Incontro di studi, Dipartimento di Studi Storici, Milano 21 maggio 2024
«Chi non lotta con coraggio non si merita l’ingaggio. Chi non lotta con vigore è peggior di un traditore. Chi si estranea dalla lotta… è un gran fijo de ’na mignotta!». Quando Alberto Sordi, negli indimenticati panni del presidente del Borgorosso Football Club, intona questo tonante grido di battaglia, una prosaica Haka romagnola datata 1970, probabilmente non immagina che quelle parole, almeno il loro ultimo verso, sarebbero diventate da lì a pochi anni il meraviglioso ritornello nazional popolare che accompagnò in tutte le spiagge e le case d’Italia la strepitosa cavalcata dell’Italia di Bearzot nel Mondiale di Spagna.
La storia di quegli antichi ed improbabili cantori di un calcio che forse non c’è più, perso nelle pieghe del tempo e nella polvere della provincia, è stata evocata da Andrea Gamberini, direttore del Dipartimento di Studi Storici, presentando il bel convegno voluto e organizzato da Massimo Baioni e Nicola Del Corno, docenti dell’Università Statale di Milano, nelle sale dello stesso Ateneo. Il convegno «La Provincia alla riscossa. Calcio, politica e società negli anni 70 e 80» ha declinato un racconto di quegli anni dove ad ogni crocevia i ricordi della nostra storia si incontrano con quelli delle nostre storie.
Ha aperto il primo panel di interventi Massimo Baioni, raccontandoci di quel meraviglioso 1970 a Cagliari, che fu non solo Gigi Riva, non solo Cagliari e non solo calcio. Baioni legge in filigrana, e in filigrana racconta, una storia normale e speciale. Aveva già scritto, recentemente, di Gigi Riva, descrivendo «il calciatore potente e irruento, coraggioso e sfortunato, l’antidivo, il rapporto osmotico con un’Isola e con la sua gente […] soggetto anomalo di una rappresentazione sui generis letteraria, che ne ha fissato i tratti quasi di moderno eroe omerico». Una iconografia d’altri tempi che fa di Riva e di quello «scudetto rivoluzionario» gli eroi di un momento di ascesa sociale dell’Isola tutta. Erano gli anni in cui SIR di Nino Rovelli e SARAS di Angelo Moratti decisero di investire in terra sarda. Lo fecero con un occhio all’intera società isolana e l’altro ai suoi simboli. E Riva rappresentava quei simboli. Massimo Moratti racconterà di come il padre Angelo si rese immediatamente conto che assecondare la volontà di Riva di non lasciare il Cagliari per la Juventus fosse la pietra angolare su cui fondare il tempio profano del Sant’Elia. Rovelli, da parte sua, acquisì “L’Unione Sarda” e “La Nuova Sardegna”. Comunicare è più di metà di fare e la situazione era così effervescente che anche l’“Avanti!” parlerà di rivincita della provincia.
Quell’orgoglio isolano attraversa l’Italia, e si affaccia nelle pieghe di una bella pellicola di quei mesi: Il frigorifero è un episodio diretto da Mario Monicelli del film Le coppie: una sera, nella cucina di Gavino Puddu e sua moglie Adele, lei apre un armadio, e si vede un poster del Cagliari campione d’Italia. Il film rappresenta una bella testimonianza dell’impatto della vittoria sportiva sugli emigrati sardi al nord della penisola. Lo scudetto è l’orgoglio e il riscatto dell’isola intera e della sua immagine pubblica, con ricadute non secondarie anche sul turismo.
Nel 1977 uscirà un bel libro di Giovanni Arpino, Azzurro Tenebra. Ci racconterà della sfortunata avventura azzurra ai Mondiali tedeschi del 1974. Sono i bagliori di un nuovo calcio, e forse di una nuova società. L’ombra di un grande scandalo aleggia sul futuro di questo sport, ma prima e dopo ci sarà spazio per le imprese di altre due provinciali di lusso.
