Tra 23 e 28 maggio 2023, all’interno delle attività formative del Percorso di Eccellenza e grazie ad un accordo tra gli organizzatori e il Dipartimento di Studi Storici, abbiamo partecipato al Festival internazionale èStoria di Gorizia. La XIX edizione del Festival si è sviluppata intorno al tema Donne: per un’intera settimana la città di Gorizia è stata animata da dibattiti, presentazioni di libri, proiezioni di film, mostre e testimonianze sul tema, tutti condotti attraverso uno spiccato approccio multidisciplinare. Tra gli ospiti anche Beatrice Del Bo, Marina Benedetti e Marco Cuzzi, docenti del nostro Dipartimento.
Ciascuno, in base ai propri interessi di studio e ricerca, ha partecipato a diversi incontri: di alcuni si cerca di proporre un resoconto in questa cronaca, con la speranza di far assaporare, a chi leggerà, almeno una piccola parte del fascino e della ricchezza del Festival.
Si parte da una riflessione, guidata da Beatrice Del Bo e Laura Casella, sulla condizione sociale delle donne tra Medioevo ed età moderna, prendendo come spunto le fonti iconografiche e portando anche una riflessione sulle formule linguistiche. A seguire ci si sofferma, con la lectio di Miriam Davide, sul ruolo femminile in un’area geografica e politica ben delimitata, vale a dire il Patriarcato di Aquileia nel Tardo Medioevo. Si passa ad un interessante dialogo tra Marina Benedetti, Marina Montesano e Adriana Valerio intorno al tema, solo da poco organicamente esplorato, dell’eresia femminile. Con Anna Bellavitis, Nadia Maria Filippini e Alessandra Pescarolo si ha, d’altra parte, l’occasione di riflettere sul lavoro trentennale della Società Italiana delle Storiche, associazione che promuove gli studi di storia delle donne e di genere. Socie della SIS sono anche Silvia Salvatici ed Elisabetta Vezzosi, che tracciano alcune linee guida sul percorso del femminismo in Italia. Con il confronto tra Enrico Miletto e Stefano Bizzi il focus passa sul confine orientale d’Italia nel Novecento, ingrandendo la lente sull’esperienza di vita di due donne, Maria Pasquinelli e Maria Bernetic. Susan Stryker e Valeria Palumbo sono protagoniste di una riflessione sulla storia transgender, che mira alla decostruzione della rigida divisione tra genere femminile e maschile. A concludere, sempre Palumbo, in dialogo con Marco Cuzzi, ripercorre con l’utilizzo delle fonti giornalistiche e televisive la storia di Franca Viola, che nel 1965 rifiutò il matrimonio riparatore.
Beatrice Del Bo e Laura Casella: Il posto delle donne dal Medioevo all’età moderna
Demolire le “costruzioni retoriche e demonizzanti” che le fonti scritte e iconografiche hanno a lungo attribuito alle donne è stato l’intento di Beatrice del Bo – professoressa di Storia medievale presso l’Università di Milano – e di Laura Casella, docente di Storia moderna presso l’Università di Udine. L’incontro, in collaborazione con il Dipartimento di Studi Storici dei due Atenei, è stato introdotto da una domanda provocatoria della professoressa Del Bo, indirizzata a smascherare le aspettative e i pregiudizi insiti nei termini abitualmente riferiti alle donne, oggi come ieri: “La donna medievale deve ubbidire, se moglie, o accudire, se madre” – spiega Del Bo – “In ossequio ad un sessismo le cui radici sono da rintracciare nell’antichità, la donna medievale non ha un posto pubblico (e spesso nemmeno privato) nella società. Questo però non impediva agli uomini, che rappresentano la quasi totalità degli autori delle fonti del tempo, di attribuire ad ogni donna, novella Eva, tratti negativi, come la lussuria, l’irrazionalità, la capacità demoniaca di indurre il maschio a peccare”. Come supporto documentale a questa affermazione, Del Bo invita a riflettere sulla natura dell’insulto in età medievale: se per gli uomini gli insulti più gravi afferiscono alla sfera della lealtà (“traditore”, “senza onore” etc.), gli insulti rivolti ad una donna fanno riferimento invece alla lascivia (“puttana”), all’infedeltà, all’aspetto fisico, al rifiuto dell’obbedienza (“strega”), al tradimento del ruolo di madre.
