Il cattolicesimo politico nell’Italia del Novecento (Università degli Studi di Milano-Università IULM) – 28-29 novembre 2024

Promosso dal Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano, dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università IULM di Milano, dal Dottorato in Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano e dalla Fondazione Romolo Murri dell’Università degli Studi di Urbino, giovedì 28 e venerdì 29 novembre 2024 si è tenuta presso l’Università degli Studi di Milano la prima giornata del convegno Il cattolicesimo politico nell’Italia del Novecento.

La prima relazione, di Daniele Menozzi (Normale di Pisa) e intitolata Chiesa, cultura cattolica e politica tra Otto e Novecento, ha analizzato le basi ecclesiastiche del primo cattolicesimo politico italiano, evidenziando l’obiettivo della Chiesa di ricostruire una cristianità perfettamente ordinata sul modello medievale e la percezione della modernità come una catena di errori. Menozzi ha sottolineato il ruolo cruciale della gerarchia ecclesiastica nell’orientare le azioni politiche attraverso «regole fondamentali» e un «carattere mitico» che permeavano l’elaborazione culturale della Chiesa. Pio IX (1846-1878) attribuì scopi politici all’associazionismo cattolico, favorendo una «spiritualità politica» antimoderna radicata nella politicizzazione dei culti popolari e in un’impostazione di protesta. Con Leone XIII (1878-1903), invece, si avviò una fase di modernizzazione cattolica volta a rispondere alle trasformazioni sociali della seconda rivoluzione industriale. In particolar modo l’enciclica Rerum Novarum (1891), condannando liberalismo e socialismo, contrappose ad entrambi una visione sociale cattolica che aprì i cattolici alla competizione propositiva con le altre correnti politiche.

Parallelamente, il rapporto tra cattolicesimo e Stato nazionale fu parzialmente rielaborato: se Pio IX aveva condannato il culto totalizzante della Patria, Leone XIII riconobbe la legittimità di quest’ultima come società naturale voluta da Dio, subordinata però alla Chiesa per i valori morali. Ciò avviò il processo di nazionalizzazione dei cattolici italiani, con l’invito a intervenire nella vita collettiva per plasmare la società civile secondo i principi della dottrina cattolica. Tale intervento avrebbe delineato una «controsocietà cattolica», premessa per una futura riconquista cristiana del Paese.

Per quanto riguardava l’esigenza di presenza politica, questa, secondo Menozzi, avrebbe trovato espressione nella corrente «democratico-cristiana», che pretendeva di conciliare i principi della Chiesa con strumenti moderni come partiti e presenza parlamentare. Menozzi attribuisce a questa fase un «salto di qualità», con l’affermazione dell’autonomia dei cattolici nella gestione delle questioni politiche rispetto alla gerarchia ecclesiastica. Tuttavia, Pio X (1903-1914) nell’interpretazione di Menozzi, avrebbe reagito a tali sviluppi con una repressione delle iniziative non conformi alle direttive vaticane (vedasi la condanna di Murri e della Lega democratica nazionale), pur introducendo deroghe al non expedit e consentendo un cauto ingresso dei cattolici nel voto nazionale.

Al contempo, il rapporto tra Chiesa e nazionalismo italiano si fece sempre più critico: Benedetto XV (1914-1922), durante la Grande Guerra, condannò la sacralizzazione della violenza e l’elevazione della Nazione a religione sostitutiva del cristianesimo, ribadendo l’imparzialità della Santa Sede e interpretando il conflitto come punizione divina per l’apostasia dell’uomo moderno. La guerra, tuttavia, aprì nuove possibilità politiche, portando all’iniziativa di don Luigi Sturzo e alla nascita del Partito Popolare Italiano, un’organizzazione aconfessionale ma ispirata ai principi cristiani.

A Menozzi è poi succeduta Daniela Saresella (Statale di Milano) con una relazione dal titolo Le prime forme di cattolicesimo politico. Dopo aver messo in evidenza  come la fine dell’esperienza politica della Democrazia Cristiana nei primi anni Novanta non abbia coinciso con un rilancio degli studi sulle origini storiche della stessa, Saresella ha iniziato la propria relazione dall’elaborazione di Vincenzo Gioberti (1801-1852) e  dal «neoguelfismo», la cui importanza starebbe nell’aver presentato il cattolicesimo politico come costante «ricerca di una terza via tra modelli politici differenti». Fallito questi e nonostante la successiva contrapposizione tra Stato liberale e Chiesa, l’elaborazione politica cattolica proseguì, spesso  però subordinata ad altre ideologie, come nei casi dei «clerical-moderati» e del movimento conciliarista, orientati a una piattaforma conservatrice e antisocialista, ma ostacolati sia dal Vaticano sia dagli ambienti intransigenti, conducendo al loro fallimento.

