Tra l’11 e il 17 novembre 2024 ha avuto luogo la tredicesima edizione dell’evento BookCity Milano dedicata al tema “Guerra e Pace”. Per l’occasione, come di consueto, l’Università degli Studi di Milano ha ospitato diversi incontri. Il 14 novembre si è tenuta presso l’aula 510 della sede di Festa del Perdono la presentazione del volume di Nadia Covini (Università degli Studi di Milano), Ludovico Maria Sforza. La scalata al potere del “Moro” e gli splendori della corte milanese a fine Quattrocento (Roma, Salerno, 2024), una biografia del settimo duca di Milano che si inserisce all’interno di una fortunata collana di biografie dell’editore Salerno. Insieme all’autrice hanno partecipato alla discussione Fabrizio Pagnoni (Università degli Studi di Milano), Francesco Somaini (Università del Salento) e Gianclaudio Civale (Università degli Studi di Milano).
Il primo a prendere la parola è Fabrizio Pagnoni, che dopo aver introdotto l’evento e presentato i relatori in veste di moderatore, sottolinea il valore dell’opera, la quale, pur essendo a tutti gli effetti scientifica, corredata da fonti d’archivio e da una minuziosa bibliografia, ha il pregio di poter essere letta anche da non specialisti.
Francesco Somaini introduce, quindi, uno dei temi chiave che emergono nel volume, quello che riguarda la caduta del Ducato Sforzesco, chiedendosi se sia da ricondurre a limiti strutturali o a cause contingenti. Il professore sottolinea che la sorte ha giocato un ruolo di primo piano nella caduta del regime Ludoviciano: alla morte accidentale dell’appena ventisettenne Carlo VIII, gli succede sul trono francese Luigi d’Orleans che, oltre ad essere tra i più acerrimi nemici di Ludovico sul piano personale, era membro della casata degli Orleans, il quale vantava diritti sul ducato di Milano in quanto discendente da Valentina Visconti. Sarà lo stesso Luigi XII, in nome dei diritti rivendicati dalla propria casata, a dare avvio alla campagna di conquista del Ducato di Milano che porterà alla caduta di Ludovico il Moro nel 1499.
Somaini elenca anche alcuni limiti strutturali dello stato sforzesco che vengono messi in luce nel volume. Tra questi i difficili rapporti con l’aristocrazia cittadina e l’ingombrante presenza dei cosiddetti “gentiluomini di Lombardia” ovvero grandi casate signorili molto potenti che possono contare su castelli, clientele e una considerevole capacità economica. Nel volume sono trattati in particolare i casi dei Dal Verme, dei Rossi di Parma e dei Borromeo, tutte famiglie che, per motivi diversi, entreranno in forte contrasto con il Moro. Un altro limite strutturale è il problema finanziario, che si accentua negli ultimi anni a causa dell’escalation militare. Questa costringe da un lato ad un aumento della pressione fiscale ordinaria, dall’altro all’utilizzo di strumenti aggressivi come le confische forzate, entrambi elementi che contribuiscono a creare malcontento presso la popolazione. Infine, come già sottolineato a suo tempo da Giorgio Chittolini, la mancanza di un sistema di debito pubblico come quello genovese o veneziano impedisce ai sudditi di investire nello Stato legando ad esso le proprie fortune. Ciò è sintomatico di un certo distacco tra lo Stato e i sudditi e va annoverato tra i limiti del ducato sforzesco. Somaini evidenza, tuttavia, che questi elementi di debolezza caratterizzano tutti gli stati rinascimentali italiani ed europei – pensiamo alle rivolte baronali nel Regno di Napoli o alle plurime bancarotte dichiarate da Carlo V e non possono essere considerate un unicum del ducato sforzesco, nella cui disfatta l’elemento della contingenza ha giocato un ruolo importante.
