Marina Benedetti insegna Storia del cristianesimo presso l’Università degli Studi di Milano. Si è spesso occupata di eresie e inquisizione, con uno sguardo attento al mondo femminile e con un vivo interesse per il tema della conservazione e trasmissione della documentazione medievale. Quest’impostazione di storia culturale e del documento caratterizza anche Medioevo inquisitoriale, il cui intento primario è suggerito dal sottotitolo stesso (Manoscritti, protagonisti, paradossi): l’autrice, infatti, si ripropone di contrastare i luoghi comuni consolidati in ambito divulgativo e storiografico, concentrandosi su inquisitori, inquisiti e loro documenti. L’obiettivo non è scrivere una storia organica dell’inquisizione in Italia, ma «suggerire piste di ricerca meno sperimentate (e forse più promettenti)» (p. 13), anche raccogliendo i risultati di lavori precedenti.
L’opera è composta, oltre che da un’introduzione e una conclusione, da dieci capitoli raccolti in cinque parti più ampie, che cronologicamente spaziano fino ai primissimi anni del XVI secolo, coerentemente con la volontà di indagare l’inquisizione medievale, ben diversa dal Santo Uffizio di età moderna. Più problematica è la scelta del punto d’inizio dell’analisi, in quanto l’origine dell’inquisizione è un tema complesso al centro del dibattito storiografico e ad esso è dedicata tutta la prima parte del testo. Non esiste una data di nascita accettata unanimemente dagli studiosi, ma in genere si concorda sul pontificato di Gregorio IX. Nelle più antiche biografie di questo pontefice, però, non si fa menzione di ciò, segno che fissare un inizio è, in realtà, un problema storiografico eminentemente del presente. Un’analisi attenta del registro papale permette, tuttavia, di individuare un’anomalia: l’inconsueto rilievo grafico dato ad una lettera del 1231 consente di riconoscere questa data come momento d’avvio. Non bisogna, ad ogni modo, dimenticare che la genesi dell’officium inquisitionis è policentrica e dovuta a disposizioni normative emanate sia dal papa sia dall’imperatore Federico II, in parallelo e costante competizione. In questi decenni iniziali, inoltre, il 1252 è un momento fondamentale, perché si registra una forte svolta repressiva, paradossalmente grazie all’assassinio di un inquisitore. La morte di frate Pietro da Verona, subito presentato come un santo, si fa, infatti, provvidenziale per i suoi colleghi della sede di Milano, che riescono a rafforzare i propri poteri e consensi. Il caso rimane tutt’oggi un cold case, ma molti degli imputati, presentati come eretici “catari”, avevano ricoperto precedentemente cariche politiche nel contesto milanese: l’azione degli inquisitori svela, dunque, anche una dimensione politica.
Come esplicitamente affermato nell’introduzione, l’approccio alle fonti vuole essere meno stereotipo e astratto. L’attenzione è, perciò, rivolta a ciò che viene definito “avventura documentaria”: fondamentale diventa la ricostruzione della “storia del documento” prima ancora della “storia nel documento”. Ciò significa concentrarsi sulla textual transmission, cioè sulla conservazione e trasmissione dei documenti. Inoltre, le fonti sfruttate per questa indagine sono varie e, anzi, in alcuni casi si tratta di tipologie finora poco studiate. Questo aspetto, presente in tutto il volume, emerge con forza nella sua seconda parte, incentrata sui libri degli inquisitori. Anzitutto viene rimarcato come l’idea dell’esistenza di luoghi specifici per la conservazione dei testi è un luogo comune: essa è a cura dei singoli titolari dell’officium fidei, che creano delle biblioteche-archivio specialistiche in costante espansione e aggiornamento. I libri sono conservati “sotto chiave” nelle celle degli inquisitori (ma pure nella sacrestia): questo traspare chiaramente nei loro libri contabili. I processi inquisitoriali hanno, ad ogni modo, una trasmissione multidirezionale e una collocazione eccentrica, grazie al coinvolgimento nella loro custodia dei collaboratori degli inquisitori: un ruolo primario per la salvezza delle fonti è ricoperto, quindi, dai notai e i loro archivi. È giusto notare che anche gli eruditi di età moderna rappresentano un tassello imprescindibile per la sopravvivenza di documentazione (se non altro almeno in copia). Non va nemmeno trascurata la ricchezza tipologica degli scritti prodotti dagli inquisitori, mentre troppo spesso ci si è concentrati solamente sugli atti processuali. Tra le summae antiereticali, ad esempio, un vero best seller medievale è la Summa de Catharis del 1250 di Raniero da Piacenza, un ex cataro poi inquisitore: in essa le conoscenze di un pentito sono messe ad usum officii. Jacques Fournier fa, invece, un interessante uso personalistico degli atti giudiziari della sua attività inquisitoriale, trasformandoli in un libro di apparato autocelebrativo e autopromozionale, lasciato incompleto raggiunto l’apice del pontificato con il nome di Benedetto XII.