La prima di queste due storie ci è narrata nel secondo intervento del convegno da Nicola Del Corno. È la vicenda di un figlio di Verona che si ritrova a nemmeno 35 anni a essere il presidente del Lanerossi Vicenza: Giuseppe Farina, detto Giussy, è un giovane imprenditore di origini contadine che si laurea in giurisprudenza all’Università di Padova. Nel 1968 diviene presidente di una società di cui detiene solamente il 2% delle quote. I primi anni sono complicati. Il campionato 1972-73 vede la salvezza dei biancorossi solo all’ultima giornata in un concitato spareggio con l’Atalanta. Tuttavia la fortuna abbandonò il Lanerossi nel 1975 quando, al ventesimo campionato consecutivo di Serie A, fu costretta a tornare nella serie cadetta. Peggio ancora la stagione successiva, quando fu sfiorato l’ulteriore declassamento in serie C. Nel 1976-77 il nuovo tecnico Fabbri mutò il ruolo della giovane ala destra Paolo Rossi in centravanti, e con ciò le sorti del club per alcune stagioni. Il ritorno in seria A fu immediato. E impronosticabile fu l’annata successiva, quando solo la Juventus fece meglio del Vicenza, che chiuse al secondo posto approdando alla coppa UEFA. Al ritorno dai mondiali d’Argentina, dove Paolo Rossi, ora “Pablito”, dà bella mostra di sé, arriva inevitabile la richiesta della Juve di riportarlo a Torino. Si va alle buste, ed è la seconda volta che Giussy Farina vi ricorre, nella sua carriera di presidente. La prima, nel 1971, fece scandalo: offrì 175 lire per Paride Tumburus, così pochi da costringere la Lega a cambiare da lì in avanti il regolamento, fissando l’offerta minima per la risoluzione delle comproprietà in centomila lire. Questa volta apparentemente andò meglio, ma dobbiamo tenere un condizionale a portata di mano. Farina scrisse 2 miliardi, 612 milioni e 510 mila lire, Boniperti 875 milioni. È comunque il prezzo di una comproprietà, Rossi diventa Mister 5 miliardi e Giussy Farina il Davide che ha osato sfidare e sconfiggere il Golia Bianconero. Probabilmente è inevitabile anche in questo caso una lettura in controluce di quell’Italia. Sono gli anni delle cassa integrazione: la Juve non può tenere gli operai a casa e i campioni in campo. Farina si deve inventare qualcosa per fare fronte a questa cifra strepitosa. Ha un’idea, l’abbonamento biennale. È il primo presidente a farlo, ma senza grande fortuna. La squadra, smantellata da troppe cessioni e priva di un’identità, incredibilmente retrocesse in serie B. E due stagioni dopo addirittura in C1.
Nel frattempo Paolo Rossi rifiutò in modo clamoroso il trasferimento al Napoli di Ferlaino, optando per rimanere comunque nella massima categoria passando al Perugia, in quegli anni rampante “provinciale” in ascesa. La formula della cessione, perfezionata tra Giussy Farina e il presidente dei grifoni Franco D’Attoma, fu il prestito per due anni, a 500 milioni a stagione. Rossi non farà in tempo a disputarle entrambe, rimanendo coinvolto nello scandalo del calcio scommesse nella primavera del suo primo anno in Umbria. Squalificato per due anni, farà appena in tempo a rientrare per diventare l’eroe di Spagna e il terzo pallone d’oro italiano. Lo farà con la casacca della Juventus, che lo acquistò dal Perugia per 3 miliardi e 350 milioni.
Giuseppe Farina nel frattempo fu costretto a lasciare la società al figlio Francesco, nel gennaio 1982. L’anno successivo ritenterà l’avventura con il Milan, acquistandolo da Felice Colombo. Ma questa è un’altra storia. Con un piccolo spoiler: si riprenderà Paolo Rossi…
Tuttavia, prima di questo rendez-vous, e prima dei suoi anni bianconeri, Paolo Rossi incontra la città protagonista del terzo intervento, fra “calcio, sputi e miracoli”. Lorenzo Venuti, dell’Università di Bologna, ci racconta della Perugia della fine anni ’70. Con una doverosa premessa di Italo Cucci, «ogni squadra è provinciale, tranne le strisciate, il Toro e le romane», Venuti ci catapulta in una realtà fortemente proiettata sul mercato internazionale, in quella metà del decennio made in Italy. Ragiona di sport e politica, football moderno e identità nazionale ricordandoci che due importanti presidenti del club umbro, Spartaco Ghini e Franco D’Attoma, erano due abili imprenditori con vista oltre il Mediterraneo. Il primo, che fu a lungo anche amministratore delegato del club, guidava Sicel, azienda produttrice di carpenteria metallica e prefabbricati edilizi con forti interessi in Libia e in Iraq. Fra l’altro proprio Sicel, benché Ghini avesse nel frattempo lasciato la presidenza della Società, portò a termine in appena tre mesi la costruzione del nuovo stadio Comunale di Pian di Massiano, nell’estate del 1976.
Franco D’Attoma è pugliese di nascita ma innamorato di Perugia. Ha un ruolo di grande rilievo in Ellesse ed è presidente del club dal 1974 al 1983. È proprio lui a volere al suo fianco Ghini per vivere insieme gli anni del Perugia dei miracoli. Reduci dalla miracolosa salvezza del 1973-74 ottennero la prima promozione in serie A nel 1975. Vissero il dramma della morte di Renato Curi, nell’ottobre del 1977, il miracoloso secondo posto nella stagione 1978-79, imbattuti alle spalle del Milan, infine l’arrivo di Paolo Rossi nel 1979. Lì D’Attoma riscrisse le regole del calcio, inventandosi una sponsorizzazione formale. Fonda un pastificio con il nome di un maglificio, aggira le regole, paga la multa e trova 500 milioni per coprire il primo anno di prestito di Rossi (altra interpretazione visionaria dei regolamenti…). Purtroppo il Diavolo (quello vero, non il Milan) si dimentica di fare i coperchi e al termina della stagione Rossi viene squalificato. Ma ovviamente anche questa è un’altra storia.
