Nell’ambito delle giornate di BookCity Milano, il 17 novembre, all’incontro Medioevo utopico, medioevo distopico, è stato presentato il volume Vere storie di medioevi falsi. Esempi, pretesti, metodologie, edito dall’Istituto storico italiano per il Medio Evo e curato da Marina Gazzini. Sono intervenuti: Marina Gazzini, prof.ssa di Storia medievale all’Università degli studi di Milano; Marina Montesano, prof.ssa all’Università di Messina; Emanuel Curzel, prof. di Storia del cristianesimo e delle chiese all’Università di Trento; Thomas Frank, prof. di Storia medievale all’Università di Pavia; Fiametta Modica, G.U.P. del Tribunale di Milano. Si è trattato di un incontro utile per fare il punto su un tema dalle mille sfaccettature, quello delle narrazioni distorte sopra il medioevo. Nel suo intervento introduttivo, la curatrice del volume si è soffermata sulle diverse declinazioni del falso medievale, da quello meramente contenutistico a quello diplomatistico, non tralasciando quei documenti dal contenuto veritiero confezionati però solamente in un secondo momento. Il medioevo, da questo punto di vista, è stato non solo un’officina molto creativa per le numerose falsificazioni riconducibili a quest’età, ma anche oggetto di interpretazioni fallaci sviluppatesi in epoche successive. La storiografia, ad esempio, è concorde nel ritenere falsi metà dei documenti merovingi e carolingi. E false sono parimenti quelle credenze che tuttora hanno un forte impatto sull’immaginario collettivo, come lo stereotipo dello ius primae noctis o le idee, contrapposte, di un medioevo delle barbarie e di un medioevo giullaresco.
I relatori presenti all’incontro hanno tutti insistito, da prospettive diverse, sul fatto che lo storico sia chiamato ad impiegare in maniera adeguata la propria strumentazione analitica, senza incappare nel rigido schematismo oppositivo vero-falso. Antinomia questa che non appartiene alla storiografia, ma alla giustizia. O meglio, come sostiene Gazzini nel contributo Vere storie di medioevi falsi: metodo e contenuti (pp. 11-20), «lo storico non giudica e non demonizza il falso. E questo non solo perché evita il controproducente atteggiamento definibile come “ratio-suprematismo”. Suo scopo, infatti, non è mettere alla berlina chi ha inventato le fake news e la loro demolizione, ma la ricostruzione dell’ambiente che ha prodotto il falso e la comprensione delle sue finalità»[1]. Messa da parte l’antinomia vero/falso e il concetto di verità per far posto a categorie come ‘autentico’, ‘reale’ e ‘verosimile’, la questione in fondo sembra riecheggiare la problematica metodologica e tecnica che sta alla base della distinzione elaborata da Benedetto Croce fra res gestae e historia rerum gestarum; distinzione che, come osservava Delio Cantimori, voleva essere «un richiamo alla serietà dello storico […] strumento che possa garantire lo scrupolo di veridicità che ogni studioso possiede», paragonabile a «tutti gli accorgimenti ai quali fanno ricorso gli sperimentatori di scienze naturali, affinché la presenza (respiro, calore, ecc.) del corpo umano non deformi le esperienze capillari che compiono, influendo sugli strumenti delicatissimi che adoperano»[2].
Il falso è un fatto umano poiché riproduce un proposito connesso alla volontà particolare di un individuo – o del gruppo cui appartiene – che lo ha elaborato. Nell’ampio panorama della critica delle fonti, lo storico, ponendosi di fronte ad esso come ad un’azione determinata in un certo ambiente sociale e in una certa epoca, ha il dovere dunque di esaminarlo ed interrogarlo alla stregua di un documento ritenuto autentico, senza distinzioni e preconcetti di sorta. Il falso è indicativo di un’intenzione, di una progettualità (seppur celate queste in un atto non rispondente alla realtà dei fatti) e, in tal senso, merita la medesima considerazione di fonti ufficiali. In ambito storiografico è bene così tendere verso di esso come ad un prodotto vero, in quanto vera è la storia che racconta il falso. «Soprattutto – come scriveva Marc Bloch –, una menzogna, in quanto tale, è, a suo modo, una testimonianza […] Ecco dunque la critica volta a cercare, dietro l’impostura, l’impostore; come dire, in conformità al motto stesso della storia, l’uomo»[3].
