Il giorno 8 aprile, Antonio Varsori, professore emerito di Storia delle relazioni internazionali dell’Università degli Studi di Padova e già titolare di cattedre “Jean Monnet” di storia dell’integrazione europea, ha tenuto la conferenza “L’Unione Europea negli anni Novanta: una nuova “potenza” nello scenario globale?” nell’ambito del corso di Storia contemporanea del professor Mauro Elli. Nell’introduzione alla conferenza, il professor Elli ha evidenziato – a partire dal titolo di uno dei capitoli del libro” Storia della costruzione europea, dal 1947 a oggi” dello stesso Varsori- la riflessione che ha dato origine alla conferenza: negli anni Novanta, nel mutato contesto della comunità internazionale, la nuova Unione Europea poteva ricoprire il ruolo di “potenza”?”. Quale senso attribuire oggi, a distanza di circa trent’anni al dibattito sulla categoria di “potenza civile”?
Il professor Varsori ha iniziato mettendo dapprima in risalto le difficoltà dell’affrontare in maniera scientifica lo studio dell’integrazione europea. Trattandosi, prima di tutto, di un processo ancora in corso non è facile superare l’atteggiamento personale da cittadino, coinvolto quindi direttamente nel mondo, in favore di un approccio da storico, quindi appropriato a uno studio scientifico, distaccato. Altre difficoltà emergerebbero dalla “giovinezza” degli ambiti degli studi europei, per i quali bisogna ancora mettere a punto un metodo condiviso, e dal fatto che sono in larga misura favoriti e promossi dalle stesse istituzioni europee. Infatti, l’UE è una grande produttrice e dispensatrice di fonti per lo studio scientifico nei più svariati campi, generando in questo modo consenso. Riguardo al testo “Storia della Costruzione Europea” l’autore ha voluto precisare il rifiuto di stanche retoriche europeiste e l’avversione alle narrazioni di tipo teleologico, come anche di visioni che trovano una semplice (o semplicistica) linea di continuità nel processo di costruzione europea. È quindi su questo punto che si struttura la tesi principale: è sbagliato parlare della costruzione europea come di un processo continuo e omogeneo. La Comunità, poi Unione, Europea non è “cresciuta in un vuoto pneumatico”, ma è il prodotto del tempo che scorre, in risposta al mondo che cambia. Il ruolo quindi che le istituzioni europee hanno svolto in un dato periodo storico deve essere messo in correlazione con quel periodo e non letto in maniera “assoluta”.
Dalla sua nascita, la Comunità Europea ha vissuto e si è sviluppata in fasi storiche diverse ed è per noi oggi possibile indentificare, per ognuna di queste, delle caratteristiche identificabili che la legano ai grandi cambiamenti della politica internazionale come anche a quella specifica degli stati membri. Varsori individua una prima fase tra il 1957, con la firma dei trattati di Roma, e il 1968. È la fase della piccola Europa “a sei” dalle caratteristiche precise e ben definite; un’Europa cristiana, moderata se non conservatrice e fortemente filoatlantica; da quest’ultimo punto di vista, de Gaulle ha rappresentato l’eccezione e non la regola. In questi dieci anni la Comunità è riuscita a realizzare due politiche; l’unione doganale e la politica agricola comune (PAC). Queste due politiche resero la Comunità Europea un’area economica regionale, caratterizzata da una tendenza liberista al proprio interno e protezionistica verso l’esterno.
I cambiamenti politici e sociali del ‘68 sancirono l’inizio di una fase diversa sia nella organizzazione e funzionamento interno, sia nel rapporto verso l’esterno – soprattutto con il terzo mondo. Con il vertice dell’Aia del 1969 si avviò il primo allargamento e le politiche comunitarie, seguendo le tendenze presenti negli stati membri, si spostarono su posizioni più social-democratiche. Gli stessi moderati intrapresero grandi politiche di riforma e la Comunità seguì dunque questa linea, pur avendo a disposizione risorse ancora molto limitate, in campo sociale, ambientale ed energetico. Essa rappresentava la cornice di riferimento, per i politici degli stati membri, per trovare risposta ai problemi nazionali. Si tentò di riformare il bilancio comunitario, ma la maggior parte delle risorse venivano assorbite dalla PAC e poco rimaneva per tutto il resto. Comunque, Varsori offre un giudizio positivo, di una Comunità progressista capace di allargarsi ed espandere i suoi campi d’azione. Nei rapporti con il terzo mondo, per esempio, abbandonati legati all’eredità coloniale, fu abbandonato il principio di reciprocità da parte europea allo scopo di garantire uno sviluppo più equo.
