Ormai da alcuni anni, il Dipartimento di Studi Storici dell’Università degli Studi di Milano celebra l’anniversario della Liberazione organizzando una lectio magistralis dedicata alla figura di Federico Chabod, illustre storico e partigiano, tenuta per l’occasione da Paolo Pezzino, presidente dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri e Professore emerito dell’Università di Pisa.
La lectio si è aperta con il saluto di Andrea Gamberini, direttore del Dipartimento di Studi Storici, che ha voluto ricordare come alla memoria del 25 aprile si intrecci il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, un evento spartiacque per la storia del fascismo e dell’antifascismo. Il professor Gamberini ha concluso il suo intervento ringraziando le molte istituzioni che hanno contribuito a realizzare questa iniziativa, fra cui l’Istituto Nazionale Ferruccio Parri, la Casa della Cultura, il Centro di documentazione ebraica contemporanea (CDEC), l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti (ANED), la Fondazione Anna Kuliscioff, il Laboratorio Lapsus, l’Istituto Lombardo di storia contemporanea e il Comune di Milano, presente con l’assessore Pierfrancesco Maran.
La parola è poi passata a Daniela Saresella, professoressa ordinaria di Storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano, che ha introdotto il Professor Pezzino, ne ha presentato le sue principali linee di ricerca, riconducibili a due filoni: il primo relativo alla storia della mafia e del Mezzogiorno[1]; il secondo ai massacri di civili e alla giustizia di transizione[2].
L’intervento del professor Paolo Pezzino è iniziato con la spiegazione del titolo della lezione, Non solo consenso. L’opposizione al fascismo prima e dopo l’assassinio Matteotti,e con la problematizzazione di questo tema. Nonostante il consenso verso il regime fascista sia un dato accertato dalla storiografia, Pezzino ha precisato come sia doveroso porre un distinguo fra i sistemi democratici, in cui esso è raggiunto per mezzo del libero confronto delle idee politiche e dei partiti, e quelli dittatoriali, in cui è conseguito per mezzo del controllo dell’opinione pubblica e dell’uso della violenza. Proprio per capire quale ruolo abbia avuto la sistematica sopraffazione delle opposizioni nell’eliminazione del dissenso, ancor prima dell’omicidio di Giacomo Matteotti, è necessario ripercorrere le principali tappe dell’evoluzione del movimento fascista.
Nonostante il fascismo fosse alla sua fondazione una formazione marginale, nel volgere di breve tempo riuscì a entrare in Parlamento e di lì a poco a formare il suo primo governo. Questa rapida ascesa fu possibile grazie al ricorso continuo alla forza che, seppur diffusa in tutta Europa a seguito della Prima guerra mondiale, costituì per il movimento fascista una cifra distintiva, tanto che Mussolini la definì “vero e proprio stile di vita”. La violenza fu adoperata, secondo la narrazione fascista, come unico modo per salvare la nazione dallo stato di guerra civile in cui era sprofondata dopo il “biennio rosso”. Esemplificativa di questa linea è l’arringa tenuta da Dino Grandi nel processo per i fatti di Palazzo d’Accursio, una delle prime manifestazioni della violenza squadrista e dell’acquiescenza delle istituzioni liberali.
La città era dominata dall’anarchia, dalla violenza, dall’odio di classe, dal bolscevismo, una dittatura, terrore rosso, un antistato dentro lo stato dove lo stato non esiste[3].
Il relatore si è soffermato sulla narrazione del fascismo come “partito d’ordine”, utile al nascente regime per ottenere il favore di coloro che erano preoccupati per l’avanzata delle organizzazioni della sinistra. In questo senso, come scritto da Simona Colarizi[4], sarebbe da spiegare l’immobilismo dei liberali che, accecati dallo straordinario successo del Partito Socialista nelle elezioni del 1919, le prime con sistema proporzionale, videro nel fascismo una forza da contrapporvi, a tutela dello status quo. Ad alimentare questa idea di partito da parte fascista, secondo Pezzino, e ad accrescere il favore, soprattutto dei ceti dominanti, sarebbe stata anche la diffusione da parte dell’ala più massimalista del Partito Socialista di programmi rivoluzionari, tanto estremi quanto inconsistenti.
Il pericolo rivoluzionario quindi, anche se infondato, fu vitale per il fascismo, che poté presentarsi agli occhi di parte dell’opinione pubblica come una forza in grado di arginarlo e di tutelare l’ordine esistente. Su questa scia sono stati presentati gli accadimenti del 27 febbraio 1921: in questa data, a Firenze, un corteo di studenti fascisti e nazionalisti fu attaccato e l’avvenimento fornì agli squadristi, affiancati da reparti regolari dell’esercito, il pretesto per una repressione sanguinosa nel quartiere popolare di San Frediano, che fu vissuta, scrive Mondini[5], quale riconsacrazione, presentata dalla stampa liberale come patriottica, dello spazio violato dalla brutalità dei sovversivi.
