Il 16 novembre 2023, presso l’Università degli Studi di Milano, si è tenuto il convegno “Studiosi del mondo antico in Europa tra le due guerre”, coordinato da Laura Mecella, e parte del seminario di studio PRIN 2017 “Studiosi italiani di fronte alle leggi razziali (1938-1945): storici dell’antichità e giuristi”. Il convegno si è aperto con i saluti di Andrea Gamberini, direttore del Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano, che ha ricordato come il tema del convegno sia posto in continuità con altre linee di studio seguite nello stesso dipartimento. Laura Mecella ha poi brevemente introdotto i lavori ricordando come tale progetto, iniziato sei anni fa, abbia come oggetto l’impatto che le leggi razziali ebbero sugli studi storici, e segnatamente sull’antichistica. Ha poi sottolineato, attraverso le parole di Henri Marrou, come ogni indagine storica si muova tra due piani: quello del passato e quello del presente dello storico, e come ciò ci inviti a una maggiore analisi critica per non incorrere in schemi semplicistici. Ha inoltre ricordato come il clima culturale del primo dopoguerra sia stato decisivo per la formazione delle distorsioni che hanno connotato gli anni ’30 e la prima parte degli anni ’40 del Novecento, e che in alcuni casi echi presenti nei lavori di quest’epoca abbiano resistito al tempo, sopravvivendo ben oltre il secondo dopoguerra.
La sessione del mattino è stata moderata da Massimo Gioseffi e il primo intervento, di Hartwin Brandt (dell’Università di Bamberg), è stato dedicato a “Hermine Speier (1898-1979): un’archeologa ebrea tedesca nell’Italia fascista”. Il relatore si è soffermato sull’intreccio tra la storia personale della studiosa e la storia politica del suo tempo. Assunta nel 1929 dal “Germanico” (ovvero il Deutsches Archäologisches Institut di Roma) e cacciatane nel 1934, per motivi razziali, ella fu assunta nei Musei Vaticani, grazie al generoso aiuto di Bartolomeo Nogara e del suo maestro Ludwig Curtius, per occuparsi della fototeca. Protetta e nascosta dal Vaticano, rischiò tuttavia per ben due volte la vita durante l’occupazione tedesca di Roma. Nel dopoguerra ricevette dallo stato tedesco la proposta di tornare in Germania. Rifiutò, per gratitudine verso chi l’aveva accolta. La Speier rappresenta sicuramente un chiaro esempio di quello che molti studiosi ebrei dovettero affrontare negli anni ’30-’40. Nel suo caso la storia ebbe un lieto fine.
A seguire, Vittorio Saldutti (dell’Università di Napoli Federico II) ha presentato una relazione dal titolo “Democrazia e dittatura tra antico e contemporaneo. L’ascesa del fascismo secondo Ettore Ciccotti”. Egli ha messo ben in luce come la vita di studioso di Ciccotti sia inscindibile dai suoi interessi ed impegni politici. Saldutti ha notato, in Ciccotti, tre evoluzioni politiche e conseguentemente tre usi diversi della storia antica: al periodo socialista, corrisponde un interesse per Atene e la costituzione di Licurgo: poi, a seguito della rottura col partito, Ciccotti si avvicinò, fino al 1925, al fascismo e, contemporaneamente, studiò la Roma di Clodio e auspicò una dittatura imperiale in grado di riportare l’ordine; infine, la sua decisa conversione a posizioni critiche del regime si tradusse, sul piano dello studio storico, a un ritorno ad Atene. Riguardo a quest’ultima evoluzione, il relatore ha osservato anche un cambio metodologico: per l’ultimo Ciccotti, la comparazione tra due epoche storiche sarebbe possibile solo attraverso il confronto tra istituzioni e strutture, non tra singole personalità. Dall’esperienza di Ciccotti è evidente come la storia antica fosse usata sia in sostegno che in sfavore degli avvenimenti politici, anche a costo di una applicazione, di fondo, sbagliata.
La terza relazione, “Il Sofocle (1931) di Heinrich Weinstock (e la sua ricezione in Italia)”, è stata esposta da Sotera Fornaro (dell’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli). Dopo una breve introduzione sulla figura di Weinstock e le su relazioni con il nazionalsocialismo tedesco, la relatrice ha concentrato le sue riflessioni su due opere di Weinstock: la “Polis” e il “Sofocle”. Della prima, la cui lettura fu proibita dal Reich a partire dal ‘36, ha messo in risalto la connessione con il cosiddetto “Terzo Umanesimo” di Werner Jaeger. Riguardo al “Sofocle”, Fornaro ha sostenuto che Weinstock avrebbe applicato al tragediografo i propri modelli, ponendolo al di fuori della storia: Sofocle, cioè, avrebbe messo in scena dei personaggi che rappresentano dei simboli universali di valori, per lo studioso in gran parte coincidenti con quelli proposti dal nazionalsocialismo. Weinstock è un esempio di continuità tra il pre e il post seconda guerra mondiale, il suo “Sofocle”, sebbene privo della premessa del 1931, fu ripubblicato nel 1948.
