«Difficile non esagerare quando si parla di Mario Isnenghi». Così il professor Marco Cuzzi ha introdotto l’autore di Tragico controvoglia. Studi e interventi 1968-2022 (Ronzani Editore, 2023), libro presentato il 15 marzo 2024 presso l’Università degli Studi di Milano dall’autore e dai docenti Claudia Baldoli, Marco Cuzzi e Irene Piazzoni.
Docente di Storia del giornalismo e Storia contemporanea a Padova, Torino e Venezia, Isnenghi è professore emerito dell’Università Ca’ Foscari. Isnenghi è uno storico, ma pure un attento conoscitore e osservatore della vita culturale italiana, capace di intrecciare accademia e attività politico-culturale (ma non militanza) tra circoli e stampa. I temi da lui affrontati, in opere assurte a classici della storiografia, sono vari ma concentrati nell’ambito della storia italiana dei secoli XIX e XX: è una storia non solo politica, ma anche delle idee, degli intellettuali e degli atteggiamenti mentali, delineata grazie a un ampio utilizzo di fonti letterarie e memorialistiche. Pur non rifiutando un’attenzione particolare a guerre e relative memorie, è attraverso il suo approccio interdisciplinare alla ricerca che Mario Isnenghi supera la classica dimensione storico-politica che sovente la domina, distinguendosi, secondo Cuzzi, come un «vero e proprio minatore della storia».
Claudia Baldoli introdotto il libro, sottolineandone subito la struttura non cronologica: i testi, pubblicati dal 1968 al 2022, non seguono l’ordine di pubblicazione ma sono organizzati in forma di intrecci. Vengono dunque esposte le tematiche affrontate nei singoli capitoli. Vi è modo qui di parlare di temi come quello dei “nati troppo tardi, nati troppo presto e nati al momento giusto”, da cui emergono gli interrogativi sul rapporto persone-eventi storici. Un altro tema affrontato è quello del “vincere perdendo”, origine delle riflessioni dietro al titolo dell’opera, strettamente legato alle “tragedie necessarie” della storia italiana: “tragici controvoglia” come i fatti dell’Aspromonte del 1862, Caporetto e l’8 settembre 1943.
Da qui si affronta anche la questione della riconciliazione sul passato e l’idea della storia d’Italia quale “arcipelago di ex”, soggetti che cambiano idea di fronte ai grandi momenti della storia. Osservando, infine, le questioni del lavoro di storico e del relativo impegno civile, si giunge a chiedersi a cosa serva la storia.
Dopo aver selezionato alcuni testi dal libro, Baldoli ne ha dato una lettura trasversale. Partendo dal primo capitolo si è soffermata sul tema della mancanza di autocoscienza tragica come marchio collettivo degli italiani e della necessità di riconciliazione. Si tratta, quindi, dell’Aspromonte, di Garibaldi “rivoluzionario disciplinato” che ha deciso di evitare la guerra civile, e del diversivo della parodia, con cui si è evitato di riflettere sulla tragedia, creando quel percorso rinunciatario ma più praticabile, da cui viene anche la filastrocca popolare Garibaldi fu ferito. Baldoli ha accennato al tema dell’aprioristica autodenigrazione degli italiani, più volte affrontato da Isnenghi nelle sue opere, e delle “gloriose disfatte”, approdando alla domanda: «come mai Caporetto è molto più importante di Vittorio Veneto?»
Ad emergere è che Caporetto sarebbe la conferma di un senso comune diffuso: quello dell’evento negativo, dell’autocritica e dell’autodenigrazione. Custoza, Lissa, Adua o Caporetto hanno formato un canone di sciagure materiali e dell’immaginario che hanno investito e investono il senso collettivo della nazione e dello stato.
Rispetto alla tragedia emerge poi anche l’elemento “riconciliazione”, rispetto alla quale Isnenghi scrive che «la vera riconciliazione non è – vicendevolmente – con gli altri, ma con una storia dell’Italia di cui gli altri fanno parte». Per Baldoli, sono due i punti da tener presente. Anzitutto riconciliazione non vuol dire democrazia, anzi in democrazia c’è conflitto. Inoltre, si nota che il fascismo è parte della storia d’Italia e non bisogna tanto riconciliarvisi, quanto mantenerne una memoria critica. Tragedie come Caporetto, l’8 settembre, o pure Porta Pia, sono state necessarie, ma non è necessario riconciliare le parti su di esse.
Baldoli conclude trattando il problema del “defelicismo” dei media, che per fini politici, distorcono quanto scritto da De Felice il quale, nel suo primo volume della biografia mussoliniana (1965) aveva usato l’aggettivo “rivoluzionario” per riferirsi a Mussolini reinserendo, così, il dittatore nella storia della sinistra, e il fascismo nella storia d’Italia. La deriva defeliciana più problematica evidenziata è stata semmai la propensione a utilizzare solo fonti fasciste per scrivere storia; questa, presentata come apolitica e neutrale, è potuta poi entrare nel discorso dei media. Aspetto, questo, che spinge anche a riflettere sulla funzione della storia, alla lettura del presente e all’individuazione degli strumenti per comprenderlo.