Marina Gazzini ha quindi presentato i saggi raccolti nel libro, complessivamente tredici, che ruotano intorno a tre assi di ricerca: La storia tra usi, riusi e abusi contemporanei; Il medievista e le sue armi critiche: la filologia, il diritto, la paleografia, la filosofia; Il medioevo che non c’è: anacronismi, stereotipi, negazionismi.
Autrice del saggio su Stregoneria e caccia alle streghe (pp. 231-252), Marina Montesano ha illustrato in che modo i fenomeni della stregoneria e della caccia alle streghe costituiscano un osservatorio privilegiato per indagare la costruzione di falsi documentari e di rappresentazioni stereotipate. È infatti opinione di molti che i processi per stregoneria siano invenzione del ‘buio’ medioevo piuttosto che del ‘moderno’ e ‘splendente’ rinascimento; del pari, l’idea che la stregoneria sia un fenomeno soltanto ‘al femminile’ continua ad alimentare l’immaginario contemporaneo. Nella fabbricazione di questi ed altri clichés ha agito senz’altro una divulgazione non sempre aggiornata alle più recenti acquisizioni storiografiche; ma non va dimenticato che essa è anche scaturita dall’iniziativa di falsari provetti, adusi alle armi della critica e dell’erudizione e perciò abili nel costruire artatamente testimonianze per suffragare questa o quella tesi: d’altra parte, come osservato da Antonio Brusa nel suo Prontuario degli stereotipi e delle false conoscenze medievali(pp. 291-309), la matrice di molti immarcescibili stereotipi è propriamente ‘colta’. A questo proposito, la studiosa ha ricordato la vicenda assai istruttiva di Étienne-Léon de Lamothe (1786-1864), scrittore prolifico che si dilettava nella ricerca medievistica e nella falsificazione delle fonti; egli inventò di sana pianta resoconti – particolarmente fortunati – inerenti alla stregoneria e alla caccia alle streghe, che avrebbero consentito di individuarne le origini negli anni compresi tra l’ultimo quarto del Duecento e la metà del Trecento. Infine, Montesano ha richiamato l’importanza di una conoscenza storica fondata sulle fonti, attraverso cui affilare la lama della consapevolezza critica, sempre imprescindibile per chi non voglia indulgere alle vulgate.
L’antisemitismo è stata, e continua ad essere, l’anticamera dell’associazione di infondati atti inumani agli ebrei. L’avversione verso l’etnia semita è un fenomeno risalente nel tempo, ma essa, come ben noto, si è stratificata nel corso della storia fino a costituire un termine di discrimanzione tuttora in vigore. Nel suo contributo intitolato Il simonino nel XXI secolo. Le lunghe onde di una fake news quattrocentesca (pp. 253-269), Emanuele Curzel si sofferma su un episodio paradigmatico di antisemitismo medievale e sulle sue propaggini fino ai giorni d’oggi. Nella Pasqua del 1475 un bambino di nome Simonino fu rinvenuto morto a Trento. Si trattava evidentemente di un omicido e la colpa fu imputata alla locale comunità ebraica dal vescovo-principe della città, Johannes Hinderbach. Le carte processuali, in realtà, non dimostrano in maniera incontrovertibile che fossero stati gli ebre i carnefici del fanciullo, ma ciò non bastò a fermare il potente dispositivo religioso e giudiziario che la massima autorità trentina decise di avviare: fu infatti prontamente elaborato un culto del fanciullo, il quale si rivelò funzionale alla condanna e all’emarginazione degli ebrei di Trento. Costoro furono arrestati e torturati e le loro case vennero distrutte. La devozione verso Simonino ebbe un rapido successo e solamente nel 1965 – ben cinque secoli dopo il misfatto! – la società e la Chiesa trentine ammisero l’inconsistenza delle accuse rivolte alla comunità ebraica. A partire da questa vicenda, Curzel si interroga nel suo intervento sul concetto di autenticità, sottolineando che, sul piano storiografico, il contrario di ‘falso’ debba essere appunto ‘autentico’. Ciò però non implica, come nelle carte processuali del Simonino, che un documento autentico non possa dire cose false ed è in questo caso, sostiene Curzel, che lo storico è chiamato a ricostruire i fatti in un modo che sia verificabile nella realtà. La vicenda del Simonimo, per molti secoli, è stata infatti ritenuta autentica, in quanto la curia romana aveva dichiarato che il processo si fosse svolto in maniera regolare: a reggere la verità storica dell’omicidio perpetrato dagli ebrei fu il tribunale e ciò contribuì certamente alla sedimentazione plurisecolare di un culto nato da un’accusa infondata.