Restando all’interno di quegli anni, Nicola Cecere, giornalista della “Gazzetta dello Sport”, ha raccontato di quel drammatico 1980 ad Avellino, e della pizza mancata con chi diventerà poi sua moglie. Aspettava sotto casa di lei, e ricorda di una città messa in ginocchio in 90 secondi. 240.000 famiglie fuori casa e circa 3000 vittime, e come sempre in questi casi, la vita sospesa. La squadra di calcio usciva dallo scandalo scommesse che aveva fermato Rossi e mandato Milan e Lazio in serie B. Se l’era cavata con 5 punti di penalizzazione, come Bologna e Perugia. 5 punti non sembrano poi molti, nel calcio di oggi, ma all’epoca dei due punti a vittoria erano un fardello pesante. Quell’Avellino, allenato da Vinicio, che schierava fra gli altri Tacconi fra i pali, Vignola e il capitano Di Somma si salvò, ma lo fece all’ultima giornata, in una situazione drammatica. Giocò una partita spareggio, al Partenio, contro la Roma, seconda in classifica, incattivita dallo scippo subito dalla Juventus, il celeberrimo gol annullato a Turone. Pronti via e segna Falcao. Poi in un altro stadio segna Cabrini, lo scudetto guarda insistentemente verso Torino, e la Roma perde cattiveria. Segna su punizione Venturini, definito da capitan Di Somma «un giocatore dai piedi di gesso», nemmeno inserito nell’album delle figurine Panini. È la riscossa della provincia. Il miracolo di uno sconosciuto. La liberazione del Partenio. Chi scrive immagina che Nicola Cecere quella sera sia andato a cena con la fidanzata.
Marco Pignotti, dell’Università di Cagliari, ha raccontato nella quinta relazione dello scudetto del Verona. L’ultimo vero miracolo della provincia, a firma Osvaldo Bagnoli. Destinato al Milan, ma tagliato da Berlusconi in persona perché in odore di comunismo, «ma io sono socialista…» raccontò poi lui. Ciò diede a Beniamino Placido la chance divertita di ribadire dalle colonne di “Repubblica”: «un comunista ha tolto lo scudetto a Berlusconi». È vero dire che quel Verona rappresentò forse l’ultimo caso del trionfo di una provinciale, tuttavia è altrettanto lecito domandarsi cosa sia poi una provinciale. È un dubbio di difficile risoluzione, e destinato a diventare anche più enigmatico nel calcio contemporaneo, dominato da investimenti ultramilionari di grandi gruppi industriali, spesso stranieri.
Tema, quest’ultimo, che è stato analizzato durante l’ultimo intervento del convegno da Marco Di Domizio, dell’Università di Teramo, che ha ragionato del Pescara: il calcio tra sviluppo sociale e crescita culturale. Da un lato una società che a più riprese ha dato vita ad esperimenti tecnici assai riusciti: quello di Giovanni Galeone, che nella stagione 1986-87, con una squadra costruita per il campionato di Serie C1, e ripescata in Serie B, ottenne al primo colpo la serie A. La squadra abruzzese, con la sua guida nella stagione successiva, si confermò nella massima serie, sconfiggendo fra le altre Juve e Inter. Tornò in B e tornò in A, in quegli anni. E poi ancora in B. Per doverne poi aspettare 19 per rivedere la massima serie, il 20 maggio 2012 sotto la guida di Zdeněk Zeman. Marco Di Domizio è un economista, e ha ragionato principalmente di economia: si è chiesto dove ci condurrà lo sport di questi giorni, dove vinci a seguito di una programmazione capillare, cinica e rigorosa. Investi e vinci. E più vinci più devi investire per continuare a farlo.
Temi poi approfonditi durante la discussione finale. Emanuele Edallo, Antonio Minoliti, Nicola Sbetti e Francesca Tacchi hanno discusso con i presenti del senso che ha oggi parlare di provincia nello sport, oltreché nel calcio. Certamente siamo partiti dalla capacità evocativa di un singolo uomo che ha propiziato il riscatto sociale del suo “popolo”. La forza dei simboli spesso esercita un potere immaginifico che grida solo di essere riempito di significati. Così fu con Gigi Riva. Il mondo sta cambiando ad una velocità che sfida i propri limiti. I grandi investimenti non hanno più bandiere né identità nazionali. Men che meno regionali. Molte proprietà muovono investimenti di enorme portata solo in nome della dea vittoria. Con le iniziali minuscole. Rimane spazio per l’eroe?
Federico Garibaldi