L’intervento di Irene Piazzoni si concentra su quattro aspetti ricorrenti nell’opera di Isnenghi.
Il primo è quello della circolazione di significati nell’intreccio tra letteratura, politica e storia. A ciò che Isnenghi definisce “interdipendenza”si lega la sua introduzione a Confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo, del 1968, considerata dallo storico come il proprio personale contributo al Sessantotto, specie se messo in relazione al suo I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra. Nievo, presentato come anti-Manzonie alfiere dell’Italia laica, era divenuto un autore caro al movimento della protesta giovanile per le sue riflessioni sul volgo rurale, “braccio della Nazione”, e sul recupero della dimensione letteraria dei subalterni: ecco il Nievo isnenghiano, narratore demistificante, smitizzante e diseroicizzante, risposta a quel recupero in senso “nazionale”, incarnato dalla proposta della Rai con la serie La Pisana del 1960.
Il riconoscimento della dimensione programmatica e storica nell’opera di Nievo assume un ruolo centrale nell’analisi di Isnenghi, che definisce il romanzo come “storico”ancor prima che “di formazione”: Nievo diventa fonte letteraria e insieme storica proprio per la sua capacità di intrecciare il tema della formazione generazionale e collettiva del ”io-noi” alla più vasta dimensione culturale, civile e politica.
L’analisi di Mario Rigoni Stern permette poi di evidenziare il legame tra scrittore e habitat, declinazione particolare di “’io-noi”. La prospettiva biografica diventa qui fondamentale, perché ritrae l’intellettuale quale figura inserita attivamente nel suo contesto: la biografia cessa di essere un dettaglio prosopografico, facendosi finestra attraverso cui osservare il particolare per comprendere il generale.Il tema “io-noi”si declina anche nel nesso attualità-storia, quindi quello letteratura-storia: gli scrittori elaborano a loro modo la storia, facendo memoria. Si prenda ad esempio Luigi Meneghello, altro autore veneto studiato da Isnenghi, che permette di sottolineare il ruolo delle fonti letterarie per la storia, ammonendo però che storia e memoria non vadano confuse. Le opere letterarie, da quelle di finzione fino alle fonti del sé sono preziosi strumenti per lo storico, a patto però che si riescano a distinguere le strategie di rappresentazione da quelle di auto-rappresentazione.
Si è richiamata poi l’attenzione di Isnenghi per i grandi assenti della narrazione tradizionale, il mondo femminile e quello contadino, il quale rappresenta il secondo punto evidenziato nell’intervento di Piazzoni. Infatti, dopo una prima fase di attenzione agli intellettuali, Isnenghi si è progressivamente focalizzato sul mondo rurale e sul suo ruolo nella storia d’Italia. Fondamentale a tal fine è stato il ricorso alla letteratura, in grado ancor più della storia di far emergere le condizioni ambientali della realtà rurale.
Il terzo aspetto è, dunque, il rapporto storia-geografia. Rispetto alla storia, la geografia non è solo descrizione di luoghi, ma anche elemento culturale. Ricordando come la storia d’Italia sia al tempo stesso locale, regionale e nazionale, Isnenghi ha messo in relazione i tre autori di cui sopra, individuando nelle loro poetiche una linea anti-fogazzariana, figlia di una letteratura veneta libera dall’influenza cattolica. Il Veneto qui assume un ruolo di laboratorio dalla doppia identità: retroguardiadella tradizione e insieme avampostodella sperimentazione. Infine, Piazzoni riconduce Il mito della Grande Guerra, pubblicato da Laterza nel 1970, al tema del rapporto “testi-contesti”. Le integrazioni e modifiche del paratesto lo hanno reso un “libro doppio”, che testimonia delle varie nuove percezioni sul tema della guerra, derivate dalla diffusione di ideali pacifisti di non-violenza, e talvolta da un revisionismo dimentico della realtà.
Si sottolineano, quindi, i rischi che possono derivare dal richiamo a valori o retoriche del presente. Il legittimo sdegno verso l’ecatombe della Grande Guerra non deve sostituire un giudizio storico puntuale e approfondito. Altrimenti, la disciplina storica rischia di negare sé stessa, divenendo qualcosa di più prossimo alla letteratura o alla retorica. Secondo Piazzoni, dunque, Isnenghi mette in guardia da quella destoricizzazionedello sguardo storico e da quel presentismo, che tendono ad assoggettare il passato ai bisogni del presente e che caratterizzano sempre più il dibattito pubblico.
