Giovedì 21 novembre 2024, presso l’aula “Elena Brambilla” dell’Università degli Studi di Milano, si è tenuta una giornata di studi promossa dal CISUECO (il Centro interuniversitario di Studi Ungheresi e sull’Europa Centro-Orientale) nell’ambito del Convegno internazionale “2004-2024: Vent’anni di dialogo Est-Ovest nell’UE. Nuove vie epistemologiche nelle scienze storiche, letterarie e linguistiche, nuove mappe geoculturali e cognitive delle scienze umane: analisi e conseguenze”.
I lavori si sono aperti con l’intervento della direttrice del CISUECO, la professoressa Beatrice Tottossy dell’Università degli Studi di Firenze, che ha evidenziato l’importanza dell’iniziativa, nell’ambito del Convegno internazionale, per «ripassare», ma anche «rivedere» i vent’anni del dialogo tra Est e Ovest.
Successivamente, il professor Francesco Guida dell’Università Roma Tre, presidente della sessione mattutina dei lavori, ha introdotto il primo intervento della giornata, dal titolo “Birobidzhan e la Regione Ebraica. Origini e evoluzione di una convivenza”, tenuto dai professori Giulia Lami e Alessandro Vitale dell’Università degli Studi di Milano, arricchito con materiale audiovisivo proiettato in seguito alle relazioni.
Il contributo è partito da un’analisi, a cura della professoressa Lami, della condizione economica, sociale e politica delle minoranze ebraiche nell’impero russo soprattutto a partire dalla seconda metà del XIX Secolo.
Nell’ultimo settantennio dell’epoca zarista, la convinzione dominante dipingeva gli ebrei come un elemento fondamentalmente negativo della società. I tentativi per limitare le loro attività «improduttive e parassitarie» furono diversi, ma il leitmotiv che guidò l’azione delle autorità imperiali fu la tendenza a renderli soggetti «utili» all’impero. Tuttavia, sebbene sotto Alessandro II (zar dal 1855 al 1881) si assistette ad un tentativo concreto per una pur minima integrazione, le riforme adottate non condussero a risultati apprezzabili.
Nel primo ventennio del Novecento, invece, e soprattutto in occasione dell’ottobre 1917, vi fu un sensibile avvicinamento tra ebrei (nell’impero russo, nel 1915 se ne contavano circa 5,5 milioni) e rivoluzionari bolscevichi, con i primi che vedevano la rivoluzione come un’occasione di emancipazione e i secondi che ritenevano fondamentale l’appoggio di una comunità estremamente colta e alfabetizzata quale era quella ebraica. Nonostante la presa del potere da parte dei bolscevichi, tuttavia, il problema della collocazione sociale di tali minoranze permase: in particolare, ciò che rendeva gli ebrei sgraditi agli occhi delle autorità rivoluzionarie era il loro passato da commercianti, che il inscriveva alla categoria, considerata nemica, dei borghesi.
Fu in questi anni che prese piede l’idea di un “trasferimento coatto” degli ebrei, con l’obiettivo di educarli ai principi del marxismo-leninismo e, ancora una volta, di trasformarli in soggetti utili al progresso della società comunista. La scelta di Birobidzhan è pertanto da collocare in questo contesto: fu in quell’area che, per la prima volta nel 1928, furono trasferite migliaia di famiglie ebree. La regione, situata nell’Estremo Oriente russo, sul confine con la Cina e il Giappone, era un’area inospitale, arretrata e nella quale le condizioni di vita rasentavano la miseria. Peraltro, una tale distanza dal centro politico russo non protesse le comunità ebraiche dalle persecuzioni staliniane degli anni Trenta, dalle accuse di collaborazionismo con i giapponesi e di trotzkismo negli anni Quaranta e da quelle di appoggio all’imperialismo americano nei primi anni della guerra fredda. Ad ogni modo, già prima della seconda guerra mondiale nella regione di Birobidzhan gli ebrei e le altre comunità già presenti sperimentarono un modello per certi versi unico – e sicuramente esemplare – di convivenza e di collaborazione: ciò è dimostrato dal rapido sorgere, nella città e nelle aree circostanti, di luoghi di culto, villaggi, ospedali e aziende di vario tipo.
