Il volume, nato dal progetto di dottorato dell’autrice, tratta l’attività politica di Oberto Pelavicino (Pellavicino o Pallavicino) nell’Italia padana della seconda metà del Duecento, concentrandosi in modo particolare sul rapporto con le città all’interno del suo dominio e il tipo di autorità, o egemonia, esercitato su queste. Si tratta di un’età di importanti cambiamenti storici: comuni e signori, Impero e Chiesa, guelfi e ghibellini. La studiosa si concentra su un personaggio poco studiato, spesso trascurato dalla storia medievale, al contrario di altri suoi contemporanei di certo più famosi: Ezzelino da Romano e Carlo d’Angiò per nominarne solo due. Non esiste, infatti, alcuna monografia recente incentrata totalmente sulla figura di Oberto «se si esclude il breve volume di Zippora Schiffer pubblicato nel 1910» (p. 2). Si tratta di un personaggio complesso, un uomo che riuscì a piegare la politica ai suoi interessi e a dominare la Lombardia per vari anni. Fu uno dei primi signori ad affermarsi su più città, creando una dominazione eterogenea, che divenne modello di imitazione e costituì la base per successive dominazioni, che trassero importanti insegnamenti da questa esperienza. Per la costruzione del volume sono state utilizzate diverse fonti per avere un ritratto il più possibile definito di Oberto: Annales Placentini Gibellini, registri e pergamene comunali (almeno per quelle città che ancora le conservano), Libri iurium, cronache, lettere ed atti notarili. La monografia ha un’ampia bibliografia, dove sono elencate le fonti edite ed inedite ed infine sono presenti appendici con trascrizioni dei documenti d’archivio.
L’autrice si concentra inizialmente sulla storia famigliare dei Pelavicini. Ramo dei marchesi Obertenghi, la famiglia deteneva i propri feudi nella zona della Liguria orientale, ai quali era legato il titolo marchionale. Tra XI e XII secolo ampliarono i propri possedimenti verso nord, in un’area compresa tra le città di Cremona, Piacenza e Parma, il fiume Taro e il Po. Col finire del XII secolo, lo sviluppo dei comuni cittadini e la loro forza espansiva verso il contado non riguardarono la famiglia, che a lungo si disinteressò della vita cittadina e di possibili alleanze con un comune o l’altro. Questa politica isolazionista aristocratica si interruppe, però, con Oberto. Nel 1217 questi ottenne in eredità dal padre un terzo dei beni e cominciò ad introdursi nel mondo cittadino svolgendo incarichi pubblici. Sin da subito si avvicinò alla causa imperiale, e allo stesso imperatore Federico II che rimase colpito dalle abilità militari del marchese e dal suo carisma.
La studiosa si concentra quindi, nel ricostruire l’ascesa politica del Pelavicino e sulle modalità con cui si impossessò del governo cittadino di varie realtà cittadine della bassa pianura orientale: Cremona (la prima e più durevole dominazione) (1249-1266), Piacenza (1253-1257 / 1261-1266), Pavia (1254-1266), Vercelli (1254-1264), Milano (1260-1264), Brescia (1260-1265), Alessandria (1262-1266) e Tortona (1262-1266). Ampio spazio è poi lasciato alle modalità di governo e di dominio del signore che si costituirono nei vari centri, imperniandosi su quella che quasi un secolo più tardi sarà definita come “tirannide velata”, una forma di governo che manteneva le istituzioni e le tradizioni comunali ma che permetteva al signore di agire come burattinaio nella scelta delle personalità che salivano al potere. Le signorie del Pelavicino funzionavano in questo modo, e la sola città nella quale rivestì costantemente una carica pubblica a titolo perpetuo fu Cremona.
La debolezza della sua signoria risiedeva proprio nel fatto di non essere investito di una carica pubblica: nonostante molte fossero affidate a famigliari o persone a lui vicine, nel momento di maggiore difficoltà il tutto tendeva a rompersi a favore di guadagni personali. Non sembra neppure ci sia stato il progetto per una successione dinastica al potere, fatto peculiare per un personaggio della nobiltà, che, tradizionalmente, è un ceto molto attento alle questioni ereditarie.
