Considerata uno degli eventi focali della storia, la caduta dell’Impero romano d’Occidente ha attirato l’attenzione di numerosi studiosi intenti a ricercarne le cause e a proporne una propria valutazione. Il volume di Bertrand Lançon, professore emerito di Storia romana all’università di Limoges, i cui lavori vertono sugli imperatori e sugli aspetti politici, religiosi e sanitari del IV e V secolo d.C., si inserisce in questo movimentato dibattito storiografico che ritiene la caduta dell’Impero romano d’Occidente un episodio talmente radicato nella mentalità occidentale da essere diventato una sorta di dogma culturale. La questione riguardante la profonda crisi politica, militare, religiosa ed economica tra IV e V secolo d.C. è stata oggetto di una notevole produzione bibliografica che potrebbe essere suddivisa in due distinte prese di posizione: quella di coloro che, dando per scontata l’evidenza di un declino e un crollo dell’Impero romano d’Occidente, ricamano in modi diversi il tema di una decadenza inesorabile e quella di chi, invece, mette in dubbio questa concezione, sostenendo la tesi di una “non caduta”, o meglio, di una “trasformazione” della romanità che avrebbe continuato ad esistere in Occidente anche dopo il 476. Questa bipartizione è, tuttavia, ingannevole, in quanto le ragioni atte a difendere il tema della caduta sono eterogenee e, lungi dall’essere relative a scelte ideologiche identificabili, si possono basare su opzioni storiografiche legittime. La difficoltà della questione presa in esame da Lançon non è dovuta al disorientamento degli studiosi di fronte a ciò che è realmente accaduto tra IV e V secolo d.C., bensì all’interpretazione da essi adottata nell’analisi di una serie di fattori incerti riguardanti avvenimenti dai contorni non ben definiti.
La caduta dell’Impero Romano. Una storia infinita si interroga, quindi, sull’ultimo secolo di Roma, cercando di dimostrare che la sua caduta altro non è che un’idea sbagliata di carattere moderno, uno spettro che, ancora ai giorni nostri, continua ad aleggiare sulla cultura occidentale. Essa viene trattata a torto come un enigma storico che si potrebbe risolvere identificandone le cause, mentre è proprio la sua longevità ad essere enigmatica. Il progetto storiografico di Bertrand Lançon è volto a mettere in discussione il paradigma di decadenza o di caduta, a lungo utilizzato per caratterizzare il V secolo d.C. nell’Impero romano d’Occidente, ma qualificato come “un fenomeno più storiografico che storico”. L’accademico francese ribadisce, prima di tutto, che le cause addotte per concludere che l’Impero romano è caduto non sono più valide ai giorni nostri e sono solo frutto di una ripresa ideologica, a cui egli oppone una visione continuista della storia, sollevata dal peso opprimente delle questioni contemporanee. Di primaria importanza è innanzitutto il problema metodologico della datazione di una presunta caduta: l’esaurirsi della successione imperiale in Occidente viene vista da Lançon come un non-evento, soprattutto perché il mantenimento di un sistema amministrativo romano oltre il 476 in una vasta area geografica contraddice l’idea gibboniana di un crollo definitivo. Infatti, alla fine del V secolo d.C., nessun autore piange la fine dell’Impero romano d’Occidente e, negli anni successivi alla deposizione di Romolo Augustolo, gli eventi non vengono percepiti né come una caduta né come una brutale spaccatura e neppure come un limite cronologico importante nelle cronache. Tuttavia, se si può parlare di una caduta rovinosa della parte occidentale dell’Impero, il suo punto di partenza è da ricercare, in termini di perdite economiche e demografiche, nel trauma provocato dal saccheggio gotico del 410 che fece nascere l’idea che Roma non fosse una città eterna, pur non avendo conseguenze definitive per la sua fine.
Piuttosto che attaccare la legittimità delle nozioni di decadenza e crollo, Bertrand Lançon, partendo dalla disfatta romana di Adrianopoli nel 378 e dal conseguente sacco di Roma ad opera dei Goti di Alarico nel 410 e arrivando fino alla consegna delle insegne imperiali al sovrano d’Oriente, Zenone, esamina una per una le dieci ragioni che avrebbero influito sulla fine della parte occidentale dell’Impero romano, con la convinzione, però, che nessuna delle cause di questa pseudo-caduta sia valida ed accettabile. Desideroso di ridurre al minimo la realtà di una presunta “caduta” dell’Impero romano, lo storico francese punta a constatare, punto per punto, la futilità dei tentativi che pretendono di giustificare questa rappresentazione catastrofista della storia della Tarda Antichità. Alla luce della sua analisi, i popoli germanici che penetrarono nelle province romanizzate a partire dall’inverno del 406 non erano orde violente intenzionate a distruggere la civiltà romana, ma propense a stabilirsi pacificamente all’interno dei confini, con la speranza di ricevere terre in cambio del loro aiuto militare alla causa imperiale. Equiparare popolazioni straniere a barbari (termine ormai ritenuto inadeguato) corruttori e devastatori della purezza romana è solo una percezione errata, influenzata dalla questione migratoria dei giorni nostri.