Per questa ragione, il professor Vitale ha aperto il suo intervento parlando della vicenda di Birobidzhan come di una «storia di potenzialità sprecate» per una convivenza interetnica di popolazioni differenti. Il riferimento è, innanzitutto, alle purghe staliniane, durante le quali si verificarono episodi quali la tristemente celebre eliminazione fisica degli intellettuali e l’incendio di alcune biblioteche di libri in lingua yiddish. Del resto, il principale obiettivo del trasferimento nella regione era quello di estrarre gli ebrei dalla loro condizione “extraterritoriale” e renderli più facilmente individuabili e assimilabili al sovietismo, legandoli alla terra e allontanandoli dal centro politico.
Nonostante ciò e nonostante le difficoltà patite dagli ebrei durante i primi decenni della guerra fredda (a partire dagli anni Settanta si intensificò l’emigrazione dall’Unione Sovietica verso Israele), a seguito della dissoluzione dell’URSS si assistette ad un interessante fenomeno che, a partire dal 1992, vide il ritorno di molte famiglie di cultura ebraica nella regione di Birobidzhan. Le ragioni, secondo il Prof. Vitale (alla luce della sua esperienza “sul campo”, nell’area), sono diverse: innanzitutto vi è indubbiamente la nostalgia verso la tranquillità dell’area, che contrasta in maniera evidente con la situazione politica mediorientale, spesso turbolenta. Inoltre, è utile ricordare che gli anni di Eltsin, in Russia, coincisero con una sorta di “allentamento della presa” del potere centrale sulle regioni periferiche, il che favorì senza dubbio l’emergere di un rinnovato «patriottismo regionale civico», che tornò a favorire la cooperazione tra etnie diverse nella regione. Ciò che pare essere la vera forza di questa convivenza, ad ogni modo, è il “pacifico rigetto” dell’assimilazione: come dimostrano le iniziative culturali dell’area, infatti, ogni etnia, negli anni, ha mantenuto le proprie peculiarità, senza che vi fosse l’esigenza di uniformarsi alle altre, benché indubbiamente l’ebraismo sia sempre stato un punto di riferimento.
Ciò è stato in gran parte interrotto, spiega il professore, tra il 2005 e il 2010, anni nei quali la ri-centralizzazione putiniana ha progressivamente lenito l’autorità dei governatori delle regioni periferiche, sottomettendole nuovamente al potere centrale di Mosca. Pertanto, al giorno d’oggi, seppur Birobidzhan sia riuscita a conservare la sua tradizione cosmopolita, essa appare, effettivamente, soprattutto una “occasione sprecata”.
In seguito è stata affrontata la questione della narrazione dell’Olocausto nei manuali di storia di alcuni Paesi dell’Europa Orientale. Il primo intervento è stato quello della professoressa Tiziana D’Amico dell’Università di Venezia Ca’ Foscari, che ha scelto di presentare una prima parte della sua ricerca sui testi di storia nel contesto ceco, segnatamente in merito alla questione dell’Olocausto. Lo studio, nello specifico, si propone di analizzare il codice visivo, ossia la relazione tra l’apparato fotografico scelto dai manuali e il modo in cui esso viene utilizzato; la questione è di non poco conto, in quanto, soprattutto quando si affronta il tema dell’Olocausto, è consuetudine figurarsi una sorta di «canone» di immagini ad esso legato.
