come modello di modernità in grado di generare benessere anche in altri stati, sia quelli in via di sviluppo, sia nel resto dei paesi occidentali. Centrale fu anche la reinvenzione del ruolo dello Stato dopo il New-Deal e, in particolare, la sua funzione nella preservazione dell’ambiente. Reinvenzione radicale che ha visto lo Stato, dinnanzi alla crisi sia economica che esistenziale scatenatasi a partire dal crack del 1929, trasformarsi in promotore in prima linea di una visione che concepiva l’ambiente come materia prima senza limite a disposizione dell’uomo. Tale approccio era sentito come necessario, poiché legava la ripresa dalla crisi alla difesa dei valori del sistema democratico, sistema che in tante altre parti del mondo era crollato, incapace di dare risposte alla crisi lasciando il posto alle dittature. È quindi sotto questa spinta e questa nuova visione delle prerogative dello Stato e della posizione del territorio (subordinata all’uomo e ai suoi bisogni) che viene trasformato il panorama americano. Il modello di progresso e modernità che veniva promosso dagli Stati Uniti leggeva dunque la natura come una risorsa quasi infinita completamente a disposizione dell’uomo, in un rapporto in cui la costruzione della moderna nazione americana veniva prima di qualsiasi considerazione di tipo ambientale. Anche la logica della guerra fredda, con la conseguente corsa agli armamenti e lo strutturarsi del sistema militare-industriale, promuove questa visione. Il professor Fazzi ha analizzato così il rapporto uomo-natura nel campo del “modern warfare”, mettendo in evidenza come la modernità bellica, che ha visto con i due conflitti mondiali una grande accelerazione in campo tecnologico e distruttivo, non sia stata legata ad una nuova valutazione del ruolo delle armi nei confronti della natura. L’obiettivo rimaneva la completa distruzione della vita.
Si è poi passati a esaminare l’impatto sia ecologico che di immagine dell’incapacità, da parte della modernità industriale statunitense, di risolvere la questione dei prodotti di scarto tossici e nocivi. Questo tema funge da connettivo causale fra la questione dello sviluppo industriale e la questione della lotta ambientalista. Ciò che però fa da “ponte”, ciò che spiega la vera correlazione fra i due è il tema della democrazia, già apparsa come valore che si voleva difendere con gli interventi del New Deal e che “ricompare” nella lotta della società civile per la salvaguardia dell’ambiente.
Questo tema ha come inizio simbolico la plastica: contemporaneamente simbolo del boom economico del dopoguerra e dell’inquinamento. Se gran parte della crescita e dell’affermazione della forza economica degli USA è legata allo sviluppo dell’industria petrolchimica, essa è stata caratterizzata come una “meta-industria”, poiché è quel settore che permette lo sviluppo di tante altre industrie come, appunto, quella della plastica. Per rendersi conto dell’enorme successo del petrolchimico, nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, basta pensare alla moltiplicazione delle raffinerie nel Texas, dove si raggiunse rapidamente il numero di 92 impianti. Tuttavia l’industria petrolchimica è una delle cause maggiori della presenza di rifiuti tossici industriali. Ora, i primi metodi di smaltimento di questi materiali seguivano la logica del “out of sight, out of mind” e consistevano sostanzialmente nell’interramento o nello scaricare i barili direttamente in mare (ocean dumping). Con l’affermarsi dell’ambientalismo, questi metodi vennero criticati in misura crescente dall’opinione pubblica, che stava prendendo sempre più a cuore queste tematiche negli anni Sessanta sulla spinta del successo del libro Silent Spring di Rachel Carson. La tesi era che un certo tipo di sviluppo metteva a repentaglio l’equilibrio della natura e, da ultimo, la sopravvivenza dell’uomo all’interno della biosfera. Così, a partire dall’Amministrazione Nixon, il governo statunitense inaugurò politiche nuove nei confronti dell’ambiente. A quegli anni risale la celebre immagine scattata dallo spazio della terra intitolata “Blue Marble” che promosse l’idea di un mondo comune, oltre le differenze ideologiche e la competizione dei blocchi, che andava preservato. Ciò condusse nel 1972 alla prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente a Stoccolma, con l’obiettivo di affrontare e regolare il problema del rapporto fra attività umana e ambiente, avendo come risultato, ad esempio, il bando della pratica di “ocean dumping”. Tra gli anni Settanta e la fine degli anni Novanta, i assiste quindi a un impegno attivo degli Stati Uniti per creare, all’interno di quadri internazionali multilaterali, un sistema di regolazione e regolamentazione delle pratiche di smaltimento dei rifiuti tossici industriali. Il tema centrale e più problematico rimaneva però risolvere la questione dello smaltimento senza intaccare la crescita. Dopo molta ricerca promossa dal Congresso una soluzione venne identificata nel “ocean inceneration”, ovvero la combustione ad altissima temperatura dei rifiuti all’interno di navi speciali. Queste fornaci galleggianti, che potevano raggiungere al loro interno i 1200 gradi, rilasciavano poi nell’atmosfera i fumi senza alcun filtraggio in zone ben codificate dai governi in mezzo all’oceano, lasciando che le componenti più pesanti e dannose di quei fumi ricadessero direttamente in mare, fidando nell’idea che questi veleni sarebbero stati diluiti dai movimenti oceanici divenendo così inoffensivi. Laddove veniva mossa l’accusa che anche questa fosse sostanzialmente una pratica di ocean dumping , il dibattito veniva deviato dai governi che non volevano porsi un problema che avrebbe potuto imporre una diminuzione della crescita. Tra le sostanze smaltite in questo modo, a un certo punto, vi fu anche il famigerato “agente arancio”,
l’aggressivo chimico massicciamente utilizzato per la deforestazione durante guerra nel Vietnam, e di cui gli Stati Uniti detenevano ancora scorte di cui dovevano liberarsi
Il professor Fazzi ha sottolineato la natura eterogenea dei movimenti spontanei che combatterono queste pratiche. Proprio la loro natura eterogenea li spinse a portare all’attenzione dei consessi internazionali i tanti casi locali di inquinamento. È da attribuirsi alla collaborazione fra comunità locali (spesso quelle più marginalizzate erano anche le più colpite) in un’ottica “trans-locale” la costruzione di un consenso e di gruppi di pressione per battaglie come la “ban the burn” per fermare l’incinerazione nell’oceano. Possiamo dire che le battaglie per una migliore giustizia ambientale affermatesi dagli anni Settanta, siano state possibili grazie al concerto di differenti livelli di impegno. Gli interessi locali riuscivano ad incidere sulla situazione, a modificare le pratiche di smaltimento, solo grazie alla collaborazione con organizzazioni transnazionali che usavano le loro conoscenze e know how, amplificando la loro voce a livello nazionale e permettendo l’accesso alle istanze internazionali.
In conclusione, il professor Fazzi ha affermato che, sebbene gran parte di quelle pratiche industriali che hanno contribuito al processo di cambiamento climatico siano riconducibili agli Stati Uniti, sia in quanto grande stato produttore sia in quanto modello imitato in tutto il mondo, gli stessi Stati Uniti si trovano all’origine di una nuova forma di “democrazia ambientale”. Essa scaturiva non dal rifiuto categorico del modello di modernità che ha al proprio cuore la globalizzazione e l’industrializzazione, ma attraverso quelle nuove connessioni che resero possibile a questioni che altrimenti sarebbero rimaste confinate al locale una rilevanza globale.
Alberto Girardi Migliorisi