L’Islam contemporaneo e l’Europa: tra questione migratoria e tema della libertà religiosa

Il 6 maggio si è svolto, presso la sede di via Sant’Antonio dell’Università Statale di Milano, il terzo seminario dell’a.a. 2023-2024 del progetto Modulo Jean Monnet EURSLAM – Europe, European Integration and Muslim presence. Il convegno è stato introdotto da Paolo Zanini (Dipartimento di Studi storici), che ha voluto evidenziare l’importanza del legame esistente tra questioni migratorie e il tema della libertà religiosa. A presiedere la discussione è stata Giulia Lami (Dipartimento di Studi storici), che ha ricordato l’argomento centrale del seminario: l’islam e l’Europa fra questione migratoria e libertà religiosa, aspetti che assumono una certa importanza anche per la società odierna.

In seguito, Michele Colucci (ISMed; Istituto di studi sul Mediterraneo; CNR) ha presentato un percorso storico, relativo alle migrazioni originarie dell’area mediterranea e dirette verso l’Italia, suddiviso in quattro periodi. Nella prima fase, compresa tra il 1945 e il 1973, l’immigrazione straniera in Italia era scarsamente diffusa a livello quantitativo, tuttavia avevano cominciato a realizzarsi una serie di flussi migratori degni di attenzione. In primo luogo, sono stati ricordati i flussi originati dall’apertura della stagione della decolonizzazione, anche dei possedimenti coloniali italiani; è emersa poi l’importanza delle migrazioni interne – trasformatesi successivamente in migrazioni internazionali – presenti in alcuni paesi quali Tunisia, Algeria, Egitto, Marocco e Libia che, dopo il periodo coloniale, avevano conosciuto una stagione di riforme economiche e di modernizzazione. Infine, hanno rappresentato un dato non trascurabile le migrazioni studentesche, provenienti dai paesi dell’Europa mediterranea e rivolte verso l’Italia. È stato quindi possibile cominciare a delineare, già per questo periodo, una certa articolazione di mobilità dirette verso l’Italia.

Il relatore ha successivamente posto l’attenzione sulla città siciliana di Mazara del Vallo dove, nella seconda metà degli anni Sessanta, si sviluppò un reclutamento organizzato di immigrati stranieri provenienti dalla Tunisia e diretti verso il mercato del lavoro della pesca. Tale esperienza mise in luce, su scala locale, una serie di meccanismi politici, sociali e religiosi che si sarebbero poi manifestati anche a livello nazionale.

Nel secondo periodo, individuato tra il 1973 e il 1989, si aprì, come conseguenza della crisi petrolifera, un nuovo polo migratorio nei paesi del Golfo Persico legato alla dinamica della migrazione musulmana, che riscrisse le regole della mobilità nel Mediterraneo. Inoltre, dopo il 1973 paesi come l’Egitto o la Iugoslavia, che in precedenza avevano adottato una politica di tutela dall’emigrazione delle rispettive classi lavoratrici, iniziarono ad aprirsi all’immigrazione. Si delineò in questi anni, come sottolineato dal relatore, un movimento che, da un lato, portò a un peggioramento delle politiche migratorie dei paesi europei, dall’altro a una serie di ripercussioni che avrebbero anticipato alcune riflessioni sulla stagione più recente, segnata da una radicale irrigidimento delle frontiere del Mediterraneo. La crisi aveva determinato, infatti, la tendenza da parte degli stati nazionali a controllare maggiormente i propri confini, rendendo la mobilità più complessa. È significativo però evidenziare che l’Italia negli anni Settanta, secondo un’inchiesta del Censis, aveva già un contesto migratorio piuttosto maturo, contando 300-400 mila lavoratori stranieri provenienti dall’area mediterranea.  

