È una storia «senza storia»[1] quella che, secondo gli stessi Marco Armiero, Roberta Biasillo e Wilko Graf von Hardenberg, La natura del duce si prefigge di trattare, generalmente non approfondita in modo sistematico prima del loro contributo, datato 2022. Prima di questa data i tre autori si erano già impegnati nell’affrontare tematiche di storia dell’ambiente. Marco Armiero è infatti uno storico dell’ambiente, attualmente dirigente di ricerca part-time presso l’Istituto di Studi sul mediterraneo del CNR e direttore dell’Enviromental Humanities Laboratory del KTH di Stoccolma, già autore di Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX (Einaudi, 2013) e L’era degli scarti. Cronache del Wasteocene, la discarica globale (Einaudi, 2021). Roberta Biasillo è una storica dell’ambiente specializzata nella storia ambientale del colonialismo italiano e del rapporto tra stato e ambienti marginali dell’Italia liberale, che nel 2023 ha pubblicato Una storia delle Paludi pontine. Terracina dall’Unità alla bonifica integrale (1871-1928) (Viella). Wilko Graf von Hardenberg, ricercatore di storia dell’ambiente e della scienza alla Humboldt Universität di Berlino, è invece autore della prima storia del Parco Nazionale del Gran Paradiso in età fascista (A Monastery for the Ibex. Conservation, State, and Conflict on the Gran Paradiso, 1919-1949,University of Pittsburgh Press, 2021).
Seppur Armiero e von Hardenberg avessero anticipato i temi del libro nel 2013[2], l’interesse per il rapporto fascismo-natura non era stato precedentemente trattato con profondità cosicché, pur rigettando eventuali velleità enciclopediche, l’opera pubblicata da Einaudi intende collocarsi come un primo organico contributo allo studio di questo aspetto delle politiche fasciste.
Ad affermare che vi fosse stato un rapporto tra fascismo e natura, per quanto di ostilità del primo contro la seconda, fu nel 1989 con Ecology in the XX Century. A History (Yale University Press) Anna Bramwell, già autrice nel 1985 di Blood and Soil. Richard Walther Darré and Hitler’s “Green Party” (Kensal Press), in cui trattava dell’esistenza di un’«ala verde del movimento nazista»[3]. La tematica venne poi ripresa da Janet Biehl e Peter Staudenmaier, che analizzarono i legami tra i moderni ecologismi e le tendenze “ecologiste” del nazismo nel 1995 con Ecofascism: Lessons from the German Experience (AK Press), seguito nel 2011 da Ecofascism Revisited (New Compass Press).
Volendo allontanare l’idea di poter «misurare il grado di presunto ecologismo del regime fascista»[4], e quindi l’idea stessa di ambientalismo come immutabile categoria metastorica che permetta tali misurazioni, La natura del duce si prefigge di esaminare come questo avesse sviluppato un approccio alla natura funzionale alla propria politica: come il regime avesse «prodotto delle formazioni socioecologiche»[5]funzionali.
Gli studi sul fascismo, infatti, trattano spesso la retorica della bonifica, della terra e del territorio, delle politiche agricole e autarchiche ma, nonostante ciò, la storia ambientale del regime e la sua dimensione socioecologica, comprensiva quindi di una moltitudine di elementi (ideali e concreti) in relazione tra loro trasversalmente rispetto a politica, comunità e natura, non risultano essere state studiate come meriterebbero.
Per tracciare questo nuovo percorso, dunque, il primo capitolo del testo, affidato ad Armiero, viene dedicato al rapporto fascismo-natura incarnato nell’esperienza personale di Benito Mussolini riportata dalle biografie di Margherita Sarfatti e Rachele Mussolini: si individua quindi una radice personale, se così si può dire, di quell’atteggiamento impositivo che il fascismo, come mostrerà poi il libro, adotta rispetto all’elemento naturale. Questo atteggiamento è studiato nei capitoli II e III da Von Hardenberg e dallo stesso Armiero prendendo in esame alcuni dei momenti in cui l’idea viene in contatto con la realtà e l’immaginario si trasforma in azione politico-amministrativa: da una parte le imprese agricole (battaglia del grano) e di bonifica, dall’altro lo sviluppo autarchico del comparto tecnico italiano, con il suo idroelettrico e i suoi motori a gasogeno.
Ma non si può comprendere il rapporto tra un autoritarismo e l’ambiente senza valutare le forme concrete di trattamento del territorio: per esempio, nella formazione dei parchi nazionali Von Hardenberg ritrova alcune delle principali pulsioni ideali e propagandistiche del regime, ovvero il nazionalismo nella dimensione della memoria della Grande Guerra incarnata dal parco dello Stelvio, e la plasmazione di un passato artificiale di glorie italiche nel parco del Circeo, dalla forte impronta antropica (capitolo IV).