Punti di svolta nella storia del primo cattolicesimo politico italiano furono l’emanazione dell’enciclica Rerum Novarum (1891) e l’incarico di Segretario di Stato vaticano al cardinale Mariano Rampolla del Tindaro (1887), in quanto questi segnarono «il rafforzamento dell’ala democratica cristiana dei movimenti cattolici» in Italia come in Francia, Belgio e Austria.

Sulla scorta dei mutamenti del primo Novecento Saresella ha voluto approfondire l’elaborazione di Romolo Murri (1870-1944), sottolineando la particolare connessione col modernismo religioso, l’attenzione al mondo operaio e la rivendicazione dell’«autonomia del laicato dal clero sul terreno delle lotte politiche». Sottolineata la grande fortuna avuta da Murri nelle analisi e nella storiografia  marxista, Saresella ha altresì evidenziato una ritrosia da parte della storiografia cattolica ad interessarsi della vicenda murriana e ancor di più ad ipotizzare rapporti tra essa e la successiva esperienza del PPI. Infatti studi come quelli di Gabriele De Rosa sottolinearono invece l’influenza di Filippo Meda e del modello tedesco del Zentrum, relegando Murri a un ruolo marginale e attribuendo a Sturzo una prudente distanza da lui per l’eccessiva commistione tra religione e politica, mentre solo in ambienti postconciliari, Lorenzo Bedeschi sostenne una «continuità dinamica» tra il murrismo e il popolarismo sturziano, trovandone tracce nella formazione giovanile di Alcide De Gasperi. Ancora studiosi come Pietro Scoppola e Agostino Giovagnoli hanno negato ogni eredità murriana, riconducendo la cultura democristiana alle esperienze del PPI senza riferimenti ai progetti di inizio Novecento. Anche ricerche successive, come quelle di Umberto Gentiloni Silveri e Guido Formigoni, si concentrarono sul cattolicesimo intransigente e sui tentativi di costruzione di fronti politici conservatori, escludendo Murri dal quadro. Una rilettura significativa venne da Francesco Traniello, che nel 1990 indicò Murri come precursore dell’idea che democrazia e libertà fossero inscindibili e della necessità per il cattolicesimo di non essere assorbito da blocchi conservatori. L’interesse per Murri riprese con il convegno della Fondazione Romolo Murri (2001), l’opera di Camillo Brezzi (2011) e gli studi di Paolo Giovannini (2014), culminando con la rivista Modernism (2015), dedicata al riformismo religioso contemporaneo.

Saresella ha concluso affermando che un «filo di continuità» lega l’esperienza della prima Democrazia Cristiana con le successive vicende politiche dei cattolici italiani, individuando nell’eredità murriana un’influenza che attraversa non solo il PPI e il popolarismo, ma l’intera esperienza democristiana, fino a oltre la sua conclusione.

A conclusione della mattinata la relazione di Giorgio Vecchio (Università di Parma) dal titolo La breve vita del Partito Popolare tra popolarismo sturziano e conservatorismo cattolico.

Vecchio ha sottolineato come nel primo dopoguerra il cattolicesimo politico non si fosse esaurito nel PPI, pur essendone la principale espressione per rilevanza e eredità. Accanto ad esso sorsero altri movimenti, come il Partito Democratico Cristiano (1919), il Partito Cristiano del Lavoro (1921), l’Unione Costituzionale (1922) e il Centro Nazionale (1924). Il PPI, caratterizzato dall’aconfessionalità, affrontò complesse relazioni con l’autorità ecclesiastica e un’identità non pienamente coincidente con il popolarismo, inteso come il progetto sturziano di riformismo e integrazione nazionale. Vecchio ha distinto tra il partito, aggregazione politica con priorità antiliberali e antisocialiste, e il popolarismo, più legato alla visione riformista e aconfessionale di Sturzo.

L’analisi genealogica del PPI si sofferma sulle reazioni interne al mondo cattolico alla sua nascita, con interpretazioni differenti. Da una parte, la destra cattolica lo collegava alla tradizione guelfa e conservatrice, come Gilberto Martire, Carlo Bresciani e padre Agostino Gemelli, che lo intesero come un partito d’ordine subordinato alla gerarchia e opposto a ogni ripresa del murrismo. Dall’altra, figure come don Giulio De Rossi rifiutavano queste letture conservatrici, richiamandosi alla Democrazia Cristiana del 1899-1901.