A partire dagli anni Ottanta è stato possibile iniziare a delineare il “modello mediterraneo di immigrazione” – così definito dagli studiosi- e differente da quello dei paesi dell’Europa continentale. La situazione italiana ben rispecchia tale modello, con una serie di caratteristiche peculiari: l’assenza di una legislazione, l’equilibrio di genere tra persone che emigrano – un dato pressoché costante dell’immigrazione italiana- e, infine, l’articolazione sul territorio a macchia di leopardo, riscontrabile nella presenza di immigrati in settori lavorativi differenti. Negli anni Ottanta il mondo dell’immigrazione, oltre a conoscere un aumento consistente, cominciò ad acquisire anche una diversa visibilità; a tal proposito è stato menzionato il dibattito, sorto a seguito della costruzione della moschea di Roma, e scaturito dalla necessità di predisporre luoghi di culto per i nuovi cittadini di origine straniera. Allo stesso tempo nel 1985 gli accordi di Schengen segnarono un irrigidimento, da parte dei paesi firmatari, verso le migrazioni nel Mediterraneo. Tuttavia l’Italia inizialmente non vi aderì: una delle ragioni di questa assenza è individuabile nella presenza stabile del paese all’interno del meccanismo migratorio del Mediterraneo.

La terza fase, identificata nel periodo 1989-2010, vide, con la caduta del muro di Berlino, l’irruzione del tema migratorio in una dimensione nuova. Iniziarono, infatti, a giungere in Italia flussi di cittadini albanesi e di persone provenienti dalla ex Iugoslavia, che diedero prova di come gli spostamenti non avvenissero più solo per motivi lavorativi, ma fossero collegati anche alle guerre. In seguito il relatore ha evidenziato altri cambiamenti avvenuti negli anni Novanta: anzitutto, un ulteriore aumento dell’immigrazione straniera in Italia proveniente dai paesi mediterranei; la trasformazione dell’area mediterranea in un’area di “cerniera” rispetto a movimenti migratori originari anche dall’Africa subsahariana e dall’Asia orientale; e, infine, la presenza di un articolato dibattito sull’immigrazione, declinato anche in termini politici. A questo proposito furono centrali il tema della cittadinanza, esploso nel 2005 quando i giovani rappresentanti delle cosiddette “seconde generazioni” diedero vita alla Rete G2, e la questione del pluralismo religioso, divenuta ancor più accesa dopo l’11 settembre 2001. Tra il 2008 e il 2010, a seguito della grande crisi economica, si giunse a un progressivo irrigidimento delle frontiere e alla chiusura dei canali legali per l’immigrazione; difatti il lavoro, come strumento di integrazione, non rappresentò più il grande canale di inserimento della migrazione mediterranea, provocando l’apertura di canali illegali con conseguenze ancora oggi tristemente note.

L’ultima fase storica, iniziata nel 2010, è attualmente ancora in corso. Le primavere arabe stravolsero gli orizzonti politici della sponda nord del Mediterraneo e in parte di quella est, determinando una nuova stagione di emigrazione. In questo periodo emerse il tema del diritto di asilo, richiesto con sempre maggior frequenza da cittadini in fuga da guerre lunghe e sanguinarie. Inoltre, alcuni paesi della sponda sud come Tunisia, Egitto, Marocco e Algeria assunsero un ruolo importante nelle dinamiche economiche e geopolitiche internazionali, riuscendo a intercettare movimenti di persone e diventando così luoghi non solo di emigrazione, ma anche di immigrazione. Questa dinamica portò alla nascita di criticità e problematicità simili a quelle che erano già sorte in precedenza in Europa. 

Successivamente Dominique Avon (École Pratique des Hautes Etudes, EPHE) ha posto alcune considerazioni sui concetti di libertà di coscienza e di libertà religiosa, affrontate in relazione al mondo arabo. Un’altra riflessione centrale è stata quella relativa alla differenza tra i diritti individuali e i diritti della comunità.

