All’interno del libro La conversione. Come Flavio Giuseppe fu cristianizzato, l’autore, Luciano Canfora, insigne classicista e professore emerito presso l’Università di Bari, ripercorre le tappe della conversione cristiana non tanto di Flavio Giuseppe, ma della sua memoria, rifondata sulla base delle esigenze del cristianesimo antico.
Nel corso dei ventisei capitoli che compongono il volume, l’autore ricorre sistematicamente all’uso di fonti primarie come papiri, codici e manoscritti custoditi in sedi prestigiose quali la Biblioteca Apostolica Vaticana, la Biblioteca Ambrosiana e la Bodleian Library di Oxford.
Interessante è poi l’uso che Canfora fa delle testimonianze dei Padri della Chiesa- Agostino, Girolamo, Ambrogio-, sulle quali si fonda di fatto la tesi della strumentalizzazione dell’eredità culturale del protagonista del libro, la cui vicenda biografica apre il lavoro di Canfora.
Flavio Giuseppe è, in verità, un sacerdote ebreo dell’alta società, sottrattosi al rituale suicidio collettivo giudaico seguito alla presa romana di Iotapata nel 67 d.C. e consegnatosi sommessamente ai conquistatori venuti dall’Urbe.
È questo per gli ebrei il suo peccato originale, il marchio indelebile della sua viltà e allo stesso tempo il momento di svolta che gli consente di salire sul carro del vincitore, profetizzando al suo nuovo signore, Vespasiano, il venturo impero. Divenuto cesare, il fondatore della dinastia dei Flavi non esita, infatti, a restituirgli la libertà, consentendogli di divenire cittadino romano.
Giunto dunque a Roma al termine dell’ultimo e nefasto atto della guerra giudaica (67-70 d.C.), la distruzione del Tempio, Flavio Giuseppe si dedica alla stesura di una serie di opere- Antichità giudaiche, Contro Apione, Guerra giudaica-, con le quali aspira a sostenere la grandezza durevole dell’ebraismo, la sua tradizione storica, la fede inestinguibile e la dignità del popolo a cui appartiene.
L’intento del sacerdote ebreo, che alla corte degli imperatori della dinastia Flavia redige testi sul mondo giudaico, è quello di fare da ponte tra Roma e la sua alma mater, che, tuttavia, lo ha ormai rinnegato. Defezionando, Flavio Giuseppe ha difatti tradito i suoi correligionari, tra i quali le opere redatte dai colli dell’Urbe non hanno, pertanto, alcuna eco.
Considerando, quindi, l’incapacità del suo corpus di penetrare tra i luoghi della fede ebraica, com’è possibile motivare la sua forza di conservazione? Scritti di pari ampiezza e autori di notevole prestigio della storiografia greca e latina ci sono, al contrario, giunti in modo frammentario e parziale: di Polibio si sono persi 35 libri su 40, di Diodoro 25, anche Dione Cassio ci è pervenuto incompleto, mentre solo Giuseppe è arrivato integro ai nostri giorni. Ma perché? Il sacerdote ebreo era forse uno storico superiore a Tacito o più magniloquente di Livio?
In verità, la risposta a tali quesiti si trova nell’interesse di un pubblico che, al tempo dei Flavi, è ancora in formazione; un pubblico che vede nel sacerdote ebreo una risorsa, una fonte di legittimità per la propria fede, a lungo vessata dal potere romano e ormai- come Giuseppe- ben lungi dalla dimensione che l’ha generata. Si tratta, lapalissianamente, del pubblico dei cristiani.
Costoro trovano, infatti, nelle Antichità giudaiche la cagione che rende lecito l’inserimento di un sacerdote ebreo nel fronte degli apologeti del Salvatore e in repertori di scrittori “ecclesiastici” come quello che- alla fine del IV secolo, quasi certamente nell’anno 393 d.C.- Girolamo, verosimilmente il più dotto dei grandi Padri della Chiesa, compone nel suo ultimo eremo palestinese.
Dalle pagine del libro di Canfora emerge poi come il reclutamento di Giuseppe nel fronte cristiano passi attraverso una velata ed efficace conversione, che- come precisato all’inizio- non coinvolge direttamente il sacerdote, bensì il ricordo che se ne conserva, la sua imperitura memoria, rifondata a partire dalla presentazione della figura di Gesù, ovvero dal Testimonium del XVIII libro delle Antichità, in cui l’autore ammette nel modo più esplicito- manifestissime confitetur– che il Crocifisso era, in verità, il Cristo- hic erat Christus-, fautore di mirabilia insigni e vir sapiens, sempre che- si tamen– lo si possa definire “uomo”.