La sessione si è conclusa con il contributo di Lorena Atzeri (dell’Università degli Studi di Milano), intitolato “Contatti tra la romanistica inglese e quella italiana tra le due guerre”. Dopo un excursus sul panorama romanistico europeo fino agli anni ’40 del Novecento e dopo aver dato a Pavel Vinogradoff il merito della nascita di un primo vero interesse inglese per gli studi italiani in materia di diritto romano, la relatrice ha presentato la figura di Francis de Zulueta, professore di diritto civile a Oxford. Egli fu il più importante promotore dei contatti tra la romanistica italiana e quella inglese, coltivando le amicizie strette in occasione del IV congresso internazionale di studi storici (1913). Tuttavia, negli anni ’20, i contatti degli inglesi con i romanisti italiani erano ancora quasi del tutto esclusivamente personali. Inoltre, all’interesse degli inglesi non corrispondeva una pari attrazione degli italiani verso i colleghi d’oltre Manica. Di ciò Zulueta ebbe molto di rammaricarsi, almeno fino al 1933, quando finalmente fu invitato a partecipare al Grande Convegno della romanistica tenutosi in Italia. In conclusione, la relatrice ha voluto ricordare come questa tardiva apertura della romanistica italiana nei suoi confronti spinse Zulueta a tentare, nel 1938, di coinvolgere gli italiani in un progetto editoriale. L’atmosfera internazionale non era però più favorevole, e pertanto il progetto non ebbe seguito.
In seguito ai lavori del mattino, il seminario riprende nel pomeriggio con la relazione di Francesco Mores (dell’Università degli Studi di Milano): “Ernesto Buonaiuti e l’ebraismo”. La figura di “don Ernesto” è, indubbiamente un importante crocevia della cultura italiana del Novecento. Prima di essere scomunicato per una pubblicazione sulla personalità di Paolo di Tarso, Buonaiuti tenne un corso di Storia ecclesiastica sull’età antica nell’anno 1904-1905, a testimonianza di una vivacità culturale e intellettuale confermata, altresì, da una bibliografia copiosa. Elemento centrale delle sue lezioni sul mondo antico – tenutesi a un anno dalla sua ordinazione sacerdotale – è, certamente, il rapporto tra ebraismo e cristianesimo, analizzato secondo un’ottica teologicamente orientata: Buonaiuti non è, invero, interessato a ricostruire storicamente la relazione della fede ebraica con la religione cristiana, le cui radici semitiche sono ridimensionate perché ritenute poco rilevanti. Per don Ernesto il giudaismo non è altro che la dimora del cristianesimo dei primi tempi, il cui sviluppo successivo è connesso ai fatti del 70 d.C. Interessante è, inoltre, il rapporto di Buonaiuti con l’antisemitismo. Quantunque avverso a quest’ultimo e alla condotta fascista, che, sulle orme della politica razziale nazista, aveva voluto trapiantare in Italia la caccia agli ebrei, oblio del senso di fraternità supernazionale, il sacerdote asserisce, in verità, che l’abominio dell’antisemitismo è un’espiazione e un ristabilimento dell’equilibrio violato dal popolo ebraico, che nel mondo coevo – così come nell’antichità – aveva operato secondo modalità moralmente deprecabili. Alle ambiguità del religioso si contrappone, invece, la nettezza di giudizio di Arnaldo Momigliano, che in Pagine ebraiche ascrive la barbarie coeva all’ostilità delle chiese, per cui la conversione è l’unica soluzione al “problema ebraico”.
Alla relazione di Mores segue poi il lavoro di Edoardo Bianchi (dell’Università degli Studi di Verona) sul respiro internazionale della carriera di Mario Segre. Nato a Torino nel 1904 e morto, drammaticamente, ad Auschwitz nel 1944, nel corso della sua carriera Segre ha dimostrato di essere uno studioso metodico, appassionato, che, nonostante l’effimero percorso accademico, è riuscito a produrre oltre cento pubblicazioni scientifiche, guadagnandosi la stima di personalità eminenti come Gaetano De Sanctis e Arnaldo Momigliano. Egli ha, invero, saputo allacciare relazioni con numerosi accademici internazionali – secondo una trama ricostruibile tramite una documentazione d’archivio –, sebbene tale capacità non fosse incentivata dal contesto storico contemporaneo. Tra il 1930 e il 1940, Segre vince una serie di borse di studio, grazie alle quali si sposta in area egea. In questa regione, l’obiettivo degli studi è valorizzare le tracce dei legami tra l’Italia e il panorama locale al fine di legittimare l’occupazione militare del territorio, iniziata nel 1912. A Rodi e nel Dodecaneso viene, pertanto, adottato un approccio storiografico militante e volto a dimostrare la grandezza della civiltà italiana, che avoca a sé la ricerca sul patrimonio culturale dell’area in questione, disincentivando al contempo il lavoro degli studiosi stranieri. È in questa dinamica che emerge, quindi, l’eccezionalità della proiezione di Segre, il quale mostra rispetto per le ricerche nell’Egeo dei colleghi provenienti da altre nazioni. Un anno cruciale per la carriera dello studioso nato a Torino è il 1936, perché – grazie alla competenza acquisita in precedenza sul campo – questi viene incaricato della redazione di un corpus delle iscrizioni delle isole egee rivendicate dall’Italia. Ancora una volta, nello svolgimento del suo lavoro, Segre procede nel rispetto dell’operato dei colleghi (in particolare danesi), sincerandosi che costoro possano pubblicare i materiali da loro scoperti, prima di continuare lo sviluppo del corpus. Con le leggi del 1938, egli viene poi sollevato dagli incarichi ufficiali di ricerca e, in quanto ebreo, è costretto a guardare fuori dall’Italia per inserirsi presso università e istituti stranieri (es. inglesi). Le sue ricerche sono notevolmente apprezzate da colleghi d’oltralpe come Marcus Todd, il quale ha modo di incontrarlo nel 1938 al Congresso di epigrafia di Amsterdam e riconosce il suo status di first class scholar. È proprio Todd a cercare, infatti, di aiutare lo studioso nel momento del bisogno, prendendo contatti con i colleghi d’oltreoceano per l’inserimento negli istituti americani di colui che viene considerato come uno dei migliori epigrafisti italiani in attività. Tali sforzi, però, risultano vani e, dopo un biennio di voci contraddittorie sulle sorti di Segre, nel settembre del ’46 Todd appura la notizia della sua morte tramite le rivelazioni del dottor Momigliano.