Il concetto di libertà di coscienza, sconosciuto nel mondo arabo fino al XIX secolo, venne reso noto grazie alla traduzione di uno dei più importanti intellettuali arabi, un cristiano maronita convertito al protestantesimo. Questo concetto fu accolto e dibattuto tra i musulmani più liberali, mentre i leader religiosi si opposero, poiché andava contro le regole del diritto religioso. Il diritto di libertà di coscienza, che significava la possibilità di cambiare la propria religione – anche quella islamica – o di non aver nessun credo, venne difeso nel mondo arabo tra il XIX secolo e la metà del XX secolo da filosofi o cittadini comuni. In seguito, il relatore si è soffermato su una serie di considerazioni relative all’adozione del principio di libertà di coscienza nel mondo arabo.

Nella costituzione francese del Grande Libano nel 1920 vi figurava il concetto di libertà di coscienza, tuttavia nella traduzione in arabo, che divenne il riferimento ufficiale, non compariva nell’articolo 9 l’espressione holiat damir – ovvero libertà di coscienza – ma quella di “libertà di credo”. Difatti è necessario sottolineare che vi è una differenza di significato tra questi due termini. In quel periodo anche in Europa non vi era un grande consenso attorno ai principi liberali, fu soltanto con la fine della Seconda guerra mondiale e la caduta dei regimi totalitari che si giunse ad un cambio di paradigma sul tema dei diritti.

A tal proposito è stato ricordato il contributo cruciale del libanese Charles Malik nella commissione per la stesura della Dichiarazione universale per i diritti dell’uomo, soprattutto per l’articolo 18. Egli, infatti, fece sì che non vi fosse solo la nozione di libertà religiosa, ma anche quella di libertà di coscienza. Malik dovette spiegare a Eleanor Roosevelt la differenza tra i due concetti, poiché negli USA avevano il medesimo valore. La Dichiarazione non ricevette alcun voto negativo, tuttavia l’Arabia Saudita si astenne. Sotto la guida di quest’ultima, alla fine degli anni Cinquanta, le dichiarazioni liberali vennero considerate non accettabili per il mondo religioso, poiché l’islam già dava risposte specifiche ai problemi e, inoltre, si voleva evitare un ulteriore influenza europea. Nel 1966 la Convenzione internazionale dei diritti civili e politici, adottata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite, non incluse nell’articolo 18 alcuna menzione alla libertà di cambiare religione.

Nel 1971 la nuova costituzione egiziana ammise il diritto alla libertà religiosa e alla pratica di culto, assicurati dallo stato, ma rifiutava la possibilità di abbandonare l’islam, considerata come reato di apostasia. Inoltre, si ricordi che l’intellettuale Farag Foda, difendendo il principio di stato civile contro il progetto di uno stato islamico, venne accusato di apostasia e successivamente assassinato. Al-Ghazali, autore di diversi testi religiosi, giunse a giustificare l’uccisione, in quanto Foda era stato dichiarato un apostata, quindi nemico dell’islam.

Uno dei testi più importanti negli anni Novanta fu la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’islam del 1990, che sanciva i diritti fondamentali e la libertà nella fede islamica. L’articolo 10 recitava: «l’Islam è una religione intrinsecamente connaturata all’essere umano. È proibito esercitare qualsiasi forma di violenza sull’uomo o di sfruttare la sua povertà o ignoranza al fine di convertirlo a un’altra religione o all’ateismo». La libertà venne pertanto limitata, tutti avrebbero avuto il diritto di esprimere la propria opinione purché non contraria ai principi della sharia.