Il contributo ha preso le mosse dalla polemica che un manuale di storia del 2022 ha suscitato, in Repubblica Ceca, a causa della scelta, da parte dei curatori, di non usare immagini d’epoca, bensì immagini legate alle forme del ricordo dell’Olocausto. Questa vicenda è strettamente connessa al tema delle cosiddette Holocaust pictures, ossia quelle foto che hanno una precisa specificità nel riprodurre o, da un lato, lo sguardo nazista sull’Olocausto o, dall’altro, quello dei “liberatori” del 1945. La questione legata a queste foto, a differenza della gran parte delle immagini che compongono i manuali scolastici, è che – ha affermato la docente – al momento dello scatto «non c’erano direttive»: a differenza delle foto di provenienza nazista, in genere scattate con l’obiettivo di argomentare e giustificare determinate azioni, per la gran parte delle altre foto spesso è ignota la provenienza e il movente alla base dello scatto. In sostanza, nel caso delle foto dell’Olocausto le immagini non sono state prodotte e conservate nell’atto con cui, invece, vengono conservate generalmente le fotografie dei manuali scolastici di storia, ossia l’atto del testimoniare.
Con il supporto di materiale visivo, il contributo della professoressa D’Amico è proseguito analizzando il contesto ceco, nel quale il primo manuale di storia che ha presentato una Holocaust picture è datato 1963: in questo caso, la foto di una prigione in cui erano rinchiusi criminali politici e ribelli sembra non tanto stabilire un dato storico, bensì più che altro una manifestazione di un qualcosa che «diventa simbolo», ma si tratta di una “simbolicità” che «trascende», in quanto non c’è modo di risalire all’origine delle foto. Relativamente a ciò, un posto importante nel contesto ceco lo ha spesso avuto Terezín e la questione della “piccola fortezza”.
Tra il 2012 e il 2015, peraltro, la presenza di Terezín nell’ambito della narrazione e dell’elaborazione dell’Olocausto ha assunto ulteriore importanza, per due motivi: innanzitutto perché vi vengono offerti corsi formativi per docenti di storia; in secondo luogo perché si è assistito ad una ulteriore evoluzione nel racconto dell’Olocausto. In particolare, se fino a quel momento Terezín era associata all’immagine della “piccola fortezza”, oggi vi è una maggiore enfasi sulle sorti dei bambini. Tuttavia, anche in questo caso, ha precisato la professoressa, il problema dell’origine delle immagini permane.
A seguito dell’intervento della professoressa D’Amico, ha preso la parola il professor Alessandro Farsetti dell’Università di Venezia Ca’ Foscari, che ha affrontato il tema della rappresentazione dell’Olocausto nei manuali di storia ucraini. Anche in questo caso si tratta di una ricerca in corso, della quale il docente ha esposto i primi risultati.
Il caso dell’Ucraina ha la sua peculiarità nel fatto che, ancora nei primi anni Novanta, a seguito della recente indipendenza del Paese, non erano presenti veri e propri manuali di storia, ma più che altro libri di educazione civica. I primi manuali di storia sorti in quel decennio, ad ogni modo, seguivano lo schema narrativo della storia dell’Ucraina a partire dalla Rus’ di Kiyv e proseguivano secondo una linea “classica”, con il contributo degli emigrati ucraini in Nord America, che negli anni Settanta avevano elaborato una tradizione storiografica che poneva al centro del discorso l’Holodomor, di cui gli ucraini furono vittime.
A seguito della rivoluzione arancione del 2004 venne invece attuato un percorso di “smarcamento” dalla tradizione russa e, contestualmente, un processo di avvicinamento a quella europea, che fondava la propria identità principalmente sulla comprensione dell’Olocausto. Tuttavia, era ancora forte il retaggio sovietico, per il quale l’Olocausto non era tanto un’esperienza di memoria universale, quanto un «progetto etno-nazionale ebraico», che in Ucraina entrava in competizione con la memoria dell’Holodomor. Pertanto, la presenza del paradigma degli ucraini vittime dell’Holodomor rese per molto tempo complicato l’ingresso dell’Olocausto nel contesto nazionale.
