Il dibattito storiografico e più in generale pubblico degli ultimi decenni ha dovuto fare i conti con tesi proposte da studiosi, sedicenti neoborbonici, caratterizzati dal comune denominatore del rifiuto dell’esperienza risorgimentale e del recupero di un’idealizzata monarchia meridionale, argomenti destituiti di qualsiasi fondamento scientifico ma per vari motivi non alieni da un certo favore di pubblico. Uno dei fulcri di tale narrativa è la controrivoluzione napoletana del 1799, rappresentata come «momento genetico della lotta armata a favore dei Borbone» (p. XI). Spogliata da simili abiti quell’estate rivela in realtà un’impressionante esplosione di violenza, la cui analisi permette da un lato di mettere in luce le pratiche, finora poco indagate, della violenza controrivoluzionaria e, dall’altro, di allargare lo sguardo e dialogare con altre tematiche e problemi di grande interesse. Straniante, confessa l’autore, è stato scoprire in quell’occasione episodi di cannibalismo: la data non è infatti così remota e l’ambientazione è una delle città più colte della civile Europa. Tanto più interessante è questo aspetto, in quanto il cannibalismo esercita da millenni sull’immaginario umano un peso gravoso; tanto più interessante in quanto esso è stato argomento fondamentale della superiorità europea sui popoli di altri continenti. Il che è stato possibile solo in seguito a un generalizzato rimosso dalla coscienza del cannibalismo, occultato dietro una formidabile cortina del silenzio. Queste le principali tematiche di una breve premessa anteposta al corpo del testo dall’autore, storico modernista già attivo sul versante del dissenso politico e religioso con saggi e monografie su eretici, libertini e giacobini. In quest’opera focus è la controrivoluzione napoletana del 1799, sfruttata come caso di studio del più vasto fenomeno del cannibalismo europeo.
Il dialogo tra la città partenopea e il resto del continente, tra la fine del XVIII secolo e i secoli passati occupa i primi due capitoli. Il primo si sofferma con dovizia di particolari e precisione sulla storia della controrivoluzione nella città di Napoli, con alcuni accenni alle altre province del Regno. Da sottolineare fin d’ora il ricorso a una vasta pletora di fonti diverse sia per natura (scritte, ma anche visive) e tipologia (dai resoconti pubblicati o inediti alla corrispondenza, dalle cronache alle canzoni e ai componimenti poetici). La narrazione abbraccia la prima metà del 1799, dai tumulti del gennaio, poi placatisi dopo la proclamazione della Repubblica, all’esplosione della violenza generalizzata nella tarda primavera-estate, durante la quale gli episodi di cannibalismo dovettero essere piuttosto diffusi.
La cautela nell’affrontare questa tematica, dovuta al fatto che il fenomeno dell’antropofagia ha rappresentato e tutt’ora rappresenta un radicatissimo tabù, spinge poi l’autore ad allargare, nel secondo capitolo, il proprio orizzonte: viene quindi presentata una corposa serie di altri episodi di cannibalismo dall’inizio del XIV secolo alla fine del XVIII. Non prima però di avere riflettuto sulle implicazioni culturali del fenomeno dell’antropofagia: essa si ritrova nelle pratiche che tradizionalmente il popolo in rivolta era solito mettere in atto contro i suoi nemici. Sovente poteva accadere che esse fossero modulate sulla giustizia ufficiale impartita dallo Stato e il fatto che il cannibalismo non compaia tra queste autorizza a ricercare, attraverso esso, «attitudini autonome e strati profondi della cultura popolare» (p. 28). L’autore mette in guardia da una troppo dicotomica opposizione tra elementi popolari e colti, ma crede di poter individuare proprio nell’antropofagia un’eccezionale cartina di tornasole per scoprire «strati autonomi che rappresentino culture e pratiche schiettamente popolari» (ibidem). L’argomentazione con cui tale tesi viene affermata si ricollega a uno dei principali temi del libro: il tabù. Proprio in ragione del tabù, che il cannibalismo rappresenta per la cultura alta, si può sostenere, nell’opinione di Addante, che a essa non possa essere riferibile. Al medesimo aspetto si ricollegano anche gli altri principali temi del volume: l’etnocentrismo e la rimozione o (auto)censura.
Nel primo caso va sottolineato come l’enorme peso che il cannibalismo esercita, in negativo, sull’immaginario ha portato ogni civiltà a identificare il cannibale sempre e comunque in un indistinto altro: «ancora a metà Quattrocento, quando Alvise Da Mosto raggiunse il Gambia, apprese che i locali consideravano i portoghesi cannibali» (p. 30). È pur vero, tuttavia, che la presunzione di superiorità che la cultura europea aveva sulle altre ha le proprie origini nel cannibalismo praticato dai barbari incivili degli altri continenti, che in un certo senso legittimava la sottomissione, lo sfruttamento economico e lo stravolgimento culturale. Ciò che a prima vista potrebbe apparire paradossale, ossia il fatto che l’antropofagia fu usata come argomento di superiorità da popoli essi stessi non esenti da parossismi cannibalici, si spiega con l’aspetto della rimozione e della censura, conscia o meno. È in effetti un grande rimosso quello che colpisce il fenomeno: quando autori europei trattano il tema del cannibalismo, anche senza ritenerlo necessariamente criminale o immorale, discorrono sempre del diverso e, cosa più interessante, non fanno parola di episodi analoghi accaduti in Europa, pur essendone a conoscenza, o li nascondono dietro espressioni eufemistiche o alla più accettabile forma del cannibalismo simulato.