Al termine dell’esposizione della drammatica vicenda di Segre, il seminario prosegue con una relazione di Daniela Bonanno (dell’Università degli Studi di Palermo) dedicata in modo particolare alla Storia greca di Helmut Berve, storico del mondo antico, la cui esperienza di ricerca si sviluppa tra le due guerre. Il giudizio scientifico sull’opera di Berve ha a lungo diviso gli studiosi, in ragione della sua connivenza nei riguardi del nazismo. Nato da una famiglia di banchieri, Berve si avvicina presto alle discipline umanistiche, combinando le aspirazioni letterarie allo studio del mondo antico. Nel 1933 aderisce al nazionalsocialismo e intraprende, quindi, una carriera folgorante, che – all’inizio degli anni Quaranta – lo porta a raggiungere i vertici della gerarchia accademica. La sua Storia greca – reiteratamente tradotta in italiano – è recepita con immediatezza e simpatia nella Penisola dallo studioso Piero Treves, il quale la delinea come il prodotto di una nuova storiografia, un moderno libro d’anima più che di indagine storica, discutibile solo per il suo focus sulla contrapposizione tra ioni e dori. Siamo negli anni immediatamente precedenti all’invasione della Polonia e, in questo periodo, Berve appare notevolmente coinvolto nella propaganda del Reich, coadiuvata dallo studio dell’antichità, che lo storico considera imprenscindibile per la comprensione della questione razziale. Berve asserisce, invero, che il risvegliato spirito del popolo tedesco fa di quest’ultimo l’erede della civiltà greco-romana. L’aspetto sorprendente del suo percorso, che in questo senso risulta affine alla vicenda di Weinstock, presentata da Sotera Fornaro, è la continuità dimostrata dall’opera dello studioso tedesco all’indomani della guerra: quattro anni dopo la fine del conflitto, nel 1949, Berve tiene dei corsi presso l’Università di Monaco, a dimostrazione di un’epurazione che non sembra aver interessato il mondo degli studi. In questo contesto di unanime apprezzamento per la sua opera, fatta tradurre da Laterza per il pubblico italiano, la voce di Momigliano appare fuori dal coro: egli ne denuncia, infatti, la scarsa originalità e la tendenza a leggere la storia greca nella chiave di una tensione continua tra ioni e dori. Momigliano parla poi con imbarazzo della connivenza di Berve con il nazismo, le cui tracce emergono dai suoi studi; definisce questo testo inutile per il pubblico e gli studenti italiani e, soprattutto, deplora il fatto che i traduttori italiani abbiano trascurato la vicenda biografica dell’autore. La Bonnano, in merito a quest’ultimo aspetto, conclude che su tale silenzio ha, innegabilmente, influito la notoria clemenza del mondo accademico nei riguardi di lavori ben fatti e la tendenza a considerare la storia della storiografia come un passatempo domenicale.
In seguito alla presentazione dei lavori pomeridiani, tenutasi sotto la presidenza di Maurizio Giangiulio (dell’Università di Trento), il seminario si conclude con una stimolante discussione, all’interno della quale ritornano i temi dell’uso strumentale della storia, impiegata dal potere in chiave legittimante, della vicenda degli studiosi dimostratisi corrivi nei riguardi del nazionalsocialismo o, al contrario, della drammatica sorte degli intellettuali perseguitati per la loro origine ebraica.
Un’interessante chiave di lettura per la storia della storiografia e, in generale, degli studi umanistici sviluppatisi tra le due guerre, come sottolineato da Laura Mecella, è infine quella che, alla discontinuità richiesta dalla condanna delle atrocità delle dittature, oppone la resilienza, immune ai contraccolpi dei cambiamenti politici e matrice del pervicace successo di letture del passato sovente distorte.
Salvatore Calciano e Livia Emilia Dorotea Spolidoro