Vecchio ha esplorato poi l’aconfessionalità e l’autonomia come concepite da Sturzo, che rigettava l’uso della religione come tratto distintivo di parte, puntando a un partito di ispirazione cattolica ma non confessionale. Questa visione suscitò resistenze, con Gemelli e Olgiati che rivendicavano il diritto della gerarchia ecclesiastica a garantire la dottrina del partito. Secondo Vecchio i rapporti tra PPI e gerarchia ecclesiastica avrebbero attraversato tre fasi: nel 1919 prevalse un atteggiamento di attendismo da parte della Santa Sede, che invitava a evitare eccessiva benevolenza o diffidenza verso il PPI; nel 1920, sotto la spinta del clerico-moderatismo, emersero pressioni per alleanze con blocchi di destra in funzione antisocialista; infine, nel 1922-1924, si consumò la frattura tra PPI, gerarchia ecclesiastica e parte del mondo cattolico, con l’abbandono di Sturzo e la spaccatura del partito.

Vecchio ha concluso riconoscendo nel PPI una significativa innovazione nel rapporto tra fede e politica. La presenza di destre filofasciste e clerico-moderate nel mondo cattolico rivelava un’importante corrente conservatrice interna, mentre la politica di Pio XI puntava a eliminare ogni mediazione tra Chiesa e Stato.

La prima sezione del pomeriggio è stata aperta da Renato Moro (Università Roma Tre) con un intervento dal titolo La crisi e la scomparsa del cattolicesimo politico negli anni del fascismo.

Moro, analizzando La nostra vocazione sociale di Giorgio La Pira (1944), ha evidenziato come l’autore non solo invitasse i cattolici all’impegno politico-sociale, ma si vedesse costretto a giustificare la legittimità di questo impegno attraverso riferimenti al Decalogo e alle prime comunità cristiane. Questa impostazione sottolinea che il ventennio fascista non rappresentò solo una crisi politica, ma alterò profondamente l’identità del cattolicesimo politico, confinando la religione fuori dalla politica e trasformando il popolarismo in un fenomeno percepito come pericoloso per la religione e la nazione. Il fascismo impose alla religione un ruolo nazionalizzato e apolitico, mentre la Chiesa, in risposta, spoliticizzò i cattolici, rafforzando il controllo ecclesiastico e orientando l’AC verso obiettivi esclusivamente religiosi.

Questa trasformazione fece dell’AC un’organizzazione religiosa strictu senso e, in alcune fasi, persino competitiva rispetto all’impegno politico sturziano, tanto da definirla un «antipartito» o un «partito della Chiesa». Parallelamente, l’accusa di modernismo politico rivolta al PPI per il suo compromesso con la modernità laica contribuì alla scomparsa di un autentico cattolicesimo politico. Il PPI non si ricostituì all’estero, e il «cattolicesimo nazionale» favorì il superamento della concezione stessa di identità partitica, delegando alla Chiesa la difesa dei diritti religiosi e al governo nazionale le decisioni politiche.

In questo contesto, la Chiesa divenne essa stessa una componente politica, cercando di influenzare il regime fascista e iniziando un processo di nazionalizzazione delle masse cattoliche, con l’obiettivo di «ridare Dio all’Italia e l’Italia a Dio», come affermato da Pio XI. Questa «guerra di posizione» si protrasse fino al 1943, puntando a cristianizzare il regime o a indirizzarlo verso modelli autoritari di ispirazione cattolica come in Austria, Spagna o Portogallo. Tale situazione, se da un lato portò alla scomparsa di un cattolicesimo politico autonomo, dall’altro politicizzò ulteriormente il religioso.

Moro ha concluso osservando che, sebbene De Gasperi criticasse l’immagine dell’AC come «custode del seme» della democrazia, durante il fascismo si posero le basi per una nuova fase politica. L’AC emerse come un potenziale organismo politico capace di rispondere ai problemi della società italiana, superando la protesta antistatuale, favorendo moderne forme di aggregazione e contribuendo alla definizione di una nuova identità nazionale.

È poi seguita la relazione La rinascita del cattolicesimo politico attorno alla Democrazia cristiana di Paolo Trionfini (Università di Parma).