La riflessione proposta dalla docente ha trovato alimento nella vicenda della badessa cremonese Tolomea e delle sue dissolute monache, verificatasi nel convento di San Salvatore nell’anno 1471: il comportamento impudico, scandaloso e lussurioso delle monache (che prendevano a modello proprio la badessa!) divenne presto un topos letterario molto frequentato dagli autori coevi, che contribuirono, sdegnati o divertiti, ad alimentare la diceria di un “convento di monache dal desiderio insaziabile”.
Intervenendo in chiusura d’incontro, Laura Casella ha illustrato il ruolo delle donne in età moderna: come avveniva anche nel Medioevo, le donne continuano a essere di norma rilegate in casa e in famiglia – e proprio in questo spazio sono rappresentate nell’arte figurativa (basti pensare a Carpaccio!) o nella letteratura. Tuttavia, ha sottolineato Casella, si sono verificati rari casi di donne che hanno preso in mano, per abilità personale o per cause accidentali, la gestione delle risorse mobiliari e immobiliari della famiglia, spesso con ottimi profitti.
Lectio di Miriam Davide: Gli spazi di azione delle donne nel Patriarcato di Aquileia nel Tardo Medioevo
L’intervento di Miriam Davide, docente presso l’Università di Trieste, si è concentrato sul tema delle possibilità di azione delle donne in Friuli nel Tardo Medioevo, sotto il Patriarcato di Aquileia e poi sotto la dominazione veneziana.
Le fonti utili per studiare la condizione femminile in Friuli, molto limitate dal punto di vista quantitativo prima dell’XI secolo, sono invece più numerose nel periodo bassomedievale. In particolare, l’interesse di Miriam Davide riguarda quelle fonti che mostrano il ruolo della donna in ambito commerciale e imprenditoriale e la sua condizione dal punto di vista giuridico.
In ambito legislativo, le donne di trovano in uno status di minorità giuridico. Tuttavia, è proprio in questo campo che la donna trova uno spazio di azione grazie all’istituto della “controdote”, disposta, cioè, al momento delle nozze dal marito nei confronti della moglie. In Friuli si ha attestazione di due esempi di tale tipologia di dote. La prima di queste è il morgengabe, consuetudine di origine longobarda il cui significato letterale è “dono del mattino”; la seconda è la desmontatura, (l’espressione fa riferimento all’atto di scendere da cavallo), che prevedeva la donazione alla donna di un bene, ad esempio un cavallo o un bue. Queste consuetudini garantivano alle spose una certa autonomia, tanto che le fonti documentano la presenza di investimenti fatti da donne grazie a tali beni dotali.
Con il tempo, però, l’usanza di consegnare una controdote alle spose viene applicata sempre meno, proprio a causa dell’eccessiva autonomia che essa garantiva; non sono infrequenti, infatti, i casi di alienazione dei beni dotali dei mariti. Questa situazione porta a diversi interventi da parte del patriarca finalizzati alla tutela delle mogli, fra i quali una norma emanata alla fine del XIV secolo con l’obiettivo di difendere l’eredità femminile nel caso in cui, alla sua morte, il marito non avesse redatto il proprio testamento.
Tuttavia, i frutti di tali sforzi da parte dell’autorità pubblica, che avevano garantito alle donne friulane uno spazio di azione più ampio rispetto al resto della penisola, vengono meno nel 1420, quando l’avvio della dominazione veneziana porta allo smantellamento del precedente sistema di tutela.
Marina Benedetti, Marina Montesano e Adriana Valerio: Eretiche!
Al centro del dialogo tra Marina Benedetti, professoressa di Storia del Cristianesimo all’Università di Milano, Marina Montesano, docente di Storia medievale presso l’Università di Messina, e Adriana Valerio, già docente di Storia del Cristianesimo e delle Chiese presso l’Università Federico II di Napoli, è stato il coraggio, ribelle e tenace, di quelle donne che sfidarono la società medievale e le sue rigidità, tanto da divenire vittime di persecuzioni da parte di giudici e inquisitori: sono infatti le donne “eretiche” a costituire l’oggetto “spigoloso” di questo incontro, in collaborazione con il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano.