Anche il capitolo dedicato al caso di Siena mostra l’utilità di questo approccio alle fonti: un contesto finora trascurato ci svela, attraverso la legenda agiografica del beato Tomasuccio, la gestione violenta della repressione inquisitoriale (in Toscana affidata ai frati Minori), mentre la vicenda di Mino di San Quirico rivela il paradosso di un inquisitore-inquisito (per falso in bilancio), che diventa persino letteratura nel Decameron.
I frati Minori sono titolari dell’officium fidei anche a Todi e ciò gioca un ruolo importante nel Trecento in occasione della cosiddetta età dei processi, ben descritta nella quarta parte dell’opera. Giovanni XXII, durante il suo pontificato, ricorre spesso all’accusa di eresia contro i suoi avversari politici e religiosi, come i fautori di Ludovico il Bavaro di Modena, Parma e Reggio. Eresia è, quindi, soprattutto disobbedienza e questi veri e propri processi politici sono usati per il controllo della scelta politica, inclusa quella dei religiosi, come si vede proprio a Todi. Qui la ribellione è doppia: dei cittadini e dei frati Minori, che si rifiutano di obbedire al papa e sono accusati di eresia. Inquisitore, notai, delatore, inquisiti e antipapa sono, però, tutti frati Minori: è un paradossale cortocircuito interno all’Ordine e l’inquisitio prende quasi la forma di un’inchiesta disciplinare. Come tipico di quest’età, i processi sono svolti in contumacia e sono poi sottoposti a revisione e annullati, grazie al mutato contesto politico-religioso. Inoltre, i ribelli di Todi non sono menzionati nei manuali inquisitoriali coevi: d’altronde, non sono utili in un testo a fine operativo; non sono “eretici da manuale”.
Come rimarcato ulteriormente nel capitolo conclusivo (Per concludere: oltre i luoghi comuni), è giusto sottolineare che il ruolo dei frati Minori nella repressione ereticale, benché meno indagato rispetto a quello dei Predicatori, non è affatto secondario. Ciò è manifesto nel contesto alpino, dove attraverso il binomio inquisizione-crociata sono protagonisti nel Quattrocento di una continuità repressiva contro i Valdesi del Delfinato.
La vicenda valdese è trattata anche nella quinta parte del volume, accanto a quella di Amedeo Landi, un maestro d’abaco presso il Broletto di Milano: i due episodi sono accomunati da evidenti processi di trasformazione d’identità. Amedeo Landi è processato per eresia nel 1437 dopo le accuse di Bernardino da Siena, che dal pulpito agisce de facto come un inquisitore, perché il maestro aveva ostacolato il reclutamento di giovani per il nuovo convento dell’Osservanza. Sempre dichiarato innocente, dopo la morte subisce anche una deformazione delegittimante d’identità con l’inclusione in un trattato ereticale di una (mai esistita) secta Amodeitarum. I Valdesi sono, invece, oggetto di una demonizzazione con l’aggiunta, a quella giudiziaria, di una condanna morale, per cui sono imputati di partecipare a riunioni orgiastiche. A ciò si aggiunge un’accusa per immagini con l’identificazione della prima raffigurazione di streghe in volo come «des vaudoises»: il “metareale” si impone sulla realtà, falsificandola. Inoltre, entrambi i casi mostrano la validità della famosa definizione di Gioacchino Volpe di moto ereticale come moto di cultura: da un lato le lezioni del Landi intrise di radicalismo religioso, dall’altro i livres de poche (in volgare) che, usati nelle loro visite domestiche dai barba (ministri e predicatori itineranti valdesi), costruiscono tra i fedeli una consapevole identità religiosa.
Il tema dell’identità è molto forte anche nella terza parte del libro, dedicata al binomio santità-eresia: qui emerge, in particolare, la differenza tra “identità propria” e “identità attribuita” (già evidenziata da Grado Giovanni Merlo) e ritorna uno dei leitmotiv dell’opera, con il soffermarsi su un apparente paradosso. Santità ed eresia, infatti, non sono termini così antitetici come si potrebbe pensare, ma rappresentano aspetti complementari del governo della Chiesa medievale. Ciò è evidente nell’Italia settentrionale tra Duecento e Trecento, in cui Ordini Mendicanti e istituzioni ecclesiastiche si scontrano per il controllo della santità, con gli inquisitori che trasformano santi (popolari) in eretici. Questo dimorfismo tra eresia e santità è chiaro nel caso di Armanno detto Pungilupo: un dossier raccoglie parallelamente testimonianze pro sanctitate (promosse dai canonici della cattedrale di Ferrara) e pro heresi (sostenute dai frati Predicatori); nel 1301, infine, è emessa la sentenza di condanna, che lo rende definitivamente eretico. L’anomalia si ripresenta nel caso di Guglielma di Milano, in cui gli atti processuali sono anche fonti agiografiche di un culto appoggiato persino dai monaci di Chiaravalle: esso è, però, estirpato con la sua trasformazione in eretica nel 1300, forse perché concorrenziale al culto (non fortunato) di Pietro martire (cioè Pietro da Verona), santo dei frati Predicatori.
In definiva, dunque, Medioevo inquisitoriale sembra rispettare pienamente i propositi espressi nell’introduzione, suggerendo una più che convincente mappa per studi futuri.
Elena Nava