Nel capitolo V Biasillo affianca al trattamento vagamente conservazionista riservato alla natura nazionale, la dimensione della creatio ex nihilo propria dell’approccio ai territori coloniali italiani in Africa. La storica parla chiaramente di un’immagine propagandistica di miracolosa domesticazione delle colonie africane: un mito costruito per coprire un sostanziale fallimento delle politiche coloniali fasciste, che non portarono alcuno dei benefici promessi alla popolazione. Nel sesto e ultimo capitolo dell’opera la medesima autrice tratta di ciò che oggi sopravvive, nelle città e fuori, delle politiche ambientali e urbanistiche del ventennio fascista, soffermandosi su luoghi, monumenti ed eventi di cronaca la cui esistenza dovrebbe spingere la coscienza democratica del paese alla riflessione su una fase del proprio passato neanche troppo distante.
Sono sorvolati temi già ampiamente studiati come l’urbanistica fascista, l’inquinamento e la salute, per cui gli autori rimandano alla bibliografia, certamente nutrita (22 pagine). Ciò che, piuttosto, si cerca di delineare è un profilo poco conosciuto del volto del regime mettendo in relazione tra loro i diversi fenomeni e ambiti trattati nei singoli capitoli. L’opera riesce in questo scopo, evidenziando i tentativi del regime di modellare il territorio e la natura, con le parole da una parte e con politiche concrete dall’altra. Solo queste ultime però lasciarono tracce concrete dietro di sé, ancora oggi presenti nel panorama urbano e ambientale italiano: come esposto nell’ultimo capitolo, sono proprio tali elementi residuali del Ventennio a essere occasionalmente oggetto di confronti politici e ideologici, cui dovrebbe fare da controparte, come invocava la storica del fascismo Ruth Ben-Ghiat, un’opera di contestualizzazione storica della loro presenza atta ad arginare il rischio di renderli normali eredità di un passato violento privato della sua violenza dall’incoscienza.
Sebbene La natura del duce riesca ad aprire alcuni interrogativi presso il lettore su quale fosse il rapporto regime-natura, non sempre sembra riuscire a indicare un legame solido tra le due dimensioni: fino a che punto un provvedimento è determinato da necessità contingenti e interessi (di regime o individuali che siano) piuttosto che da un cosciente e programmatico atteggiamento verso la natura?
Si veda per esempio il tentativo, nel primo capitolo, di delineare una precisa attitudine di Benito Mussolini verso la natura analizzando alcuni passi delle sue biografie, riferiti a stagioni diverse della sua vita, scritti in momenti diversi da persone che ebbero posizioni e aspirazioni differenti. La biografia della Sarfatti è pubblicata nel 1925 in Inghilterra prima ancora che in Italia (The life of Benito Mussolini, Thornton Butterworth) e costruisce un Mussolini eroico fortemente propagandistico; le memorie di Rachele Mussolini (La mia vita con Benito, Mondadori) sono pubblicate nel 1948: la guerra è finita, il fascismo è stato deposto due volte, il dittatore è morto. Alcune memorie sono tratte poi dalla biografia stesa da Rachele stessa e Albert Zarca nel 1974 (Mussolini. An Intimate Biography by His Widow, Morrow), pubblicata negli Stati Uniti a quasi trent’anni dalla caduta definitiva del regime e quasi cinquanta dalla biografia sarfattiana. Gli stessi autori de La natura del duce non mancano di sottolineare le differenze tra i toni delle memorie di Donna Rachele, intimi e affettuosi, e la tensione propagandistica della Sarfatti, ma come riuscire a delineare coerentemente i contorni del rapporto duce-natura attraverso due opere provenienti da tempi e contesti tanto distanti? In che modo poi tale rapporto si travaserebbe, informandole anche solo in parte, nelle politiche concrete di un regime autoritario e burocratizzato che sempre ebbe a che fare con interessi privati, correnti interne e contesti non uniformi?
Da notarsi sono le difficoltà, segnalate dagli stessi autori nell’introduzione, a procedere a ricerche maggiormente approfondite in tempi di pandemia, considerando che le tematiche affrontate sono ampie e molto specifiche allo stesso tempo. La scelta di un numero maggiore di casi studio avrebbe forse aiutato il lettore a visualizzare alcune dimensioni in più tra quelle che compongono il rapporto, certamente sfaccettato, tra una società e il suo ambiente naturale.
Ciò in cui certamente riesce l’opera è provare l’esistenza nel fascismo di un atteggiamento di sfruttamento e trasformazione funzionale della natura, riuscendo a sollevare nel lettore interrogativi che si spera possano trovare risposte più approfondite in futuro: non va comunque dimenticato che si tratta, come già ricordato, di un primo contributo di sintesi su un tema quantomai ampio, complesso e dall’elevato peso specifico rispetto alla memoria e alla coscienza collettiva del nostro paese.
Pietro Nicola Bonetta
[1] M. Armiero, R. Biasillo, W.G. von Hardenberg, La natura del duce. Una storia ambientale del fascismo, Einaudi, Torino, 2022, p. X.
[2] M. Armiero, W.G. von Hardenberg, Green Rhetoric in Blackshirts: Italian Fascism and the Environment, in «Environment and History», vol. 19, n. 3 (2013), pp. 283-311.
[3] Armiero, Biasillo, von Hardenberg, La natura del duce, cit., p. X.
[4] Ibidem, p. XI.
[5] Ibidem, p. XI.