La prima precisazione dell’incontro, ad opera della prof.ssa Benedetti, riguarda proprio il termine “eresia”: “Il termine, se ne osserviamo l’etimologia dal greco, indica una scelta all’interno di una dottrina […]. Non ha, quindi, connotazione negativa”. L’attenzione degli studiosi, da sempre rivolta agli eresiarchi, si è gradualmente spostata ad osservare le “eretiche”, soggetti femminili variopinti ed affascinanti, portatrici di istanze di frattura ed emancipazione nei confronti di una Chiesa che, tradendo (a loro avviso) lo spirito più sinceramente evangelico, aveva allontanato le donne dai ruoli centrali della comunità ecclesiale: interpretando in modo univoco l’epicope di San Paolo (“le donne devono tacere in assemblea”, Corinzi 14,33), l’Inquisizione soleva attivarsi quando le donne predicavano con autorità. Il termine “eretiche”, continua Benedetti, rappresenta peraltro il giudizio morale e la condanna giuridica degli inquisitori, non una categoria consapevole di sé: a causa di una “censura onomastica”, che colpiva soprattutto le “predicatrici itineranti”, che andavano per il mondo ad annunciare il messaggio pauperistico del Vangelo (sfidando un mondo pericoloso, dominato dai soprusi maschili), di queste donne spesso non ci è pervenuto nemmeno il nome, al netto di alcune rare eccezioni – Guglielma la Boema e Margherita la Bella su tutte.
È proprio della vicenda di quest’ultima che Benedetti sottolinea gli aspetti più interessanti: Margherita, già predicatrice itinerante, diviene presto la compagna religiosa (e, solo in un secondo momento, di vita) di Fra Dolcino, il quale viene sopraffatto da una crociata punitiva che lo coglie impreparato nel suo ritiro sui monti, in attesa della palingenesi; sebbene del processo inquisitoriale a Margherita non sia rimasto nulla, l’episodio è stato immortalato dai commentatori della Divina Commedia (Dante parla di Dolcino, non di Margherita), che si trovarono in eredità il compito di dover tradurre i termini “socia”, “mulier” e “soror” – erroneamente interpretati ipotizzando un legame amoroso e carnale tra i due.
Marina Montesano si è poi occupata di tracciare un filo rosso che colleghi l’operato dell’Inquisizione medievale con i processi di caccia alle streghe della prima età moderna: malgrado ricorressero ai medesimi topoi usati dagli inquisitori (la presunta lascivia delle donne, su tutti), i tribunali laici moderni non sono più interessati alle accuse di “eresia”.
Anna Bellavitis, Nadia Maria Filippini e Alessandra Pescarolo: La Società Italiana delle Storiche – Storia delle donne, storia di genere: temi e approcci a confronto
Le tre storiche, socie fondatrici della Società Italiana delle Storiche (SIS), hanno presentato le origini e lo sviluppo della Società e discusso delle tendenze più recenti della storia delle donne.
La SIS nasce nel 1989 in un forte radicamento con il movimento femminista. Il suo obiettivo è fin da subito quello di valorizzare la presenza femminile nella storia; obiettivo perseguito attraverso la promozione degli studi di storia delle donne e la messa in discussione della storia generale, che utilizza un’ottica maschile e occidentale. La SIS punta quindi a compiere una revisione delle categorie, degli oggetti di studio e delle periodizzazioni tradizionali. Il tipo di storiografia privilegiata dalla SIS non può quindi che essere da un lato “di confine”, in dialogo con diritto, storia della religione, antropologia, dall’altro intersezionale, capace di coniugare, cioè, genere, classe e razza.
Dopo questa panoramica generale, le storiche hanno presentato i campi nei quali la Società opera. In particolare, la SIS è attiva in ambito didattico, con lo scopo di portare i contenuti della ricerca nelle scuole tramite la formazione degli insegnanti, e in ambito divulgativo. Esempi di tali attività sono la rivista “Genesis”, il testo “I secoli delle donne” e l’organizzazione di scuole estive.