Il secondo tema su cui si sofferma Somaini riguarda l’abilità e la lungimiranza politica di Ludovico Maria Sforza. Egli ha la capacità di eliminare ogni ostacolo che si frappone tra lui e la sua ambizione di potere, passando dall’essere un semplice figlio cadetto a duca di Milano. C’è chi ipotizza che tra le vittime della sua scalata al potere ci sia da annoverare anche il fratello Galeazzo Maria e che dunque Ludovico sarebbe tra i complici del suo assassinio occorso nel 1476. Alla questione Maria Nadia Covini ha dedicato un paragrafo del volume, intitolato Ludovico complice nella congiura di Santo Stefano? nel quale si dimostra assolutoria. Vittima accertata dell’ambizione ludoviciana è invece Cicco Simonetta, potente segretario ducale che viene fatto giustiziare dal Moro al ritorno dall’esilio. L’ultimo ostacolo da superare, nonché quello più difficile, è rappresentato dal nipote, il giovane duca legittimo Gian Galeazzo Maria, figlio del defunto Galeazzo. Ludovico dapprima riesce a farsi nominare suo tutore, per poi tramare alle sue spalle ottenendo per sé il titolo di duca dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo nel settembre 1494. Un mese dopo questo evento il “duchetto” Gian Galeazzo muore, uscendo di scena nel momento politicamente più opportuno per il Moro. Anche a proposito di questa circostanza sono numerosi i pettegolezzi su un presunto avvelenamento da parte di Ludovico, tesi avvalorata in questo caso anche dall’autrice. Come sottolinea infine Somaini, Ludovico il Moro non accelera mai i tempi, elimina un ostacolo dopo l’altro in una formidabile scalata verso il potere che viene descritta destramente all’interno del volume, dimostrando una singolare abilità politica.
L’ultima questione sollevata da Somaini è quella del rapporto tra il ducato di Milano e il Regno di Napoli, due tra i principali protagonisti della politica italiana, in particolare riguardo allo scontro tra Ludovico il Moro e Ferrante d’Aragona. Quest’ultimo aveva sostenuto e finanziato l’ascesa politica di Ludovico in uno dei suoi numerosi tentativi di condizionare la politica milanese. Tuttavia, una volta raggiunto il potere, Ludovico tenterà di divincolarsi dall’ingombrante tutela di Ferrante e i rapporti tra i due si guasteranno, arrivando all’atto estremo di chiamare i francesi nella penisola nel 1494 proprio in chiave anti-napoletana, atto che darà inizio alle guerre d’Italia e causerà la caduta della monarchia aragonese. Questa vicenda, sottolinea Somaini, è paradigmatica di un problema – in questo caso sì, strutturale – degli Stati italiani del Rinascimento: l’incapacità di fare fronte comune contro le minacce straniere. L’idea di una “federazione” italiana contrapposta alle minacce ultramontane, in voga già dai tempi delle invettive petrarchesche contro le “peregrine spade”, si era concretizzata nel 1455 nella Lega Italica, alleanza stipulata dalle maggiori potenze della penisola per proteggersi reciprocamente da eventuali minacce esterne. Tuttavia, questo ambizioso progetto nel giro di pochi anni di fatto fallisce, poiché subentrano rivalità, gelosie e tensioni tra gli Stati italiani, che costituiscono la premessa fondamentale delle guerre d’Italia.
Prende poi la parola Gianclaudio Civale, sottolineando come Ludovico il Moro sia considerato da Jacob Burckhardt la figura più completa e gloriosa di principe italiano del Rinascimento. Egli rappresenta davvero l’incarnazione della politica italiana rinascimentale descritta – sicuramente in maniera esagerata – nell’opera burckhardtiana, fatta di alleanze e tradimenti, matrimoni e assassinii.
Civale evidenzia che gli Stati rinascimentali italiani hanno un elemento di fragilità che li accomuna e che li differenzia dalle nascenti monarchie europee: la mancanza di legittimità. Gli Sforza sono tecnicamente dei tiranni ex defectu tituli: non possiedono un titolo legittimo per esercitare il potere dato che non hanno ricevuto l’investitura ducale da parte dell’Imperatore. L’autorità dei sovrani aragonesi di Napoli è costantemente messa in discussione dai pretendenti angioini; l’egemonia esercitata dalla famiglia Medici sulle strutture repubblicane di Firenze è fragilissima; per non parlare di tutti quegli Stati che nascono nell’Italia centrale grazie alle azioni nepotistiche dei pontefici come i Borgia o i Della Rovere, che si disgregano al cambio di Papa. Ma, come nota Civale, gli Stati italiani non riescono nemmeno ad ottenere una legittimità dal basso, in quanto faticano a instaurare un rapporto di fedeltà che leghi a loro i propri sudditi. Questa mancanza di affezione allo Stato da parte del popolo viene messa in luce dalla calata di Carlo VIII in Italia, che con il suo esercito travolge il potere mediceo a Firenze, i delicati equilibri di potere borgiani a Roma e infine la monarchia aragonese. La stessa sorte toccherà ovviamente a Ludovico Sforza, che verrà abbandonato da tutti all’arrivo dei francesi di Luigi XII.