Quanto ai manuali scolastici, in Ucraina la tendenza è sempre stata quella di separare la storia nazionale da quella mondiale: i manuali di quest’ultima, però, hanno spesso oscurato gli “eventi ucraini” nell’ambito dell’Olocausto, e neanche il “nuovo corso” intrapreso dal ministero dell’Istruzione tra il 2017-2018 sembra aver sanato in modo esauriente questa lacuna. Non a caso, dai primi anni Duemila il simbolo dell’Olocausto, nei manuali, è sempre stato il massacro di Babij Jar del 1941, che viene comunque ricordato come un massacro sì di ebrei, ma anche di altre comunità etniche. Inoltre, l’Olocausto viene comunque trattato come un fenomeno esclusivamente ad opera dei tedeschi, escludendo dalla narrazione i collaborazionisti ucraini di estrema destra, tema che resta probabilmente la questione aperta più difficile da trattare, soprattutto in un presente in cui agli ucraini è richiesta la massima unità di fronte alle ostilità della guerra.
La sessione pomeridiana, presieduta dalla professoressa Giulia Lami, si è aperta con la relazione di Alessandro Zuliani, docente dell’Università degli Studi di Udine, il quale ha introdotto la figura di Maria Pilchin, poetessa moldava la cui opera può essere un’interessante chiave di lettura del complesso contesto romeno-moldavo-russo.
La prima poesia presa in esame, dal titolo La donna da amare, è emblematica di una situazione confusa e fragile, sul lato identitario, per un Paese come la Moldavia: con il verso «sono russa a Bucarest e romena a Mosca», la poetessa evidenzia in maniera chiara la posizione sempre intermedia, mai definita, tipica della gran parte delle etnie presenti in Europa Orientale, spesso in difficoltà ad indentificarsi con un territorio e con una nazionalità specifici.
Successivamente è stato analizzato un componimento dal titolo La morte è rimandata, ambientato sul ponte di Crimea, che riflette un momento di crisi dell’autrice, che contempla pensieri suicidi, fino a quando una mendicante (definita «meravigliosa») la tira per la maglia rimandandone, appunto, la morte. In questo caso, a catturare l’attenzione è, in particolare, l’immagine del ponte, visto innanzitutto come luogo di transizione tra la vita e la morte, ma anche, nello specifico caso moldavo, come simbolo della continua tensione tra Russia ed Europa. Infine, il momento suicida interrotto da una figura femminile – un riferimento al poeta francese Guillaume Apollinaire – appare come una sorta di apertura verso ovest.
In seguito è stata esaminata la poesia Il fazzoletto era la cravatta rossa, una potente riflessione sulla memoria post-sovietica, espressa da Maria Pilchin evocando potenti immagini. La scena narrata è ambientata in un museo, dove l’autrice si imbatte in un filmato nel quale il tradizionale fazzoletto rosso (che rimanda ad un tipico ballo folkloristico romeno) è utilizzato come cravatta dei pionieri, e quindi come simbolo dell’indottrinamento sovietico. Il componimento sembra dunque esprimere la complessità dell’eredità sovietica, non tanto attraverso un’accusa diretta, ma elaborando i ricordi del passato.
L’intervento si è infine concluso con la lettura della poesia E-mail per Sasa Puskin, nella quale l’autrice costruisce un dialogo col celebre poeta russo, che peraltro visse alcuni anni in Bessarabia, regione della quale l’autrice, nel componimento, riconosce la condizione periferica. Attraverso un approccio ironico, Maria Pilchin esprime la volontà di riscatto culturale dell’area, in una tensione tra orgoglio locale e “subordinazione alla cultura russa” che in parte contraddistingue l’identità bessarabena. Sembra, in ultima analisi, un tentativo di «rinegoziare i rapporti centro-periferia», come ha spiegato il professore.