Trionfini, pur sottolineando la necessità di ulteriori ricerche negli archivi vaticani (aperti solo dal marzo 2020 per il periodo di riferimento), ha centrato la sua analisi sulle figure e le aree che contribuirono alla nascita della Democrazia Cristiana (DC). Tra i protagonisti spiccano De Gasperi e il cardinale Montini (1897-1978), la cui azione, secondo Trionfini, merita una maggiore valorizzazione al punto da considerarlo un possibile «cofondatore» del partito. Montini fu cruciale nell’ottenere il necessario beneplacito vaticano per il progetto degasperiano, soprattutto in considerazione delle diverse ipotesi in campo.

Un aspetto chiave della relazione riguarda le indicazioni della Segreteria di Stato, che attraverso Domenico Tardini stabilì i criteri per un impegno politico «attivo» dei fedeli. In queste indicazioni si sottolineava che i cattolici dovessero agire come individui e non come organizzazioni ecclesiali e che i partiti in cui militavano dovessero offrire «sicure garanzie» nei confronti della religione, della Chiesa e dei suoi diritti. In questo senso, venne indicata come modello positivo l’esperienza del partito Zentrum in Germania, descritto come «né cattolico né confessionale», ma capace di difendere gli interessi della Chiesa e di declinarne la Dottrina. La Segreteria di Stato giudicò inoltre legittima l’azione di quei prelati che incoraggiassero l’adesione dei fedeli alla DC.

Diversi progetti alternativi furono invece respinti. Il Centro Politico Italiano di Carlo D’Agostino, che mirava a «cristianizzare lo Stato», fu giudicato inadeguato, così come furono rigettati i «cattolici comunisti», ritenuti privi di garanzie, e il Partito Democratico Costituzionale, considerato «poco equilibrato». La Santa Sede monitorò anche il movimento indipendentista siciliano, ma si limitò a un’osservazione senza offrire collaborazione.

Trionfini ha poi esaminato le radici programmatiche della DC, soffermandosi sulle Idee ricostruttive e ipotizzando un’influenza del gruppo milanese dei «guelfi», ridimensionando invece il ruolo del Codice di Camaldoli (1943), definito «più mitizzato che integrato» nel pensiero del partito. Tra gli influssi culturali, Trionfini ha menzionato anche il gruppo resistenziale cattolico bresciano legato a Il Ribelle.

Quanto alla costruzione del partito, De Gasperi avrebbe ricevuto già dal 1943 una sorta di «investitura» da diverse realtà cattoliche italiane. Le reti locali furono sviluppate attraverso un’azione di «scouting» da parte degli ex popolari, spesso affiancati dall’episcopato e dalle associazioni cattoliche. Tuttavia, queste collaborazioni non furono prive di tensioni generazionali.

Infine, Trionfini ha esplorato il rapporto tra DC, associazionismo ed episcopato, in particolare riguardo alla stampa, al referendum istituzionale e alle candidature. Questo rapporto fu spesso caratterizzato da incomprensioni, richiedendo un costante lavoro di mediazione da parte della Segreteria di Stato. Concludendo, Trionfini ha ridimensionato il ruolo di Luigi Gedda e dei Comitati Civici, contestando la narrativa che attribuisce loro un apporto spropositato al successo elettorale della DC.

A chiudere questa prima sezione del pomeriggio Paolo Acanfora (Università La Sapienza di Roma) sul tema Il consolidamento del partito e le alternative progettuali: identità e alleanze.

Acanfora, rifacendosi all’espressione di Guido Formigoni di una «duplice fase costituente» della Democrazia Cristiana (DC), ha individuato due momenti distinti nella storia del partito: il periodo antecedente e quello successivo alla nomina di De Gasperi a ministro degli Esteri nel 1944. Questo spartiacque, secondo Acanfora, segna un passaggio generazionale e politico, con l’ingresso nella DC della cosiddetta «seconda generazione» di leader, tra cui Giuseppe Dossetti (1913-1996) e Giulio Andreotti (1919-2013), che affiancarono e in parte sostituirono la leadership degli ex popolari. Un altro segno di evoluzione interna è rappresentato dalla formazione delle prime correnti politiche, che riflettevano diverse culture e orientamenti all’interno del partito. Acanfora ha anche evidenziato il ruolo fondamentale dell’associazionismo cattolico nel contribuire al radicamento della DC nelle masse e nei territori, nonché il rapporto «ambivalente» tra la DC e l’AC (con particolare rilevanza di FUCI e Movimento Laureati), con quest’ultima arrivata ad ipotizzare la costruzione di liste alternative a quelle democristiane.