Il Codice penale unificato degli stati arabi del 1996, adottato all’unanimità, garantì la libertà di credo e pensiero; tuttavia, una serie di articoli prevedevano per il reato di apostasia la pena di morte. Nel gennaio del 2014 la costituzione della Tunisia incluse nell’articolo 6 il diritto di libertà di coscienza, garantito dallo stato insieme alla libertà di culto. Anche in Marocco il tema della libertà di coscienza divenne una questione dibattuta all’inizio del 2010, sebbene nel testo finale della costituzione, nonostante lo sforzo dei più liberali, fosse stata vietata. Nel 2012 l’alto consiglio degli ulema emanò una fatwa nella quale ebrei e cristiani potevano godere della libertà religiosa; i musulmani, invece, non solo non potevano abbandonare l’islam, ma avevano l’obbligo di difendere la religione e se qualcuno avesse deciso di cambiarla avrebbe dovuto essere condannato a morte. Poco dopo il ministro degli affari religiosi espresse in un giornale il suo disaccordo verso tale regola e nel 2017 gli stessi ulema pubblicarono un libro, nel quale cambiavano la loro opinione: non era più possibile condannare a morte un musulmano che abbandonava l’islam. È interessante sottolineare, come ha ricordato il relatore, che non venne abrogata la legge, ma si decise di non implementarla. A tal proposito bisogna considerare che, tra il 2012 e il 2017, il Da’ish in Sira e Iraq rappresentò un trauma per il mondo islamico. Infatti, in una lettera del 2014 rivolta ad Al Baghdadi, più di cento ulema dichiararono che vi era stato un malinteso e una mal interpretazione delle argomentazioni religiose sostenute dal Da’ish.

In conclusione, Avon ha sottolineato come ogni stato con riferimento all’islam nella sua costituzione, abbia limitato o negato la libertà di coscienza; soltanto una parte degli ulema, infatti, avevano accettato i principi liberali. Inoltre, la maggior parte degli studi sul tema si focalizzano sulla libertà di religione con una prospettiva classica, che si sofferma sui diritti comunitari, ma non sui diritti individuali. 

L’ultimo relatore è stato Antonio Angelucci (Università degli Studi dell’Insubria), che ha posto alcune riflessioni sul tema della libertà religiosa dell’Islam italiano e sulle relative questioni rimaste aperte, soffermandosi, in particolare, su circoncisione rituale, sepoltura e assistenza spirituale.

Per quanto riguarda la circoncisione rituale è stato evidenziato come spesso ci sia la tendenza a privare tale pratica del suo significato religioso, considerandola soltanto un attentato all’integrità fisica dei bambini. La risoluzione 1952 dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa aveva affiancato la circoncisione ad altre pratiche, come le mutilazioni genitali, dandole, pertanto, un giudizio di disvalore. È stato inoltre evidenziato che in Italia sul tema della circoncisione non è presente una norma specifica nella legge ordinaria. Tuttavia il diritto costituzionale non pone ostacoli: la circoncisione, infatti, rientra nell’articolo 19 come esercizio del diritto di libertà religiosa e nell’articolo 30 come diritto dei genitori di educare, anche dal punto di vista religioso, i figli. Secondo la Corte costituzionale anche l’articolo 32 sul diritto alla salute non costituisce un limite alla circoncisione, poiché privare un minore di un atto che lo introduce nella comunità religiosa significherebbe lederne il futuro benessere sociale e relazionale. Appare quindi evidente come vi sia una sorta di “favor religionis” nel quadro dei principi costituzionali, riscontrabile anche nel parere del 25 settembre 1998 del Comitato Nazionale per la Bioetica; in tale circostanza era stato decretato che la circoncisione fosse conforme al diritto, in virtù dell’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche italiane e, qualora richiesta, veniva giustificata la medicalizzazione dell’atto. Ciò nonostante, alcuni membri avevano dichiarato non opportuno favorire la medicalizzazione, quando la pratica fosse avvenuta per ragioni esclusivamente rituali. Inoltre, il Comitato aveva dato parere negativo sulla copertura a carico del Servizio sanitario nazionale, anche se alcune regioni in un secondo momento avevano provveduto alla gestione di questa spesa. Da questo quadro emerge in maniera evidente l’assenza di normativa sul tema della circoncisione nella legge ordinaria e un panorama diversificato a livello regionale, aspetti che contribuiscono a porre in pericolo la vita del minore e a ledere il diritto alla libertà religiosa.