Thomas Frank, occupatosi di Falso e verità nella politica medievale e moderna (pp. 191-211), ha voluto sottolineare come i concetti di verità e menzogna, applicati attraverso le categorie interpretative di Hannah Arendt allo studio dell’attività più ingannevole, cioè la politica, appaiano alquanto fluidi e sfrangiati. Lo studioso ha quindi richiamato l’attenzione su un sistema di coordinate, elaborato da Carlo M. Cipolla e analogo al grafico da questi adottato per le celebri ‘leggi fondamentali della stupidità umana’[4], utile per discernere autentico e falso; uno strumento di lavoro che potrebbe rivelarsi profittevole anche per indagare problemi che esulano dal suo target storico-economico, direttamente riguardanti l’ambito della critica e della tradizione testuale. Infine, Frank ha rilevato somiglianze tra il nostro presente e l’epoca medievale; nella fattispecie, affinità si possono cogliere sotto il profilo dell’informazione e del modus communicandi: la frammentarietà dell’informazione nel medioevo può infatti ricordare la ‘tribalizzazione’ dell’informazione dei giorni nostri; del pari, l’indebolimento della figura dell’autore e la contestuale affermazione di una nuova oralità ha il suo parallelo nell’epoca medievale.
Un tema sempre di grande attualità, come quello del rapporto tra attività giuridica e pratica storiografica, ha costituito la cornice di riferimento per le riflessioni della giudice Fiammetta Modica. Sulla scia del saggio di Gianmarco De Angelis e Francesco Mores, Il giurista e lo storico (pp. 213-228), innervato da un articolo dal titolo analogo di Piero Calamandrei, le osservazioni di Modica, arricchite da esemplificazioni e riferimenti biografici, hanno permesso di vedere in vitro lo svolgersi dell’attività giuridica, mettendone in luce le differenze rispetto a quella storiografica. Al netto delle analogie – come lo storico il giudice è chiamato a indagare e a ricostruire i fatti del passato –, si sono ribadite divergenze sostanziali tra le due attività, tanto sotto il profilo metodologico che pratico: occorre infatti mantenere salda la distinzione tra chi mira all’accertamento di una realtà processuale e a definire una sentenza – destinata all’intangibilità (principio sotteso alla certezza del diritto) – e quanti intendono ricostruire una realtà storica che si presta, senza limiti, ad essere ridiscussa e approfondita affinché si raggiunga una maggiore esattezza nella sua conoscenza (del resto, come osservava Max Weber, «ogni lavoro scientifico “compiuto” comporta nuovi “problemi” e vuol invecchiare ed esser superato»[5]).
A conclusione dell’incontro, Marco Brando, giornalista e saggista, è intervenuto a proposito del rapporto tra giudice e storico, richiamando le vicende intricate che portarono al processo di Adriano Sofri. Infine, Brando ha sottolineato come certi stereotipi sul medioevo e i suoi protagonisti (basti pensare a Federico II) – e certe invenzioni, su tutte quelle della mai esistita figura di Alberto da Giussano – continuino ad alimentare l’immaginario politico-culturale anche ai giorni nostri.
Renato Cameli – Andrea Papi
[1] M. Gazzini, Vere storie di medioevi falsi: metodo e contenuti, in Vere storie di medioevi falsi. Esempi, pretesti, metodologie, a cura di Ead., Roma 2023, pp. 14-15.
[2] D. Cantimori, Storia e storiografia in Benedetto Croce, in Id., Storici e storia, Torino 1971, pp. 397-409: 408.
[3] M. Bloch, Apologia della storia o Mestiere di storico, Torino 2009, pp. 72-73.
[4] C.M. Cipolla, La storia economica, Bologna 2005; Id., Allegro ma non troppo. Con le leggi fondamentali della stupidità umana, Bologna 1988.
[5] M. Weber, Il lavoro intellettuale come professione. Due saggi, Torino 19713, p. 18.