Il concetto di «partito della nazione» è stato un altro punto centrale della riflessione. Acanfora ha spiegato come la «maggioranza degasperiana» abbia interpretato il partito non solo come strumento di mediazione degli interessi plurali del Paese, ma anche come rappresentazione dell’«anima» italiana, ispirandosi a un «paradigma neoguelfo» (De Gasperi stesso auspicava una «classe dirigente cattolica che finalmente guidasse una Nazione cattolica»). Questo progetto di sintesi nazionale passava attraverso una rivisitazione della storia risorgimentale, rivalutando il contributo dei cattolici, minimizzando lo scontro tra Stato e Chiesa e cercando un ecumenismo ante litteram con alcune correnti del liberalismo, del mazzinianesimo e dell’umanesimo riformista. Fondamentale in questa visione fu anche il tema della «pacificazione nazionale», mirata a superare le divisioni lasciate dal fascismo e dal referendum istituzionale.

Acanfora ha poi analizzato la «seconda fase costituente» dello Stato italiano, legata alla dimensione internazionale. Qui la DC sostenne che la realizzazione dell’interesse nazionale passasse necessariamente attraverso l’integrazione atlantica ed europea. L’adesione alla NATO nel 1949 e la promozione del progetto europeo furono interpretati come il completamento della costruzione dell’identità nazionale italiana.

In conclusione, Acanfora ha evidenziato come il punto di arrivo di queste posizioni sia rappresentato dal «neoatlantismo», ovvero il ruolo attivo dell’Italia nella «saldatura del fronte Mediterraneo col fronte Atlantico», a testimonianza del duplice impegno della DC sia sul piano nazionale sia su quello internazionale.

Durante la seconda sessione del pomeriggio, Cecilia Novelli (Università di Cagliari) ha presentato una relazione sul cattolicesimo politico al femminile nel periodo della Repubblica, evidenziando il ruolo del Movimento femminile democristiano. Fondato nel 1944, questo movimento fu attivamente coinvolto nella Consulta Nazionale (1944-1946), partecipando al dibattito sul suffragio universale, ed in particolare al tema dell’obbligatorietà e della sua connessione con la mobilitazione delle donne (altamente temuta a sinistra). Nel 1948, il movimento contribuì significativamente al successo elettorale della DC, garantendo circa 4 milioni di voti e l’elezione di 18 parlamentari. Negli anni Cinquanta, le democristiane promossero l’applicazione della parità costituzionale, mentre negli anni Sessanta la «terza generazione» rilanciò il dibattito sulla «questione femminile». Gli anni Settanta furono segnati da un crescente impegno etico e politico, ma anche da una crisi di orientamento rispetto ai mutamenti sociali, culminata nella battaglia contro divorzio e aborto. La crisi degli anni Ottanta portò al declino del movimento, che si dissolse nel 1993 con la DC. Novelli ha concluso riconoscendo il ruolo cruciale del movimento femminile nel promuovere riforme in diritto, istruzione e sanità.

Laura Ciglioni (Università La Sapienza di Roma) ha chiuso la giornata con un intervento sulla DC negli anni del centro-sinistra. Negli anni Sessanta, il partito si consolidò organizzativamente, rafforzandosi nel Meridione e tra i ceti medi, ma mantenendo una base elettorale ruralista. Le motivazioni principali del voto risiedevano nella difesa della Chiesa, nel contrasto al comunismo e nei successi governativi, mentre modernizzazione e benessere ebbero un peso minore. La classe dirigente si diversificò, includendo borghesi e funzionari statali, ma il partito affrontò una crisi identitaria dovuta a trasformazioni epocali, tra cui le nuove tecnologie e il Concilio Vaticano II. Figure come Aldo Moro tentarono di rinnovare il partito attraverso riforme e una visione progressista, realizzando interventi significativi sulle regioni e sul mercato europeo. Tuttavia, il clima di frammentazione interna e la critica all’identità cristiana della DC limitarono l’efficacia di questi sforzi, alimentando un senso di sfiducia nel progetto riformatore.

