“Le caricature letterarie sull’aspetto rozzo e il comportamento grossolano dei villani […] difficilmente possono essere considerate soltanto come frivole note di colore, o legate a inveterati stereotipi con scarsi legami con la realtà, in quanto erano basate su impressioni reali che gli autori e il pubblico dei testi degli ultimi secoli del medioevo avevano dei campagnoli, le quali, per di più, giocavano un ruolo decisivo […] nella determinazione dei minori diritti civili e politici di cui questi ultimi godevano rispetto ai cives“
In queste righe Filippo Ribani, attualmente ricercatore presso l’Università di Bologna, riassume alcuni degli elementi essenziali della sua monografia sul rapporto fra contadini e cittadini nel basso medioevo italiano, opera che va ad integrare – segnandone un significativo avanzamento – la sua attività di studio su questa tematica, avviata con il suo dottorato di ricerca presso la medesima università e corroborata successivamente da diversi articoli pubblicati nel recente passato.
Ribani ha sviluppato questo studio a partire dall’analisi di un corpus di fonti manoscritte inedite davvero rilevante, in termini quantitativi, costituito da documenti giuridici e statuari di diversi comuni del centro e nord Italia (reperiti principalmente negli Archivi di Stato di Bologna, Mantova, Reggio Emilia e Siena).
L’obiettivo dell’autore è quello di fornire al lettore una visione ampia su una tematica che da decenni costituisce un filone di studi di rilievo, ovvero quello attorno allo stereotipo del contadino basso medioevale rozzo, ignorante, infido e ladro, su cui in precedenza si sono già mossi storici di primissimo piano come Huizinga e Le Goff. Il merito di Ribani, tuttavia, è quello di non soffermarsi unicamente sulle fonti letterarie, da sempre principale oggetto di indagine, ma avviare un percorso di analisi in cui a queste ne vengono affiancate delle altre di carattere prevalentemente giuridico, ma non solo (se si considera che, oltre alle sentenze processuali, Ribani lavora anche su statuti cittadini e corrispondenze private).
Questa duplice prospettiva ha un obiettivo ben preciso: verificare, cioè, se esista effettivamente un legame fra lo stereotipo letterario basso-medievale e moderno del contadino falso e villano e la realtà dei rapporti fra contado e cittadini.
Ribani struttura la sua monografia organizzando l’indagine sulla base di tre tematiche fondamentali, ovvero lo stereotipo del villano ladro, un approfondimento sulla diffusione della mezzadria ed infine lo stereotipo del contadino rozzo, volgare ed aggressivo.
Nel primo capitolo, quello incentrato sui “villani ladri”, l’immagine del contadino sempre pronto a sottrarre al povero cittadino i suoi beni (fossero frutti degli alberi, come legna o animali al pascolo) viene affiancata ad una ricca serie di fonti di carattere giuridico che delineano una situazione di conflittualità reale e sempre più accesa fra contado e cittadini.
Nell’ambito di un ceto cittadino che cercava di investire le proprie risorse economiche nelle campagne, determinando anche una profonda trasformazione dei rapporti di proprietà e di lavoro, i “furti” dei contadini si facevano sempre più frequenti. Tuttavia, attraverso l’analisi delle fonti giuridiche compiuta da Ribani, emerge una situazione ben più complessa e strutturale.
L’entità stessa dei furti (carri di legna, ettari di raccolto, decine di animali da pascolo) rivelano come la questione sottesa a questi fenomeni fosse il non riconoscimento da parte dei contadini dei nuovi rapporti di proprietà e di lavoro che l’avanzata dei cittadini stava determinando.
Ciò porta Ribani ad approfondire proprio la conflittualità legata ai nuovi rapporti lavorativi, affrontando nel dettaglio il contratto agrario della mezzadria, una tipologia di contratto che si diffuse sempre più nelle aree oggetto di ricerca durante il basso medioevo, caratterizzandosi spesso per la presenza dei cittadini nella veste di proprietari.
La gestione delle risorse agricole nella mezzadria sembra aver messo in chiara difficoltà il ceto contadino il quale, già gravato da imposte e gabelle comunali, tendeva pertanto a non voler riconoscere nei fatti la validità di accordi che appaiono iniqui ed oppressivi.
A questo si aggiungeva il comportamento delle istituzioni comunali che intervenivano agevolando la posizione dei cittadini nel momento in cui volevano in qualche modo contestare l’operato dei contadini nella campagna.
La possibilità, per cause di piccoli importi in molti comuni fin dalla fine del ’200, che l’accusatore potesse non presentare testimoni ma limitarsi ad un semplice giuramento, rendeva da un lato queste cause gestibili in modo molto snello, dall’altro però metteva il contadino (in genere l’accusato di furto) in una posizione di inferiorità nella quale era per lui quasi impossibile riuscire a difendersi.
Interessante e molto utile la scelta dell’autore di supportare questa parte con schede quantitative riepilogative dei dati analizzati (ad es. p. 65 tab. 2, per l’area bolognese) che bene evidenziano come la gran parte delle accuse fosse relativa a importi inferiori alle 20 lire (il che consentiva il solo giuramento per l’accusatore) e come di queste una buona parte si risolvesse con la condanna dell’accusato.