Nel terzo e ultimo capitolo l’autore torna a concentrare il proprio sguardo su Napoli, prima riferendo dell’eccidio di Giovan Vincenzo Starace (1585), ucciso e, come emerge da alcune fonti, mangiato perché ritenuto colpevole della penuria di cibo in città, poi provando a spiegare gli eventi della tarda primavera del 1799. Vengono subito escluse interpretazioni che vertano sul cannibalismo di sussistenza o per ragioni di lotta di classe. Un secondo ordine di motivi, sicuramente più pertinenti, contempla la vendetta, alimentata da odi di fazione e da una martellante propaganda antirivoluzionaria, a cui si uniscono, dietro l’apparente caos, motivi di fondo che conducono verso la violenza più sfrenata, secondo tradizionali rovesciamenti parodici e contrappassi: in certe canzoni, per esempio, le pesanti contribuzioni fiscali imposte dai giacobini spingono a «spolpare», non più solo metaforicamente, chi prima ha «spolpato». Tali aspetti fanno parte del vasto armamentario di quella che può essere definita ostilità ritualizzata, che emerge per esempio nel charivari, ossia una rumorosa processione, quasi un momento di festa, che poteva però assumere forme violente. Ecco, dunque, che ben può spiegarsi il «maligno sganasciar di risa» (p. 87) che una fonte riporta: è la sfrenata “allegria” di una festa che tutto sovverte, che mette il mondo alla rovescia.
Tale motivazione non sembra però sufficiente a dar conto di azioni tanto estreme. Alcune fonti citano un eccesso di zelo religioso. Una simile argomentazione non può essere esclusa a priori, stante il clima sovreccitato di quei mesi, in cui l’abuso di vino dovette giocare un qualche ruolo, unito al fatto che il cristianesimo del popolo fosse contaminato in profondità da credenze magico-sacrificali, legate alla violenza e alla morte. A loro volta tali credenze e pratiche ben possono conciliarsi con un ordine di motivazioni politiche: ponendo attenzione agli altri casi di cannibalismo affrontati nel volume il comune denominatore è in effetti la politica. Tirannicidi, congiure, rivolte: sotto questa luce il cannibalismo, come vendetta politica, si configura come la forma suprema di disprezzo verso il nemico, che viene tramite esso degradato a bestia da macello. Ad ogni modo sarebbe errato intravedere nel parossismo della rivolta dell’estate ‘99 una qualche forma di lealismo monarchico. In realtà tale aspetto è negato dalle fonti, Ruffo in testa, e l’unico potere che il popolo sembra voler difendere è il proprio: tutte le fasi descritte come “anarchia” non erano infatti assenza di potere, quanto del potere costituito. In quei momenti, dunque, alla mancanza di potere dall’alto fece fronte un’esplosione di potere dal basso, a Repubblica ormai caduta, ma a monarchia non ancora restaurata, una sorta di «supplenza politica del popolo (…) nei casi di crisi innanzi a cui il potere non reagiva adeguatamente» (p. 96). In questo senso “sbagliano” le fonti a parlare di «anarchia»: il termine, infatti, indica una situazione di assenza di potere, ma né a gennaio né a giugno si determinò qualcosa di simile; semmai a essere venuto meno era il potere regio, al quale il popolo si sostituì in città. La fuga del re a Palermo dimostrò che Ferdinando IV non sapeva «difendere il trono e il popolo: ed ecco la “prima anarchia”. Finita la Repubblica (…) non c’è alcun potere che possa garantire l’ordine pubblico. O meglio, l’ordine in strada sono i lazzari e i sanfedisti» (p. 98). Attributo essenziale del potere d’Antico regime è la giustizia: il re è il sommo giustiziere del regno, può infliggere pene, graziare, disporre dei corpi dei giustiziati. Il popolo, vacante il trono, assunse tale potere: è la massima espressione dell’aspetto dell’inversione. Ora, se i supplizi “ufficiali”, atroci e pubblici, possono essere visti come un rituale di ricostruzione della sovranità ferita e dunque devono essere, secondo l’interpretazione di Foucault, terrorizzanti al massimo, il popolo utilizzò da un lato pratiche modellate sulla giustizia regia, dall’altro si rivolse al più grande dei tabù e lo infranse, proprio perché esso è terrorizzante al massimo. Da questo punto di vista il vanto che certe fonti riportano altro non sarebbe che l’ostentazione del simbolo della giustizia e del potere del popolo.
Un potere di fatto e tuttavia effimero, in quanto privo di orientamenti politici autonomi in grado di trasformarlo in potere legale. E proprio questo era in effetti il progetto dei giacobini del ‘99: «far conoscere all’ultimo degli uomini la sua dignità» (p.99), come aveva scritto Mably, prontamente tradotto nei mesi della Repubblica.
Jacopo Vairetti