La seconda giornata di lavori ha visto intervenire Paolo Zanini (Università Statale di Milano) sul tema Pluralismo e alterità: al cattolicesimi politici? Secondo Zanini, l’identificazione tra cattolicesimo politico e DC e tra quest’ultima e il governo ha fortemente limitato gli spazi per altri cattolicesimi politici. L’unità politica dei cattolici nella DC, promossa da De Gasperi e adottata dalla Santa Sede dopo esitazioni iniziali, ridusse drasticamente la possibilità di formare altre realtà politiche esplicitamente cattoliche, orientando le energie delle varie anime cattoliche verso il condizionamento interno al partito piuttosto che verso alternative autonome.

Zanini ha incluso nel cattolicesimo politico extrademocristiano esperienze di impegno politico da parte di cattolici caratterizzati dalla loro appartenenza religiosa, escludendo invece movimenti privi di una chiara connotazione religiosa (come PNM, MSI o il Movimento di comunità di Olivetti). La definizione positiva di tali movimenti risulta più complessa, essendo limitata ai raggruppamenti nati da scissioni della DC e caratterizzati come espressioni di forza cristiana.

Zanini ha identificato quattro fasi principali nella storia del cattolicesimo politico repubblicano. La prima fase (1943-1948) è caratterizzata dal consolidamento del voto cattolico intorno alla DC e dal fallimento delle formazioni concorrenti, come il Partito della sinistra cristiana, il Partito cristiano sociale, il Movimento cristiano per la pace e il Partito nazionale cristiano. Le cause di questa crisi risiedono nei tentativi di dialogo con le sinistre marxiste e nella prevalenza dell’unità politica cattolica attorno alla DC.

La seconda fase (1948-metà anni Sessanta) vede un’identificazione più stretta tra mondo cattolico e DC, favorita dal collateralismo con organizzazioni come AC, ACLI, CISL e Coldiretti, e dalla scomunica dei comunisti, che estese la contrapposizione dal piano politico a quello religioso. Nonostante l’assenza di forze esterne significative, si registra la scissione dell’Unione siciliana cristiano sociale, bloccata dal contesto della Guerra Fredda e dal clima preconciliare.

La terza fase (1968-1977) segna l’inizio della crisi dell’unità politica cattolica, influenzata dal Concilio Vaticano II, dai fermenti del postconcilio e dalla secolarizzazione. Emergono esperienze come il Movimento politico dei lavoratori, i cattolici per il No al referendum sul divorzio, la Lega democratica e i Cristiani per il socialismo, accompagnate da un dibattito interno sulla rifondazione della DC e sulla creazione di alternative politiche.

La quarta fase (anni Ottanta-primi anni Novanta) registra un calo del voto cattolico, evidenziato dal referendum sull’aborto del 1981, ma anche un rinnovato interventismo politico episcopale, culminato nel convegno di Loreto (1985), che favorì il  passaggio di dirigenti dal cattolicesimo organizzato alla DC. Tuttavia, il legame tra mondo cattolico e DC si indebolì, soprattutto sui temi della politica internazionale e del rinnovamento politico, trovando un’ulteriore manifestazione nella nascita de La Rete di Leoluca Orlando. La crisi della DC si aggravò con la guerra del Golfo e la fine della minaccia sovietica, che rendono difficile il mantenimento della coesione sociale tradizionalmente garantita dal partito.

Zanini ha concluso che, sebbene il cattolicesimo politico repubblicano abbia trovato la sua massima espressione nella DC come partito-costellazione, vi furono tentativi alternativi, soprattutto nelle fasi 1943-1948 e 1968-1977, mai premiati dal consenso elettorale, che venne costantemente assorbito dalla DC. Tra le esperienze più significative emergono quelle siciliane, terra simbolica per il cattolicesimo politico, che evidenziano le ambiguità della DC come partito-Stato e partito-sistema.

Alla relazione di Zanini è poi seguita la relazione di Giovanni Mario Ceci (Università di Roma Tre) dal titolo Crisi, persistenza e resistenza: l’identità democristiana tra anni Settanta e Ottanta.

Ceci ha analizzato la crisi della DC tra il 1968 e il 1992 partendo dai rapporti della CIA del 1982 e 1984, che segnalavano il declino del partito. Pur riconoscendo l’intensità della crisi, Ceci ha sottolineato come i dati elettorali e il numero degli iscritti (con il massimo storico nel 1973 e una stabilità dal 1976) mostrino una capacità di resilienza. È quindi inappropriato considerare la crisi come preludio inevitabile della fine della DC, la quale è esplosa per ragioni sia esogene sia endogene, soprattutto legate a scelte politiche tra gli anni Ottanta e Novanta.