Un altro tema che emerge nella relazione di Gianclaudio Civale è quello militare. Il professore fa notare che gli eserciti delle compagini politiche italiane si dissolvono letteralmente di fronte all’armata francese di Carlo VIII, che porta nella penisola un nuovo modo di fare la guerra, più brutale e distruttivo. I conflitti combattuti dalle potenze italiane dopo la ratifica della Lega Italica sono tendenzialmente brevi e poco distruttivi e non intaccano la vita civile, poiché sono accompagnati da intense trattative e contatti diplomatici. La Lega Italica stabilisce un primato della politica sulla guerra, con un fragilissimo equilibrio fondato non sulla forza dei contraenti ma nella loro debolezza, garantito proprio dalla diplomazia. Come emerge dal lavoro di Maria Nadia Covini, Ludovico è un abilissimo politico, capace di ordire trame e macchinazioni, ma non è un soldato, nonostante sia proprio questa l’immagine che vuole dare di sé; la sua biografia è quindi paradigmatica di questo mondo italiano dove la diplomazia conta di più della forza bruta.
Prende infine la parola l’autrice, Maria Nadia Covini, che, sollecitata da Civale, si sofferma su due punti. Il primo riguarda l’ultimo capitolo del libro, che contiene le conclusioni, intitolato Ludovico tiranno? L’autrice, dopo aver ringraziato i relatori per la qualità degli interventi, invita a ridimensionare l’idea di un’opposizione così netta da parte dell’aristocrazia milanese nei confronti del Moro, viziata dalle origini forestiere e poco nobili della famiglia Sforza. Ludovico nasce principe; è uno Sforza ma anche un Visconti, figlio di Bianca Maria, ed è dunque perfettamente inserito nel quadro dell’aristocrazia milanese, con cui i rapporti non furono di certo idilliaci ma nemmeno così difficili, a differenza di quanto spesso si è sottolineato, come dimostrato dalle lodi al principe del poeta Gaspare Ambrogio Visconti, che vanno al di là della mera retorica cortigiana.
Il secondo elemento evidenziato riguarda il rapporto tra Ludovico Sforza e Cicco Simonetta. L’autrice discute di una suggestiva ucronia: cosa sarebbe successo se Cicco Simonetta fosse rimasto segretario ducale anche durante il regime ludoviciano? La professoressa Covini, autrice tra l’altro di una imprtante biografia del Simonetta, elogia la lucidità e le capacità politiche del segretario calabrese, che fu in grado di moderare le tendenze assolutiste e accentratrici del duca Galeazzo Maria e forse avrebbe fatto lo stesso con Ludovico, facendolo ragionare su alcune delle decisioni politiche più rischiose, che invece lo portarono alla caduta. Cicco avrebbe fatto sicuramente comodo a Ludovico, al posto del pur abile Bartolomeo Calco, ma trattandosi di un personaggio inviso ai ghibellini milanesi Ludovico fu quasi “costretto” a toglierlo di mezzo.
In conclusione, Francesco Somaini decide di intervenire sul tema della legittimità evocato dal professor Civale. Egli concorda sul fatto che tutti gli Stati italiani sono caratterizzati dalla mancanza di una forte base di legittimità, sostenendo tuttavia che questo non sia un problema soltanto italiano, ma europeo. Cita come esempio la Francia, considerata l’archetipo della monarchia medievale: sino al periodo napoleonico il re d’Inghilterra rivendica per sé anche il titolo di re di Francia, di fatto non riconoscendo e contestando l’autorità dei re francesi. Addirittura, i baroni francesi ambiscono a creare regni alternativi a quello francese (emblematico è il caso dei duchi di Borgogna). Somaini sottolinea, dunque, come anche la monarchia più “accreditata” nel panorama europeo presenta importanti contestazioni della propria legittimità. Paradossalmente gli Stati italiani erano riusciti a trovare una soluzione a questo problema: legittimarsi vicendevolmente tramite la diplomazia. Il riconoscimento internazionale come fonte di legittimità è un’invenzione tutta italiana e sarà rivendicato con forza da compagini come il Ducato Sforzesco e la monarchia aragonese per supplire alla mancanza di forme di legittimazione più “tradizionali”, quella imperiale nel caso degli Sforza e quella pontificia nel caso degli aragonesi, che pur viene costantemente ricercata.
Manuel Zamagna