In seguito la parola è stata data al professor Francesco Guida, dell’università degli Studi Roma Tre, che si è occupato della sovrapposizione tra i fenomeni rivoluzionari comunisti e la presenza degli ebrei al loro interno, e in particolare della figura di Ana Rabinsohn Pauker. La donna, nata nel 1893, si occupò di politica sin da giovane, a Bucarest, dove entrò in contatto con idee socialiste e, in generale, con tutti quei “nuovi” temi propri del dibattito politico del tempo. Nel 1915 entrò nel Partito Social Democratico dei Lavoratori romeno e fu sin da subito una convinta sostenitrice del Comintern.
Il suo impegno politico crebbe negli anni, tanto da convincerla a restare per molto tempo lontana dalla famiglia e dai figli, ma anche procurandole alcune condanne. Dopo periodi di soggiorno in URSS e in Francia, rientrò in Romania nel 1935, dove fu arrestata e processata. Dal 1941 al 1944 tornò in Unione Sovietica, dove contribuì alla propaganda comunista, riuscendo ad affiancare diverse squadre romene all’Armata Rossa. Nel 1944, al suo rientro in Romania, riuscì a favorire la presa del potere da parte dei comunisti, benché il suo rapporto con i dirigenti del partito non fu mai lineare e privo di screzi, soprattutto in merito alla collettivizzazione delle campagne, misura che Pauker non appoggiava.
In seguito alla seconda guerra mondiale fu posta al comando del ministero degli Esteri romeno (fu la prima donna al mondo a ricoprire un tale incarico), consentendole di consolidare la già preminente posizione che aveva all’interno del Partito. Ana Rabinsohn Pauker morì nel 1960, al termine di una vita dedicata all’ideologia che aveva sposato sin da adolescente.
Dopo aver fissato le principali tappe biografiche della donna, il professor Guida ha affrontato il tema del rapporto tra ebraismo e rivoluzione. Nel caso di Pauker, ha spiegato, l’identità ebraica non fu particolarmente evidente: ella si dichiarò atea già negli anni Dieci del Novecento, motivo per il quale – in aggiunta alle sue scelte politiche – entrò in contrasto con il padre. Tuttavia, quanto al rapporto con quest’ultimo, è da segnalare come Ana Rabinsohn Pauker ne favorì la volontà di trasferirsi in Israele – facendolo viaggiare sotto falso nome, nel 1947 – e lo aiutò finanziariamente fino alla morte, verificatasi nel 1951.
Tale questione si inserisce nel più ampio tema del rapporto tra le comunità ebraiche (che, a seguito del secondo conflitto mondiale, emigrarono in massa verso la Romania) e il governo comunista di Bucarest, che mantenne sempre un atteggiamento ondivago nei confronti del neonato Stato ebraico. Inoltre, l’atteggiamento accomodante di Pauker nei confronti del fratello (un convinto sionista che si occupava di spionaggio per lo Stato israeliano), che si mosse con una certa libertà da Israele alla Romania negli anni Quaranta, le procurò un incarceramento, dal quale uscì solo a seguito della morte di Iosif Stalin nel 1953.
Alla luce di tutto quanto analizzato, quindi, il professore ha tentato di esaminare il tema dell’identità ebraica in Pauker, la quale ha sempre lottato per gli ideali rivoluzionari (anche negli ultimi anni dello stalinismo, quando la sua stessa incolumità era in pericolo) e si è sempre dichiarata atea. Una tesi che pare soddisfacente è quella secondo cui l’intensificarsi dell’antisemitismo ha probabilmente fatto sì che Pauker, col tempo, si riavvicinasse alle sue origini culturali e si rendesse conto che l’emigrazione, soprattutto verso Israele, fosse la più sicura via di fuga per gli ebrei, ma indubbiamente le posizioni spesso volubili assunte dalla donna lasciano spazio a differenti interpretazioni.