Le tendenze degli ultimi anni hanno portato la SIS a sviluppare una sempre maggiore attenzione nei confronti di un approccio di tipo intersezionale, attraverso l’applicazione di nuove categorie, come quella di genere, e l’utilizzo di fonti diverse da quelle del mondo mediterraneo (a questo proposito, è stato menzionato l’importante lavoro svolto da Anna Vanzan). In particolare, si è discusso delle differenze intergenerazionali presenti fra le socie della Società stessa, che danno vitaa una dialettica interna fra storia sociale delle donne, più tradizionale, e storia di genere, maggiormente aperta alle tendenze più recenti.
Silvia Salvatici ed Elisabetta Vezzosi: Appunti per una storia del femminismo in Italia
Vezzosi e Salvatici ripercorrono la storia del femminismo in Italia, a partire dalle lotte a cavallo tra Ottocento e Novecento fino ad arrivare alla fine del secolo scorso, evidenziando fili conduttori e differenze nelle rivendicazioni femministe. Il punto focale rimangono le lotte politiche, in particolare legate al diritto di voto, riconosciuto soltanto con il referendum del 1946, che vede un’amplissima partecipazione femminile; al fianco di queste, però, viene sempre sottolineato l’impegno sociale dei movimenti femministi, che inizialmente si concretizza in azioni assistenziali per poi tradursi, sull’onda lunga del Sessantotto, nelle lotte per i diritti civili. Agli anni Settanta, infatti, risalgono le leggi di riforma del diritto di famiglia, il riconoscimento della possibilità del divorzio e dell’aborto.
Evidenziare l’evoluzione del femminismo nel corso di un secolo permette da una parte a Vezzosi e Salvatici di far emergere i progressi relativi alla condizione femminile, conquistati attraverso anni di lotte, e dall’altra di guardare al presente con occhio critico, con la consapevolezza che la battaglia non è finita e che, sul piano politico quanto su quello sociale, è essenziale riconoscere una permanente condizione di “oppressione” della donna. Proprio in merito alle riflessioni e alle attualizzazioni che possono scaturire dall’analisi dei movimenti femministi, Salvatici e Vezzosi operano una distinzione fondamentale tra storia del femminismo e storia femminista, individuando nella seconda, più militante e schierata, un approccio sicuramente meno neutrale, ma secondo certi aspetti più illuminante rispetto alla disamina del femminismo e del ruolo della donna nel corso della Storia. Ripercorrere la storia del femminismo, dunque, non costituisce solo uno spunto di natura divulgativa o didattica, ma anche di tipo politico, e mostra ulteriormente quanto lo studio della Storia possa avere un impatto sulla realtà, se i suoi insegnamenti vengono colti. La modalità del dialogo tra due professoresse, che da lungo tempo si concentrano sulla tematica, permette di comprenderla maggiormente e di vederla da diverse angolazioni.
Enrico Miletto e Stefano Bizzi: Le due Marie. Vita sulla frontiera orientale d’Italia
Il dialogo tra Enrico Miletto, ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università di Torino e Stefano Bizzi, redattore de “Il Piccolo” di Trieste, si è svolto intorno al recente volume di Miletto (Le due Marie, Scholé, 2022), in cui viene proposta una ricostruzione del lungo Novecento sulla frontiera orientale italiana, adottando uno sguardo originale e inedito: quello femminile.
È proprio tra l’Istria e la Dalmazia che si estende il raggio d’azione di due donne, che mai hanno avuto modo di conoscersi e che hanno abbracciato due concezioni politiche diametralmente opposte, vale a dire il fascismo e il comunismo.
La prima, Maria Pasquinelli, è la “Maria nera”: nata a Firenze nel 1913, si laurea in Pedagogia ed è una fervente sostenitrice del regime fascista. Dopo un’esperienza sul fronte libico come infermiera, raggiunge la Dalmazia nel 1942 con un obiettivo preciso: inserirsi, in qualità di maestra, nel processo di italianizzazione della regione croata. Testimone dell’eccidio della popolazione italiana di Spalato nel 1943 commesso dalle bande partigiane titine, è da queste stesse arrestata. Liberata dopo poco dai tedeschi, stringe, decisa a difendere l’“italianità” della Venezia Giulia, una collaborazione con il Servizio informazioni della X flottiglia MAS. Nel 1947, in protesta con l’assegnazione alla Jugoslavia della città di Pola, spara al generale alleato Robert de Winton. Sconterà in carcere diversi anni, senza mai rinnegare le proprie azioni.