Il riconoscimento della figura e della vicenda di Gesù dentro l’opera di uno storico ebreo diventa, invero, il fattore determinante della presa in carica del corpus di Giuseppe e della cristianizzazione del medesimo autore, inserito nel gotha della cultura ecclesiastica a partire dall’intervento di teologi e religiosi quali Origene (185 – 254 d.C.), Girolamo, Eusebio di Cesarea, che in particolare riproduce, esalta e commenta la testimonianza del libro XVIII all’interno della sua Storia ecclesiastica.
Al di là dell’evidente strumentalizzazione delle Antichità– esplicitata e a più riprese rimarcata da Canfora- c’è davvero la possibilità di mettere in dubbio la fede del sacerdote ebraico?
La risposta, ovviamente, non può essere affermativa e a garantire l’attaccamento di Giuseppe al mondo giudaico è il medesimo fine delle opere da lui redatte, ovverosia quello di riscattare la dignità del popolo di Israele.
A questo punto, però, resta il dubbio che la religiosità di Giuseppe possa quantomeno vacillare durante la stesura delle Antichità, disvelando lo scivolamento dell’autore verso la dimensione cristiana, come sembrerebbe confermare la succitata stesura del Testimonium.
In realtà- come inequivocabilmente ribadito da Canfora- tale “riconoscimento”, pur non essendo il frutto di una radicale riscrittura- se non fabbricazione- dovuta a non meglio precisati “monaci” del XIII secolo, come sediziosamente affermato da taluni critici, è cionondimeno il risultato di puntuali interpolazioni, che hanno irrimediabilmente alterato non tanto l’autenticità della vicenda del Cristo quanto il sentimento religioso del sacerdote ebraico scampato al suicidio di Iotapata.
Notazioni di matrice cristiana non troppo marginali sono, infatti, ad un certo punto penetrate nel Testimonium, generando la fallace idea di una convinta e sostanziale adesione alla figura di Gesù. Due sono, in particolare, le più evidenti aggiunte introdotte nel testo delle Antichità: esse- come sottolineato dallo stesso Canfora- sono palesemente non d’autore, dacché si presentano come commento, o meglio reazione, alle parole di Giuseppe.
La prima riguarda la definizione di Gesù come «uomo sapiente», cui segue, infatti, l’inserimento posteriore «se pure è giusto definirlo uomo!», dal tono inequivocabilmente polemico. La seconda aggiunta riguarda, invece, il titolo di “messia”, ascritto al protagonista della testimonianza per motivare il suo efficace proselitismo («attraeva anche molti elementi pagani»).
Non sono, inoltre, mancate nel corso del tempo le voci di coloro che, ottenebrati da un notevole scetticismo, sono arrivati a mettere totalmente in dubbio l’autenticità del Testimonium: in verità, le perplessità sono aumentate sotto la spinta della mentalità illuministica, affatto incline ad accogliere in modo acritico l’eredità delle religioni rivelate e i documenti più o meno vetusti su cui si fondavano le loro origini.
Figure emblematiche di questa nuova sensibilità come Edward Gibbon hanno manifestato una notevole diffidenza nei riguardi del Testimonium, presentato dallo studioso britannico come la deleteria commistione tra gli elementi negativi del mondo ebraico- definito “insocievole” – e le frequenti manipolazioni testuali cristiane. Per Gibbon lo scritto del sacerdote consegnatosi ai romani era, quindi, tutto spurio, essendo stato interpolato tra il tempo di Origene e quello di Eusebio di Cesarea.
In conclusione, dopo aver esaminato l’avventurosa e complessa tradizione della testimonianza presente nelle Antichità, Canfora riavvolge i fili della rifondazione della memoria di Giuseppe, rivelando la sua immarcescibile fede giudaica e la parziale, sapiente strumentalizzazione orchestrata dai Padri della Chiesa, decisiva per la salvezza del corpus dell’ebreo rinnegato e cruciale nella trasmissione della fallace convinzione della sua conversione.
Salvatore Calciano