Nel suo intervento, Isnenghi parte proprio da Il mito della Grande Guerra. Rievocando la vicenda editoriale dell’opera, Isnenghi sottolinea l’importanza che un testo possa essere accolto da un editore commerciale, con regolare contratto e salvaguardia dei diritti d’autore, così da approdare al dibattito delle idee senza la garanzia di un prepagamento assicurato da fondi istituzionali. Molti accademici – ricorda – si scandalizzarono che i suoi libri uscissero con profitto presso un editore non accademico ma, per Isnenghi, un’opera deve “rischiare il mare aperto”.
La casa editrice Laterza aveva rifiutato nel 1967 la pubblicazione dell’antologia I vinti di Caporetto, uscita invece per Marsilio lo stesso anno. L’opera raccoglie scritti di tenenti e sottotenenti che tra ottobre e novembre 1917 scrissero degli avvenimenti di Caporetto, oggi come allora oggetto di interrogativi importanti. La domanda che si ponevano l’autore e la sua generazione era: «Ma a Caporetto i soldati stanno facendo la rivoluzione, come dicono Cadorna e gli altri?». Gli scritti del tempo aiutano a rispondere a tale interrogativo: Isnenghi afferma in maniera decisa che il ‘17 italiano non fu mai come quello russo rivoluzionario.
Lo studioso descrive poi la propria prospettiva d’indagine storica: un equilibrio tra fatti e percezioni, tra fatti e soggetti che interpretano il loro esser presenti. Nello scrivere e nel pensare – ribadisce – ha sempre cercato di intridere pubblico e privato, cioè, osservare come la dimensione pubblica è vissuta e interpretata anche (ma non solo) dall’individuo. Tornando al caso Caporetto, Isnenghi sottolinea che le fonti mostravano che nessuno stesse comprendendo gli accadimenti in corso, mentre ci si affrettava a trarre conclusioni sulle basi della propria cultura e idea politica. Anche Isnenghi, come altri, mentre scriveva andava in cerca della storia delle classi subalterne e non gli sarebbe dispiaciuto – afferma – trovarvi la Rivoluzione, ma non c’era: una volta constatato che non vi si trova quanto asserito da Cadorna e altri, la Caporetto rivoluzionaria diviene solo un “sogno”.
Mentre nei cinquant’anni successivi alla prima pubblicazione, Marsilio si rifiutava di ripubblicare Il mito della Grande Guerra, Caporetto cambiava assieme a quella stessa visione della guerra propria dell’approccio “isnenghiano”. Tale approccio teneva conto della psicologia, del sospetto e del verosimile (a ciascuno il proprio verosimile, che fosse Cadorna, Mussolini o Turati). Isnenghi evidenzia come nei cento anni successivi al primo conflitto mondiale la guerra è diventata anche storia della guerra, intendibile sia come storia della storiografia, sia e soprattutto storia di come la guerra venne pensata e ricordata dalle famiglie, dai reduci e dai loro nipoti e pronipoti.
Uscito per Laterza solo nel 1970 e 1974, Il mito della Grande Guerra resterà senza pubblicazione sino al 1989, anno in cui prende avvio una serie di ben sei riedizioni per i tipi de Il Mulino, mentre I vinti di Caporetto non verrà più ristampato.
Documentando l’itinerario editoriale (ma non solo) de Il Mito, attraverso prefazioni e postfazioni, l’autore ha registrato i cambiamenti d’atteggiamento della società rispetto alla Grande Guerra e all’idea stessa dell’Italia in guerra. Secondo Isnenghi, dunque, la scelta dell’intervento deve essere rispettata: neutralismi e pacifismi maturati a un secolo di distanza sono inutili.
Successivamente Isnenghi ammette la passione per Ippolito Nievo e Le confessioni di un italiano. Riscoperto solo recentemente, Le confessioni è rimasto a lungo all’ombra de I promessi sposi: secondo Isnenghi, ciò dipende dal fatto che Nievo era troppo avanti per i suoi tempi.
L’ospite chiude “tornando all’Aspromonte”, alla tragedia in senso greco, incomponibile scontro tra due polarità: 1862, l’Italia, figlia di Mazzini e Garibaldi, è unita sotto monarchici e moderati, ma questi vorrebbero bandire idealmente i repubblicani, i pensatori della Nazione. Ciò potrebbe apparire squallido, ma la storia – afferma Isnenghi – è triste, squallida e dura.
In conclusione, Isnenghi si chiede: «come si fa a non conoscere la storia verace? Il nostro non è il Paese della pizza e dei mandolini. Voi che fate la magistrale di storia o la conoscete o la conoscerete [sottintesa è la storia italiana]».
Pietro Nicola Bonetta, Francesca Camporeale, Marco De Tommasi, Gianluca Zumbo