Maria Bernetič, nata nel 1902 in un quartiere operaio di Trieste, è invece la “Maria rossa”: iscritta al Partito comunista dal 1921, è attiva in operazioni di propaganda antifascista per tutto il Ventennio. Arrestata per ben due volte, opta per emigrare in Francia nel 1933, continuando da lì l’opposizione al regime. Partigiana, è tra le fondatrici della testata periodica e, in prima battuta, clandestina “Noi Donne”. Nel dopoguerra, divenuta funzionaria del PCI, si spende a lungo per il riconoscimento di tutele a favore della popolazione slovena, a cui appartiene. Nella quarta legislatura repubblicana (1963-1968) viene eletta alla Camera dei deputati: è significativamente la prima donna di lingua e cultura slava in tale ruolo.
Perché – si chiede Bizzi – accostare le vite di due donne che non si sono mai incontrate personalmente e che sono state motivate, nel corso della loro vita, da ideali decisamente divergenti? La risposta – ribatte Miletto – si può articolare su almeno due piani distinti. Anzitutto, le due donne, benché estremamente diverse, condividono la stessa rottura del canone sociale femminile imposto dall’epoca: non solo non si sono sposate e non hanno avuto figli, ma, all’esatto opposto, hanno scelto di studiare, lavorare e sacrificare la loro vita agli ideali politici. Le due biografie, da un secondo punto di vista, si muovono nel medesimo spazio geografico e consentono di aprire uno spiraglio sul contesto del confine adriatico, mettendo in luce rapporti sociali e delicate questioni politiche.
Susan Stryker e Valeria Palumbo: Storia transgender
Per poter avere un quadro completo della storia di genere e delle dinamiche di potere a essa legate, non ci si può limitare allo studio delle figure femminili e del loro ruolo secondo un’ottica binaria e fondata su uno schema patriarcale che divide l’umanità in due classi rigide, con funzioni altrettanto definite e statiche: questa è la proposta di Susan Stryker, docente di Studi di genere presso l’Università dell’Arizona, la quale, attraverso il suo volume “Storia transgender”, mira a decostruire l’idea per cui la divisione tra uomini e donne è un fatto naturale, evidenziando il suo carattere storico e politico. All’interno di questa prospettiva, acquista grande spazio l’analisi delle dinamiche di potere e oppressione che accomunano le donne e la comunità transgender. Attraverso il dialogo con Valeria Palumbo, Stryker ha l’occasione di adottare una prospettiva di lungo periodo sulla questione: l’umanità non sempre ha conosciuto una divisione binaria di genere, ma diverse sue espressioni culturali hanno da sempre constatato la presenza di un numero variabile di generi e riconosciuto, valorizzandola, la fluidità di genere. Questo porta l’autrice a individuare due fenomeni in particolare all’origine del sistema patriarcale e della sua recente espansione globale: sul piano culturale sono l’avvento e la diffusione del cristianesimo a cristallizzare la definizione dei ruoli di genere in Occidente; sul piano politico e sociale i processi di colonizzazione e imperialismo portati avanti dall’Europa occidentale nel corso dell’età moderna hanno imposto questa visione a buona parte del mondo, intrecciandola profondamente con le dinamiche di oppressione coloniali. Così, secondo la tesi di Stryker, il fenomeno della schiavitù nelle Americhe durante l’età moderna è frutto della volontà europea di incasellare i corpi delle persone deportate in ruoli imposti e ben definiti, sovrapponendo quindi a una gerarchia sessuale una gerarchia sociale, altrettanto inflessibile, in cui il padrone (sempre uomo bianco) può disporre dei corpi dei propri schiavi e, soprattutto, delle proprie schiave a proprio piacimento.