Negli anni Ottanta le cose cambiarono nuovamente per quanto riguarda il rapporto che legava la Comunità al cittadino. Fino a quel periodo, infatti, le opinioni pubbliche non si erano interessate alle vicende comunitarie, percepite come meno accattivanti e coinvolgenti rispetto ai grandi eventi della guerra fredda. Il sentimento di lontananza rispetto alle decisioni di Bruxelles aveva generato una sorta di “tacito consenso” alle politiche comunitarie, fondato sulla fiducia in un sistema tecnocratico di esperti che venivano “lasciati fare”. Gli anni Ottanta conobbero invece trasformazioni profonde in questo senso, a partire dall’elezione diretta del Parlamento Europeo e dalla ripresa di una forte intesa franco-tedesca, motore indispensabile per i cambiamenti comunitari, fino una riforma dei trattati di Roma con l’Atto Unico del 1985. Alla presidenza della Commissione Europea salì inoltre Jaques Delors il quale, insieme al cancelliere tedesco Kohl e al presidente francese Mitterand, riconobbe il momento di cambiamento che stava attraversando il mondo con l’arrivo al Cremlino di Gorbachev e la svolta neoliberista negli USA e nel Regno Unito, individuando la necessità di una risposta europea. Vennero così sancite le quattro libertà di movimento (dei beni, dei servizi, dei capitali e delle persone) all’interno della Comunità. Il professor Varsori ha sottolineato con forza la solo apparente contraddizione di un progetto neoliberista portato avanti da personalità che provenivano in larga misura dal mondo socialista. Del resto, sempre Delors sostenne il decisivo rilancio della politica sociale europea. Possiamo qui vedere definite due tendenze ricorrenti nello sviluppo dell’integrazione europea: una dimensione nazionale e una comunitaria. Seppur sostenuto da leader nazionali, possiamo vedere in Delors un chiaro sostenitore di un progetto di Europa sovranazionale, quasi federale, dove la Commissione doveva rappresentare l’embrione di un governo europeo. All’interno di questa visione si inscrissero progetti come Erasmus che, al di là dello scambio di studenti e quindi di conoscenze ed esperienze, aveva anche l’obiettivo di legare i giovani alle istituzioni e al progetto politico europeo.
Così, alla fine degli anni Ottanta venne modificato il bilancio, considerevolmente accresciuto, che andò a sostenere altri progetti, oltre la PAC, come il Fondo Strutturale. È in questo momento che il cittadino incominciò a percepire la Comunità Europa come una realtà presente e attiva, che si concretizzava in opere pubbliche importanti come la metropolitana di Barcellona. Bruxelles divenne la capitale della Comunità e si trasformò in una specie “meta di pellegrinaggio” degli entusiasti del progetto europeo. Nel 1989 Jaques Delors mise assieme un gruppo di esperti per definire un piano che conducesse all’unione monetaria. Una moneta unica non come progetto fine a sé stesso, ma come strumento fondamentale per la creazione di un’Europa sovranazionale. Il progetto fu accettato dal Consiglio Europeo di Madrid nel 1995, forse non comprendendone appieno la portata storica. Un piano ambizioso che si legò a un altro grande momento di cambiamento per la Comunità e per il mondo: la caduta del muro di Berlino. Questo evento riaprì la questione della riunificazione tedesca e sembrò mettere in pericolo l’equilibrio su cui si reggeva l’asse franco-tedesco, ovvero la preponderanza economica della Germania e il primato politico della Francia. Il presidente Mitterand decise quindi di ribilanciare le cose inducendo la Germania a rinunciare al suo principale asset di potere, il Marco, attraverso la moneta unica. Il cancelliere Kohl accettò e il progetto di unione monetaria divenne quindi un passaggio obbligato per permettere la riunificazione tedesca. Il Trattato di Maastricht del 1992 ebbe quindi un duplice aspetto, toccando da una parte gli assetti politici e istituzionali della nuova Unione Europea, dall’altro gli aspetti economici dell’unione monetaria, che doveva essere definita in modo chiaro. Se, infatti, è vero che la Germania avrebbe rinunciato al Marco, è anche vero che l’Euro gli sarebbe assomigliato molto, e i cinque parametri di Maastricht vennero definiti proprio per assicurare questa somiglianza.