Bernard Lançon rifiuta una lettura eccessivamente di parte delle fonti (soprattutto quelle di matrice ecclesiastica) che insistono sulla violenza “barbara” e invita a considerare l’evoluzione semantica di questo termine a partire dal V secolo, nonché l’apparizione di una concomitante etnogenesi in seno a questi popoli, con il fine di rifiutare ogni tentativo di conciliare antiche e attuali migrazioni. Non fu il restringimento territoriale della pars occidentalis, evidente a partire dal 439 con la perdita dell’Africa, conquistata dai Vandali di Genserico, che determinò la fine di Roma e del suo mondo di valori: anche nei regni barbarici, infatti, la romanità venne conservata attraverso la feconda mediazione delle aristocrazie locali con le élite militari germaniche. Lo stesso vale per ciascuno degli altri motivi presi in esame dallo storico francese, sia che si tratti dell’effetto di malattie mortali sulla demografia, sovrastimato nella storiografia moderna, o dell’idea di un collasso economico (la produzione di monete e di ceramica non subì pesanti flessioni) o della percezione di un cristianesimo deleterio, il quale, nonostante le divisioni all’interno della Chiesa cristiana, si presentò come fattore di unità salvifica per l’Impero d’Occidente, o della convinzione di un declino culturale (le produzioni scritte di qualsiasi genere letterario restarono numerose, a testimonianza di una dinamica circolazione delle idee attraverso l’arte epistolare e la ricerca storica, armi di un dibattito che coinvolse personalità di spicco legate ad ambienti laici e religiosi) o della fantasia di una decadenza morale o della scomparsa delle strutture statali, che si mantennero intatte nei regni barbarici dove si conservò anche il diritto romano. Non furono né la deposizione dell’ultimo imperatore d’Occidente, né la cancellazione delle istituzioni reggenti lo Stato romano che, secondo Lançon, dovrebbero essere accusate della caduta della pars occidentalis. Secondo l’accademico francese, l’indebolimento del potere imperiale in Occidente non fu causato dalle responsabilità dei suoi rappresentanti, che incontrarono difficoltà ad ogni livello, bensì dalla sua costante dipendenza alle scelte dell’Oriente, sempre più restio a concedere risorse finanziarie e militari alla pars occidentalis, la cui estinzione venne deliberatamente programmata; inoltre, lo “svenimento” dell’esercito romano è da considerarsi solo un epifenomeno, che non ebbe significative ripercussioni sulla sorte di Roma e del suo impero.
Dunque, argomenta Lançon, non c’è bisogno di considerare come data spartiacque nella storia il 476, poiché la deposizione «senza rumore» dell’«usurpatore» Romolo Augustolo per mano di Odoacre, momento culminante del crepuscolo della romanità, non venne percepita dai contemporanei come la fine di un’era e non ebbe particolare rilievo nelle cronache dell’epoca, lontane dal pathos con cui parte della storiografia moderna ha descritto questo “non evento”. Il medesimo concetto è, inoltre, trasferibile ad altri momenti ritenuti il termine ultimo della romanità, come il 480, anno della morte dell’ultimo imperatore legittimo d’Occidente, Giulio Nepote, oppure il 486, quando Clodoveo occupò l’ultima enclave romana nella Gallia settentrionale posta sotto l’autorità del prefetto Siagrio. Secondo lo storico francese, è meglio, quindi, interrogarsi sui motivi che i contemporanei possono considerare per ritornare «all’infinito» a questa presunta caduta dell’Impero romano. Essi, preoccupati per la crisi mondiale dei giorni nostri, continuano a ricreare una caduta dell’Impero romano d’Occidente per farne uno specchio delle loro angosce per giustificare un pessimismo legato ad un’identità in continua mutazione. Eppure, i termini “caduta e “crollo” non sono appropriati per descrivere il destino dell’Impero romano; si può parlare di “fine”, ma non si tratta di un episodio unico: è il risultato di una serie plurisecolare di eventi non letali. Come sintetizza Bernard Lançon, «ogni storico mette nella ‘caduta’ dell’Occidente romano quello che vuole vedere, di solito un miscuglio di ideologie della propria epoca e di sentimenti personali. Ciascuno ha la propria caduta, perché non ne esiste una reale… cercare di stabilire la verità su quest’evento è un’illusione, una chimera, perché nel V secolo nessuno ha visto la “caduta”, l’hanno costruita gli storici successivi». In conclusione, il volume dello studioso francese risulta essere uno strumento prezioso all’interno del panorama relativo alla caduta di Roma e utile per analizzare uno dei più affascinanti enigmi della storia, che ha diviso e continua a dividere storici di ogni epoca.
Davide Alborghetti