La pretesa di controllo sulle individualità, caratteristica del sistema patriarcale, si intreccia con gli sviluppi della civiltà occidentale negli ambiti più disparati: a partire dall’Ottocento, con lo sviluppo della medicina e della chirurgia, diventa possibile attribuire una pretesa scientifica alla patologizzazione di ogni tipo di “devianza dalla norma” sul piano sessuale e di genere, e le prime persone a esserne vittime, secondo l’analisi di Stryker, sono proprio le donne e le persone transgender. Attraverso una trattazione che, quindi, prende le mosse da passati lontanissimi e si muove nei secoli con un’ottica critica, laica e decoloniale, Stryker arriva a evidenziare le radici culturali e politiche delle sempre presenti dinamiche oppressive nei confronti delle persone transgender, la cui condizione appunto di categoria oppressa è profondamente intersecata a quella, analoga, delle donne cisgender. Anche nello Stato che più esalta la libertà individuale, gli Stati Uniti d’America, chi devia dalla norma eteropatriarcale è visto come un pericolo eversivo per un ordine che non può essere messo in discussione. Adottare una prospettiva storica sulla questione delle dinamiche di genere permette di evitare semplificazioni e assunti dovuti a un’osservazione superficiale della realtà circostante, ed è ciò che Stryker denuncia particolarmente all’interno del dibattito statunitense sul tema: la Storia, anche in alcune sue declinazioni più militanti, risulta essenziale per fare luce e affrontare le sfide del presente, nonché per scuotere quelli che riteniamo pilastri essenziali e inamovibili della nostra società, ma che in realtà possono rivelarsi fragili castelli di carta.
Marco Cuzzi e Valeria Palumbo: Franca Viola, la ragazza che disse no al matrimonio riparatore
Durante l’ultima giornata del festival, degno di nota è stato l’intervento di Marco Cuzzi e Valeria Palumbo sulla vicenda di Franca Viola, che a quasi 60 anni di distanza continua a riscuotere una forte attenzione all’interno dell’opinione pubblica.
Nel 1965, infatti, la diciassettenne Franca Viola balzò agli onori delle cronache per essersi coraggiosamente rifiutata di accettare la pratica del “matrimonio riparatore”, a seguito del rapimento (e relativa violenza) subito ad opera dell’ex fidanzato Filippo Melodia. Nonostante la morale dell’epoca prevedesse di “sanare” la violenza con le nozze, in modo da salvare l’onore della donna, Franca Viola si oppose strenuamente a tale soluzione e, nonostante le minacce subite e con il supporto della propria famiglia, denunciò il suo aguzzino, il quale venne condannato a 10 anni di carcere.
Nel suo intervento, Valeria Palumbo ricorda l’effetto dirompente di questa vicenda nell’opinione pubblica nazionale, fondamentale per il superamento dell’art. 544 del codice penale (che prevedeva il “matrimonio riparatore” come causa di estinzione del reato di violenza), ricordando il contributo importante apportato da Franca Viola al cambiamento culturale, che di lì a poco sarebbe deflagrato con il 1968 e la “stagione dei diritti civili”.
Marco Cuzzi, a sua volta, pone l’accento sulle diverse interpretazioni scaturite all’epoca dei fatti, richiamando l’esaltazione della figura di Franca Viola operata da “L’Ora” di Palermo, contrapposta alla posizione più conservatrice del “Giornale di Sicilia”, il quale si concentra sul ruolo del padre. La portata di questo evento diventa nazionale, anche per la concomitanza con un altro processo, avente ad oggetto la famosa inchiesta del giornale del liceo milanese Parini, “La Zanzara”, in merito alle abitudini sessuali delle giovani compagne. Tuttavia, l’avvio di questa stagione di progresso ed emancipazione delle donne continua a dover fare i conti con numerose recrudescenze e con l’elevatissimo numero di femminicidi nella nostra penisola.
Palumbo e Cuzzi ricordano anche come questo processo di cambiamento dell’opinione pubblica abbia avuto tempi assai lenti, citando ad esempio un altro fatto di cronaca avvenuto nel 1975 e passato tristemente alla storia come “massacro del Circeo”, nonché la celeberrima opera televisiva del 1979 “Processo per stupro”. In entrambi i casi, le reazioni di parte dell’opinione pubblica, anche femminile, denotano il persistere di una mentalità maschilista e patriarcale ben radicata all’interno della società, che ancora oggi fa sentire i suoi effetti e mette a rischio i progressi faticosamente raggiunti dalla stagione dei diritti civili.
Un sentito ringraziamento agli organizzatori del Festival èStoria e alla professoressa Marina Gazzini, ideatrice e referente dell’iniziativa per il Dipartimento di Studi storici, per la preziosa opportunità.
Serena Bonetti, Ilaria Longhin, Davide Petrosino, Francesco Taricone e Luca Valeri