In questa nuova fase delle relazioni internazionali, dopo la fine della guerra fredda, si diffuse nel Continente (ma potremmo dire non solo) un grande ottimismo: quella che pareva la vittoria dell’Occidente e del capitalismo induceva alla convinzione che il libero mercato avrebbe portato ovunque democrazia e libertà. Quello del post-1989 fu il grande momento dell’ONU, che si pose sul piano internazionale come difensore dei diritti umani. Anche l’UE puntava a conseguire grandi obiettivi in questa fase, come la PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune), la quale però fallì, come si sarebbe visto con l’inefficace risposta europea alla crisi jugoslava, a causa del suo assetto intergovernativo e quindi del meccanismo di voto all’unanimità. Andava avanti però il cammino verso
la moneta unica e si pensava all’allargamento a est. L’allargamento del 1995 pose pochi problemi perché riguardava paesi occidentali (Austria, Svezia e Finlandia) pienamente capitalisti e soprattutto ricchi (quindi contribuenti al bilancio dell’Unione). Procedeva a gonfie vele, poi, il processo di “europeizzazione”, di creazione di un popolo europeo il cui grande esempio era la Spagna che in pochi anni, facendo parte della Comunità, si era lasciata alle spalle l’epoca franchista. Nello stesso periodo vediamo il confluire di varie famiglie politiche su posizioni simili, come l’accettazione da parte dei partiti socialisti dell’economia di mercato. L’UE veniva identificata allo stesso tempo come il fulcro di grandi ideali politici e di uno specifico approccio economico.
Fondamentali per il Trattato di Amsterdam, nel 1997, furono le decisioni finali sull’unione monetaria. Lo stesso anno venne eletto Tony Blair e la Gran Bretagna sembrava cambiare atteggiamento politico nei confronti dell’Europa. L’entrata dell’UE nel World Trade Organization, simbolo quest’ultimo della continuazione e affermazione della globalizzazione, rappresentò poi un cambiamento nella natura comunitaria, con il passaggio dall’essere un’area economica regionale all’essere un attore pienamente immerso nel sistema della globalizzazione. Sebbene l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 sferrasse un duro colpo all’ottimismo dell’Occidente, la volontà dell’Unione di giocare un ruolo internazionale durerà ancora alcuni anni. Il cambio di passo è identificabile con il grande allargamento ai paesi dell’est Europa tra il 2004 e 2007 (anche soprannominato “Big Bang” per il numero dei nuovi paesi membri), e con la guerra in Iraq da parte degli Stati Uniti. Questa, oltre a spaccare l’Unione tra paesi che supportavano l’invasione (come la Gran Bretagna di Tony Blair) e chi la condannava, creò anche la narrativa di due Occidenti contrapposti, uno anglo-sassone aggressivo e guerrafondaio e uno franco-tedesco pacifico centrato sulla diplomazia, il multipolarismo e il soft power. Si affermò così il progetto e la visione, seppur non supportato da strutture istituzionali specifiche, di un’Europa “potenza civile”.
Il naufragio del Trattato Costituzionale, con i due referendum contrari di Francia e Olanda, rappresentò un punto di svolta, perché, al di là del fallimento di un progetto molto ambizioso per l’affermazione di un’Europa sovranazionale, segnò l’emergere in superficie del fenomeno che noi oggi indichiamo come “euroscetticismo”. Varsori ha tenuto però qui a precisare che il termine non è del tutto esatto e dovrebbe essere meglio precisato distinguendo fra “eurofobia”, rigetto totale del progetto europeo, e “euro critica”. Questi concetti sono rappresentativi di un cambiamento nel modo in cui il cittadino avverte le istituzioni e le politiche europee una volta caduto il “tacito consenso”, specialmente dopo la crisi del 2008. Legando il progetto europeo al fenomeno della globalizzazione, sono convogliati sull’”euroscetticismo” tutti coloro che si ritengono danneggiati dalle politiche neoliberiste.
In conclusione, affrontare la questione della riuscita o meno dell’Unione Europea nell’affermarsi come nuova potenza negli anni Novanta impone una visione di largo respiro che sappia tenere conto dello sviluppo non continuistico del progetto europeo nella sua interezza. Nelle parole di Varsori: “Se infatti è innegabile rilevare in questo sviluppo la presenza di componenti innovative e che quindi potenzialmente avrebbero potuto rappresentare un nuovo modello di rapporto fra stati basato sulla pace e sulla diplomazia, e quindi la possibilità di una nuova potenza (dove il peso va messo su “nuova”, in quanto indicativo di un approccio innovativo alla modernità e alla globalizzazione), bisogna anche rilevare la scarsità dei mezzi e della mancanza dei passaggi fondamentali perché questa potenzialità si potesse trasformare allora in azione”.
Alberto Girardi Migliorisi