La mancanza di centralità della sua figura in tutti i centri da lui dominati fu quindi la principale causa di alta fragilità per il suo dominio. Gli studiosi, analizzando le sue modalità di dominio, hanno coniato il termine di «signori incapsulati» (p. 103). Si tratta di figure al comando della città che dovevano la loro autorità al Pelavicino, ma che erano anche legate alla pars Populi della città: «estremizzando potremmo dire che il governo si reggeva su un rapporto di do ut des, nel quale le parti (del marchese e degli incapsulati) si garantivano il potere a vicenda» (p. 107). Questi signori cercavano, allo stesso tempo, di ottenere maggiori poteri e di distaccarsi dal signore che li aveva posti al comando, per ottenere il controllo personale del centro. A complicare ancora maggiormente il quadro, è necessario inserire anche il problema delle fazioni, da sempre un’ulteriore spina nel fianco del marchese. Esclusa Cremona (il centro del ghibellinismo del nord Italia), all’interno delle altre città il predominio di una fazione sull’altra era determinato dalla potenza del papa o dell’imperatore: «legandosi a doppio filo ad un signore cittadino, esponente di una parte della città, (…) Oberto si condannò a seguirne il destino politico» (p. 107).
C’è poi la questione dell’ideologia e della concezione del potere per il Pelavicino. Attraverso l’analisi di alcuni documenti traspare come il marchese modificasse la propria autorità a seconda del contesto e del luogo. Ad esempio, solitamente era sempre presente il proprio titolo marchionale, mentre nella sola Cremona si identificò come podestà a vita per grazia divina (inserendo quindi la giustificazione teologica, tipica dei sovrani), mentre, nelle altre città del dominio era chiamato dominus o vicarius. L’Obertengo riusciva a esercitare questa sua autorità non solo per sue abilità militari, ma anche per il fatto di essere vicario imperiale. Dalle fonti emerge anche un ulteriore dato, ossia la commistione di elementi cancellereschi e notarili che compongono i documenti stessi. Elementi di due tradizioni diverse tra loro che esprimono la doppia anima di Pelavicino: da una parte portava avanti le caratteristiche della propria origine marchionale, dall’altra adottava e adattava le tradizioni cittadine.
L’autrice si concentra sulla provenienza geografica e sociale dell’entourage di Oberto, ossia delle personalità che lo coadiuvavano nel controllo, amministrazione e giustizia del suo dominio. Emerge come la maggior parte dei podestà delle città dominate provenisse dal distretto del centro stesso, e avessero quindi un’occupazione locale. Ciò rispecchia la politica pelaviciniana di favorire gli “amici” locali, soprattutto in quei centri di nuova acquisizione dove la fedeltà non era garantita. Inoltre, la totalità di coloro che rivestivano questo ufficio era di origine nobiliare: quasi un prerequisito data la necessità di dover condurre l’esercito (gli aristocratici erano gli unici con tale educazione).
Al contrario, per quanto riguarda la composizione della “famiglia” del podestà, quindi tutti gli ufficiali minori come giudici, notai e amministratori, si riscontra come un numero elevato provenisse dal centro più importante per il Pelavicino, Cremona, e facessero parte del Popolo.
Il libro si conclude con il crollo del dominio Pelaviciniano dovuto alla definitiva sconfitta del fronte imperiale a Benevento nel 1266, nella quale morì lo stesso Manfredi. Con il successo di Carlo d’Angiò e della fazione guelfa, i ghibellini d’Italia si trovarono in difficoltà. Già l’anno precedente Oberto fu sconfitto in battaglia a Nizza Monferrato e da questo momento iniziò lo sgretolamento del suo dominio. Le truppe angioine entrarono a Milano per poi dirigersi a Brescia, senza essere affrontate dall’esercito del Pelavicino. In questo clima di disfatta le sole città a rimanere fedeli al loro signore furono Cremona, Piacenza e Pavia. Consapevole di essere ormai impossibilitato a compiere qualunque azione militare, il Pelavicino con i suoi ultimi alleati consegnò le città ai legati pontifici, stipulando una pace. Si ritirò così a vita privata nelle sue proprietà dove morì pochi anni più tardi.
Andrea Pagani