In seguito è stato presentato, sempre dal professor Guida, il volume Italia e Ungheria tra una rivoluzione e l’altra. Storia, letteratura, cultura, mondo delle idee (1956-1989), edito Morlacchi e pubblicato nel 2023, una raccolta di saggi che si suddivide in quattro sezioni: la prima dedicata alla rivoluzione ungherese del 1956; la seconda che affronta i temi della memoria e della cultura legati alle rivoluzioni; la terza che affronta i cosiddetti «incroci interdisciplinari e, infine, la quarta, relativa al crollo dei regimi comunisti.
Al termine della presentazione ha preso la parola il professor Gianluca Volpi dell’Università degli Studi di Udine, che ha affrontato il tema dell’evoluzione del dibattito sulla Shoah in Ungheria, in particolare negli anni tra il 1989 e il 2024, attraverso l’analisi di Zsidókról, un’opera del giornalista, sociologo e scrittore ungherese György Konrád. L’autore, nato nel 1933 e morto nel 2019, fu una figura fondamentale in questo senso, in quanto nel panorama ungherese fu la sociologia, più che la storia, la disciplina che maggiormente si occupò della questione fino alla caduta del muro di Berlino.
Secondo Konrád, a seguito della Shoah si profilarono tre distinti scenari nel rapporto tra ebrei e Ungheria: l’assimilazione, la convivenza o l’abbandono. Quanto alle prime due, a parere dell’autore la Shoah ne aveva già evidenziato il fallimento, ma per far sì che non si ricorresse all’abbandono (che di fatto avrebbe corrisposto ad una resa di fronte all’antisemitismo) esse rimanevano ad ogni modo le opzioni migliori, per il successo delle quali era necessario che ungheresi ed ebrei riconoscessero la reciproca diversità.
L’analisi storica di Konrád parte da un evento dell’aprile 1882, quando, in seguito alla sparizione di una fanciulla cristiana, la comunità ebraica del luogo fu accusata di omicidio rituale: questo, secondo l’autore, sarebbe dovuto essere il campanello d’allarme per le istituzioni che auspicavano l’assimilazione degli ebrei nella società ungherese, un chiaro segnale dell’ormai diffuso antisemitismo nel Paese. Tale avvenimento, inoltre, evidenzia – secondo Konrád – l’erroneità del paradigma “prima/dopo il Trattato del Trianon”, secondo il quale l’antisemitismo in Ungheria sarebbe cresciuto in seguito alla sconfitta nella prima guerra mondiale; al contrario, sembrerebbe esserci una certa continuità, che peraltro sottolinea quelle che furono le responsabilità della società ungherese a tutti i livelli.
Sin dai primi anni Dieci del Duemila, la questione si intrecciò peraltro con le vicende politiche ungheresi, che videro l’elezione di Viktor Orbán a primo ministro del Paese nel maggio 2010, ma soprattutto portarono il partito conservatore e marcatamente antisemita Jobbik al terzo posto con circa il 14% dei consensi. Fu proprio il confronto con tale partito a conferire a Orbán un aspetto più moderato, che egli seppe sfruttare mantenendosi maggiormente (seppur non completamente) neutrale rispetto al mondo accademico, all’interno del quale riuscì dunque a formarsi una generazione di storici più indipendenti dai condizionamenti politici del passato.
Ciò favorì un’importante evoluzione dell’accademia ungherese, la quale riallacciò i contatti con le più prestigiose università europee e imboccò delle linee di ricerca in passato ostacolate – se non addirittura vietate. Inoltre, diversi temi tornarono alla ribalta. In particolare, l’evoluzione del pensiero politico in Ungheria dal primo dopoguerra alle leggi razziali, l’analisi sul percorso di radiazione degli ebrei dalla vita civile, la Shoah affrontata dal punto di vista delle minoranze ungheresi fuori dai confini dell’Ungheria “del Trianon”, così come la collaborazione dell’esercito regolare ungherese con la Wehrmacht. In generale, comunque, alcune tematiche meriterebbero un’ulteriore analisi, in quanto in Ungheria permane una sorta di retaggio culturale che vede il Paese come “perpetua vittima” – prima del regime nazista, poi di quello comunista –, il che rende spesso difficile l’elaborazione di determinate fasi del proprio passato.