Rispetto al tema della sepoltura è stato ricordato che, secondo la Corte costituzionale, l’esercizio pubblico e documentario del culto deve essere sempre assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dalla stipulazione di un’intesa con lo Stato. L’uguale libertà per tutte le confessioni rimane però un principio per la religione islamica che, nonostante sia la seconda numericamente più significativa in Italia, non ha un’intesa con lo stato; si tenga inoltre in considerazione che in Italia non è presente una legge sulla libertà religiosa. Le difficoltà connesse alle sepolture risiedono, quindi, nella scarsità di spazi presenti nei cimiteri, adibiti alle confessioni diverse da quella cattolica, rendendoli pertanto luoghi inadeguati alle esigenze della popolazione musulmana.

Il docente si è poi soffermato sul tema dell’assistenza spirituale nei luoghi di cura, ricordando, anzitutto, che non risultano ministri di culto islamici approvati ai sensi della legge dei culti ammessi del 1929. Infatti, quando l’imam si reca nelle strutture di ricovero esercita il suo servizio ai sensi dell’articolo 38 della legge 833 del 1978, prestando assistenza religiosa nel rispetto della volontà e della libertà di coscienza del cittadino. Nonostante la Corte costituzionale affermi che l’assistenza debba essere sempre garantita, a prescindere dall’avvenuta stipulazione dell’intesa con lo stato, la questione rimane irrisolta, poiché per facilitare l’ingresso degli assistenti spirituali nelle strutture, si ricorre a protocolli di intesa che spesso non sono né tutti uguali tra loro né sempre utilizzabili. Risulta pertanto evidente, anche in questa situazione, la mancanza di uniformità legislativa sul territorio nazionale.

L’ultimo tema affrontato è stato quello dei luoghi di culto, che per la religione islamica sono di varie tipologie quali, ad esempio, moschee, centri islamici e sale di preghiera. Nonostante svolgano importanti funzioni spirituali, educative, di controllo sociale e politico, i luoghi di culto vengono spesso associati, in modo erroneo, al tema della radicalizzazione islamica. Dal punto di vista della normativa costituzionale i luoghi di culto rientrano nell’articolo 19 e 8, come parte integrante del diritto di libertà religiosa, ma anche nel genere urbanistica nell’articolo 117 comma 2. I luoghi di culto sono anche materia di legislazione concorrente, secondo la quale lo stato determina i principi generali e le regioni forniscono la normativa di dettaglio; costituiscono, inoltre, un argomento che riguarda le norme pattizie, come l’accordo di Villa Madama o altri casi analoghi relativi alle confessioni religiose che hanno siglato un’intesa con lo stato italiano. Per l’Islam, in assenza dell’intesa, si fa riferimento alla legge ordinaria per la quale i luoghi di culto sono opere di urbanizzazione secondaria di competenza delle regioni e poi dei comuni. In mancanza della legge sulla libertà religiosa vi è una grande discrezionalità: spesso, infatti, vengono posti limiti ingiustificati alla costruzione di moschee, dando preferenza alle altre confessioni. Tuttavia, la sentenza della Corte costituzionale 195 del 1993 ha stabilito la parità di diritto di tutti gli appartenenti alle diverse fedi, a fruire delle facilitazioni disposte per l’esercizio del culto. Si pensi che la legge della regione Lombardia n. 2 del 2015 – la cosiddetta “legge antimoschea” – imponendo per ragione di sicurezza limiti all’apertura di luoghi di culto, venne dichiarata parzialmente incostituzionale.

Da questi accenni risulta evidente come in Italia ci siano ancora questioni aperte legate alla religione islamica, dovute non soltanto alla mancanza di un’intesa con lo stato, ma anche all’assenza di una legge sulla libertà religiosa.

Silvia Eleonora Brera