Ceci ha distinto diverse dimensioni della crisi: politica, economica, sociale, dell’ordine pubblico e culturale, concentrandosi sulla «crisi democristiana» in tre aspetti principali. La prima è la perdita di immaginazione politica, con il pentapartito percepito come una coabitazione forzata. La seconda è la crisi della centralità democristiana, sia nel primato elettorale che nella contesa del centro politico con PSI e PRI. Infine, la crisi di legittimità ha investito la DC in rapporto al mondo cattolico, segnato dalle critiche opposte proveniente dal cattolicesimo democratico e da Comunione e Liberazione.

Ceci ha analizzato quindi le risposte della DC alla crisi, sostenendo che sperimentazioni innovative l’apertura a sinistra con Zaccagnini e Moro non furono premiate. Anche la linea di De Mita, centrata su laicizzazione, riduzione dell’anticomunismo, riforme organizzative e istituzionali, non incontrò il favore degli elettori, come dimostrato dal calo del 7% nelle elezioni del 1983. Ceci ha concluso che ciò che premiò la DC fu la continuità, non le svolte: la sua forza risiedeva nella coesistenza di un’identità cattolica con un forte anticomunismo, che fungeva da collante per l’unità politica. Sul piano sociologico, Ceci ha evidenziato che la base democristiana fosse interclassista, centrata sui ceti medi e percepisse il PCI come il partito più distante,  elemento che consolidava l’identità di centrodestra della DC. Infine, Ceci rigetta l’idea che la secolarizzazione abbia determinato la crisi della DC: quest’ultima rimase il partito dei cattolici praticanti, subendo invece un declino durante il «ritorno al sacro» degli anni Ottanta.

La crisi della DC andrebbe quindi compresa nel contesto della fine della Guerra Fredda, che segnò una «secolarizzazione delle ideologie politiche», rendendo la DC il partito non tanto dell’Italia cattolica quanto della Guerra Fredda.

A succedere a Ceci è stato Guido Formigoni (IULM) con una relazione dal titolo La fine della Dc e la dispersione dei cattolicesimi politici.

Nella sua relazione, Formigoni ha avviato l’analisi dalla crisi della DC negli anni Settanta, caratterizzata da una «straordinaria tenuta» elettorale, nonostante la percezione di un indebolimento generalizzato degli elementi costitutivi del partito. Questo processo includeva il ridimensionamento del rapporto con il mondo cattolico, l’erosione del «cattolicesimo di tradizione», la nascita di recriminazioni regionali negli equilibri nazionali, il declino del legame con l’alta borghesia e la burocrazia, difficoltà nella gestione statale, la crisi del tradizionalismo comportamentale a fronte del soggettivismo massificato, la perdita di rilevanza della guerra fredda e la trasformazione del compromesso capitalismo-democrazia su scala globale.

Formigoni ha esaminato quindi la «coscienza della crisi» e i tentativi di risposta: i gruppi di rifondazione della DC promossi da Kessler e Bassetti, l’«ipotesi di rinnovamento» di Zaccagnini, il rilancio del rapporto con il mondo cattolico, il progetto Moro sulla «terza fase», l’iniziativa del «gruppo dei cento» ispirato al modello tedesco, il rinnovamento tentato da Piccoli con l’«assemblea degli esterni» e infine il progetto di De Mita, giudicato fragile. La «vicenda Cossiga» segna l’ultimo stadio della crisi, evidenziando pressioni esterne e limiti interni.

Nonostante tali iniziative, Formigoni ha concluso che le risposte furono inefficaci, perpetuando una «eternizzazione del provvisorio» e favorendo negli anni Ottanta il prevalere del «partito dell’immobilismo», poi travolto da fattori esogeni: la mutazione del PCI, l’ascesa delle Leghe e lo scandalo della corruzione. L’ultimo segmento della riflessione si concentra sul tentativo di Martinazzoli di salvare il cattolicesimo politico attraverso il PPI, che tuttavia non riuscì a realizzare una «discontinuità fondamentale» rispetto al modello centrista e mediatorio della DC, incapace di adattarsi ai mutamenti del sistema, tra cui la riforma elettorale e la frammentazione partitica dei cattolici culminata con scissioni come il CCD.

Questo processo segnò la fine del cattolicesimo politico come riferimento esplicito per formazioni politiche, frammentatosi irreversibilmente nei poli dal 1995.

A chiudere la mattinata Agostino Giovagnoli (Università Cattolica di Milano) su Le interpretazioni della Dc.