Infine, l’ultimo contributo presentato alla giornata di studi è stato quello della professoressa Cinzia Franchi dell’Università degli Studi di Padova, che, attraverso l’analisi del libro Gli atti di mia madre di András Forgách, si è occupata del rapporto tra diplomazia e spionaggio e tra comunismo e sionismo.
Anche in questo caso, la premessa necessaria che la professoressa ha fatto è di carattere storico-politico ed è relativa all’atteggiamento sempre ondivago di molti Paesi dell’Europa Orientale – e in questo specifico caso dell’Ungheria – nei confronti dello Stato d’Israele e del sionismo. In particolare, i rapporti tra Budapest e Tel Aviv, dopo un iniziale ventennio di stabilità (sino alla guerra dei Sei giorni del 1967), hanno conosciuto un sensibile peggioramento per diversi anni, prima di risollevarsi nella prima metà degli anni Ottanta, quando l’Ungheria, pur nell’ambito del Patto di Varsavia, tentò una prima moderata apertura ad Occidente.
L’opera analizzata si colloca in questo contesto in quanto nel 2013, sfruttando le possibilità offerte da una legge che consente ai cittadini ungheresi di accedere ai file dei servizi segreti raccolti negli anni del comunismo, András Forgách scoprì che la madre vi fu per molto tempo impiegata. Ciò che impegna l’autore è la ricerca di quelle che possono essere state, al tempo, le motivazioni alla base della scelta di sua madre. La prima risposta che Forgách riesce a darsi è di carattere economico, dal momento che il padre necessitava di cure costose e le finanze della famiglia non erano in grado di sostenerle; successivamente, però, il discorso si espande anche alla sfera personale, ideologica e culturale: una possibile spiegazione è il bisogno di trovare un senso di appartenenza a qualcosa e l’incrollabile fiducia nello stalinismo che caratterizzava i genitori dell’autore, ma anche la convinzione (o, forse, l’illusione) di avere un ruolo di particolare utilità per il proprio Paese.
Tra le diverse scoperte, tuttavia, quella che turba maggiormente l’autore è il fatto che sua madre aveva ingannato lui stesso e i suoi amici (critici e dissidenti verso il regime), quando consentì ai servizi segreti di spiarli. Inoltre, l’origine ebraica della famiglia consente alla madre di Forgách di viaggiare più volte verso Israele e, alla sua prima “missione” per i servizi segreti ungheresi, scoprirà l’autore, aveva tentato di proporre il figlio – ancora in età preadolescenziale – alle autorità come potenziale risorsa nell’ambito dello spionaggio.
In conclusione, benché le risposte (ma anche le domande) possano essere plurime e di difficile interpretazione, la storia di Forgách è un interessante caso studio rispetto ad un sistema, quello dello spionaggio negli Stati satelliti di Mosca nella seconda metà del Novecento, meritevole di particolare attenzione e approfondimento, poiché si lega a dinamiche e tematiche assolutamente attuali.
A conclusione, i saluti della presidentessa dei lavori, la professoressa Giulia Lami, hanno accompagnato al termine una giornata di interventi, discussioni, spunti di riflessione di grande interesse, soprattutto perché rivolti ad un’area geografica nella quale gli studi storici e le discipline umanistiche e sociali hanno conosciuto, negli ultimi decenni, un importante processo di crescita e sviluppo e che può offrire un decisivo contributo alla formazione e al rafforzamento di un’identità europea fondata sul multiculturalismo, il ricordo e la tolleranza nei confronti dell’altro.
Mattia Innaurato