Anche l’analisi degli statuti testimonia un medesimo squilibrio in favore dei proprietari abitanti nel comune, là dove si stabiliva, fra ’300 e ’400, financo quante arature il lavoratore dovesse effettuare sulla porzione di proprietà che spettava al padrone. L’obbligo di effettuare un numero congruo di arature (in genere quattro) e addirittura di effettuarle prima di dedicarsi alla propria porzione di proprietà, rappresenta il volto “reale” dello stereotipo del contadino pigro, sempre pronto a scansare i propri doveri, che nella realtà si risolve in un rapporto lavorativo in cui è sempre in una posizione di netto svantaggio.
L’ultimo capitolo del libro ha un titolo estremamente esplicativo: «lamentele contadine e insulti cittadini» rappresenta l’ultimo ambito in cui Ribani ricerca un parallelismo fra letteratura e realtà.
Qui l’autore si concentra soprattutto sullo stereotipo del contadino rozzo e volgare, che si rivela essere il volto letterario della avversione del ceto cittadino verso quei contadini che decidevano di divenire “civili” (e quindi richiedevano di entrare a far parte del ceto cittadino), o perché arricchitisi grazie alla propria attività o perché desiderosi di sottrarsi alla vita dei campi vessata proprio dalle istituzioni cittadine.
L’evidente percezione della minaccia rappresentata da questi parvenu è talmente forte da spingere alcuni testi a presentarli come una vera e propria calamità per la stabilità della società cittadina. E ancora una volta emerge dalla ricerca di Ribani come non si tratti di un bias verso coloro che dalla campagna volevano recarsi in città presente solo nella produzione letteraria. Gli statuti di fine ’300 e inizio ’400 di alcuni comuni analizzati dall’autore rivelano che a valle dello stereotipo c’era infatti (ad esempio) il voler punire in maniera più severa i reati violenti commessi dai rustici ai danni dei cittadini, facendo della condizione di contadino una “situazione” sempre più giuridicamente svantaggiosa e subordinata.
È infine interessante riportare un ultimo elemento ben sottolineato nella parte conclusiva della sua ricerca. Gli stereotipi, che emergono sempre più prepotenti a livello letterario ed evidenziano questa trasformazione dell’immaginario collettivo che si fa man mano più ostile verso il contado, tendevano ad influenzare i contadini stessi, che non solo li subivano, ma finivano con l’apprenderli e farli propri. Oltre alle testimonianze di numerose aggressioni (verbali e non) verso i contadini che migrano nelle aree urbane, infatti, è lo stesso ceto contadino che finisce con l’adeguarsi alla terminologia della classe dominante.
Ci sembra utile fare due osservazioni in merito a possibili sviluppi ulteriori degli ambiti di ricerca di questa monografia.
Una prima considerazione riguarda l’ambito geografico della ricerca. Sebbene il lavoro dell’autore appaia importante per mole, resta ancora un grande margine di approfondimento in particolar modo se si pensa che lo studio di Ribani si è incentrato soprattutto sui comuni dell’Italia centro settentrionale. Potrebbe essere quindi interessante estendere lo sguardo anche al meridione della penisola, dove nel medesimo periodo si stava sviluppando il Regno (con le dinastie sveve, angioine e aragonesi), caratterizzato da istituzioni sicuramente ben distinte dal resto d’Italia.
La seconda considerazione è invece frutto di alcune riflessioni che Ribani stesso accenna nella parte conclusiva del suo studio. L’autore nota infatti come, seppure emergano chiare tensioni a tratti anche violente fra contado e cittadini, queste non sfociarono mai in aperte ribellioni, contrariamente a quanto accadde nel medesimo periodo in altre regioni europee (Fiandre; Ile de France; Inghilterra; Catalogna; fino a lambire l’Italia con la rivolta dei Tuchini in Piemonte). Potrebbe essere significativo quindi allargare l’analisi a queste vicende per comprendere analogie ma soprattutto differenze, a livello sociale e istituzionale, che potrebbero aver determinato il diverso esito delle tensioni fra contado e città, bene illustrate da questa ricerca.
In conclusione, questa monografia si presenta come un’indagine che pur inserendosi all’interno di un dibattito storiografico già piuttosto ricco, riesce comunque a restituire un punto di vista di interesse, non solo per l’importante attività svolta dall’autore sulle fonti inedite che rappresentano il cuore di questo studio, ma soprattutto perché permette di vedere la relazione tra stereotipi letterari e fonti giuridiche e statutarie, in cui i primi troverebbero effettivamente riscontro.
Ciò che Ribani sembra quindi restituire è una sorta di dialogo dove l’immaginario collettivo delle élite si nutre degli effettivi contrasti sociali fra contado e città per poi rielaborarli, confermando e amplificando la visione che dei contadini avevano i ceti dominanti, fino a costruire stereotipi culturali che finiranno col giungere alle soglie età contemporanea.
Aldo Riggi