Giovagnoli ha analizzato la categoria di cattolicesimo politico e il rischio di una sua applicazione generalizzata, che porterebbe a una dissoluzione dell’oggetto storiografico. Attraverso una rassegna di interpretazioni, ha esaminato come il tema sia stato affrontato dal 1950, quando Chabod identificò nell’ingresso politico dei cattolici uno degli eventi più rilevanti della storia italiana del XX secolo. Le interpretazioni tradizionali, a partire da Fonzi, Candeloro e De Rosa, hanno visto nella DC il compimento del movimento cattolico, ma Pietro Scoppola ha messo in discussione questa lettura, ricollegando la DC non al movimento cattolico e all’intransigentismo, bensì al cattolicesimo liberale, al conciliatorismo e al progetto degasperiano di un’alternativa all’eredità fascista. Giovagnoli, riprendendo Scoppola, ha proposto un’interpretazione critica dell’unità politica dei cattolici, contestando la semplificazione di attribuirla esclusivamente alla leadership di De Gasperi e affermando che essa si sarebbe formata attorno all’istituzione ecclesiastica. L’autonomia dei cattolici, secondo Giovagnoli, si espresse non come separazione dalla gerarchia ecclesiastica, ma nella gestione delle scelte politiche particolari. Ha poi analizzato il ruolo della DC come «partito della nazione», dai tratti neoguelfi, promotore di un progetto pluralista per superare il fascismo, rifiutando l’idea di un semplice partito di mediazione. Successivamente, Giovagnoli ha esaminato posizioni storiografiche critiche, come quella di Claudio Pavone, che ha inteso ridimensionare l’importanza storica della DC, e quella di Giovanni Miccoli, che la definì partito della Chiesa e della restaurazione. Baget Bozzo, invece, adottò lo schema gelasiano per descrivere il rapporto tra Chiesa e DC.

Durante gli anni Ottanta e Novanta, la storiografia ha dato spazio alle  crescenti distanze tra varie componenti del mondo cattolico e la DC, segnando la costruzione di un «mito negativo» dell’unità politica cattolica in reazione alla deriva demitiana. Con la fine della DC, si è assistito al declino della storiografia cattolica incentrata sul partito e Giovagnoli ha concluso osservando che gli studi sulla DC sono diminuiti, complice un clima ostile ai partiti nella contemporaneità e la stessa disaffezione dei cattolici verso l’idea di una nuova DC.

Il pomeriggio ha infine visto confrontarsi sul tema della comparazione tra il cattolicesimo politico italiano e varie esperienze estere Alfonso Botti (Università di Modena e Reggio Emilia), Massimo De Giuseppe (IULM), Giorgio Vecchio (Università di Parma), Luca Lecis (Università di Cagliari) e Michele Marchi (Università di Bologna).

Dalle varie relazioni, concentratesi sulla vicenda spagnola (Botti), latinoamericana (De Giuseppe), tedesca (Vecchio), austriaca (Lecis) e francese (Marchi), è emerso il primato storico dell’area germanofona, la quale vide una presenza organizzata ed autonoma dei cattolici in politica sin dalla fine dell’Ottocento, mentre all’Italia con Sturzo prima e la DC poi spetterebbe il ruolo di modello da emulare (con particolare influenza in Spagna e America Latina).

Dalla comparazione è poi emerso come in tutti i Paesi presi in esame sia stato fondamentale l’apporto della gerarchia ecclesiastica nell’incoraggiare (come nella Spagna di fine Ottocento e inizio Novecento), dirigere (emblematica la figura del «prete-politico» in Austria) e in alcuni casi disperdere (si vedano le indicazioni dell’episcopato francese nel 1972) le iniziative politiche unitarie, nonché dell’importanza costante del rapporto con la Santa Sede, costantemente preoccupata che i cattolici evitassero strumentalizzazioni politiche e distorsioni della Dottrina (in questo i casi opposti delle condanna della «teologia della liberazione» e dell’Action Francaise sono risultati emblematici).

Da ultimo, in tutte le relazioni è emerso come il cattolicesimo politico sia fiorito laddove i partiti hanno evitato una confusione di responsabilità tra le proprie strutture e quelle ecclesiastiche tramite il principio di aconfessionalità ma sono stati in grado di mantenere un rapporto privilegiato col mondo e la cultura cattolica, come ben rappresentato dal modello vincente e duraturo del Zentrum prima e della CDU-CSU poi in Germania.

Francesco Cristellon