Di lì a poco la violenza fascista si allargò, con il benevolo neutralismo delle forze dell’ordine e di alcuni liberali, tra cui Luigi Einaudi, che sottolineò l’importanza di rompere il monopolio delle organizzazioni cattoliche e della sinistra nelle campagne. Questa fase, che vide l’allontanamento del sindaco socialista Angelo Filippetti da Milano, si concluse con la marcia su Roma, a cui negli ultimi anni sono stati dedicati numerosi studi. Le ultime ricerche, come ricordato da Pezzino, ridimensionando l’idea che si fosse trattato di una farsa, ponendo l’accento sulla mobilitazione di massa e sull’occupazione delle periferie, elementi tipici dei colpi di stato. Alla marcia fece seguito, nel giro di pochi giorni, il primo governo Mussolini: il re, infatti, si rifiutò di firmare lo stato d’assedio, che era stato proclamato la mattina del 28 novembre, poiché probabilmente aveva apprezzato l’operato di Mussolini nel contrastare le leghe, sia socialiste che cattoliche, e temeva che l’ordine non sarebbe stato applicato in tutta Italia[6].
Nonostante si fosse trattato di un colpo di stato con carattere eversivo, le forze liberali, ancora convinte che si potesse far entrare il fascismo nei ranghi della legalità, votarono la fiducia al governo, presentato da Mussolini con un’orazione in cui, in spregio al Parlamento, tenne a precisare:
Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto[7].
Per quanto questo primo governo prevedesse solamente tre ministri fascisti, si poneva già al di fuori dell’ordine liberale: oltre al clima di violenza, furono subito varati due provvedimenti, il primo dei quali istituzionalizzava le camicie nere, e il secondo il partito unico con il Gran consiglio del fascismo, in chiara contraddizione con lo spirito dello Statuto Albertino. Ciononostante, il partito fascista continuava a costituire una minoranza all’interno del Parlamento, pertanto il governo si mosse per l’approvazione di una legge elettorale marcatamente maggioritaria, la legge Acerbo, che gli avrebbe garantito la maggioranza. Queste elezioni, rispetto alle precedenti, portarono ad un massiccio rafforzamento del partito fascista e a un indebolimento degli altri partiti: in particolare la sinistra, scissa in tre organizzazioni, rimase con un numero esiguo di parlamentari.
È in questo contesto che si colloca il discorso che Giacomo Matteotti tenne nella seduta del 30 maggio 1924, in cui denunciava il clima di violenza che aveva contraddistinto le elezioni e chiedeva il rinvio della convalida dei risultati[8]. Nel suo discorso, egli sottolineava come si fosse arrivati a una svolta dittatoriale e come lo stesso capo del governo avesse più volte dichiarato che, a prescindere dai risultati elettorali, avrebbe mantenuto il potere con la forza. La mozione presentata, firmata insieme a Presutti e Labriola, fu respinta, a dimostrazione dell’appeal che il fascismo esercitava sulle forze liberali e sui moderati. Di lì a poco Giacomo Matteotti fu sequestrato e gli fu quindi impedito di tenere l’intervento che aveva programmato per l’11 giugno, in cui si sarebbe discusso del bilancio e in cui avrebbe potuto rendere pubblico un caso di corruzione che coinvolgeva personalità molto vicine a Mussolini.
Per quel che riguarda la successiva fase politica, quella dell’Aventino, nella lectio il professor Pezzino si è soffermato sulle differenti interpretazioni politiche e storiografiche che ne sono state date: da parte della storiografia è oggi in corso una rivalutazione, che lo legge come un tentativo ultimo da parte delle forze dell’opposizione di ribaltare gli equilibri politici; da parte della politica coeva le interpretazioni sono più varie e spaziano da quella comunista, particolarmente dura e critica nei confronti degli aventiniani, tacciati di semi-fascismo, a quella di alcuni democratici come Salvemini, che la ritennero una opposizione inutile, sterile.
Certo è che pesò moltissimo la divisione fra le varie forze, causata in primis dall’indisponibilità dei comunisti a prendere parte all’iniziativa, e l’atteggiamento del re, che non ascoltò quanti, come Giovanni Amendola, gli chiedevano di prendere posizione contro un governo illegittimo. La crisi che si aprì con la scoperta del cadavere del Senatore fu particolarmente profonda per il regime, che tuttavia ne uscì all’inizio del 1925 con il discorso con cui Mussolini si assunse le responsabilità di quanto era accaduto e diede vita a un nuovo governo, composto da soli fascisti. Di lì a un anno tutti i partiti antifascisti furono sciolti: dopo questo provvedimento alle opposizioni rimasero due vie, quella dell’esilio, soprattutto in Francia, o quella della clandestinità Italia.
La lectio del Professor Pezzino si è conclusa ricordando il lascito morale dell’Aventino e l’interpretazione di Simona Colarizi[9], secondo cui la secessione costituì un momento determinante per il riavvicinamento alla fine degli anni Venti delle due anime del socialismo, che avrebbero realizzato la necessità di una maggiore unità nella lotta al fascismo. Più in generale, nota la Colarizi, l’opposizione al fascismo, nella quale l’Aventino ebbe un ruolo di primo piano, fu il terreno comune dei tre leader che sarebbero stati protagonisti dell’Italia democratica, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni e Alcide De Gasperi.
Andrea Quattromini
[1]Si ricordano, P. Pezzino, La riforma agraria in Calabria: intervento pubblico e dinamica sociale in un’area del Mezzogiorno 1950-1970, Milano 1977, P. Pezzino, Il paradiso abitato dai diavoli: societa, elites, istituzioni nel Mezzogiorno contemporaneo, Milano 1992, P. Pezzino, Mafia: industria della violenza, Firenze 1995 e P. Pezzino, Le mafie, Firenze 2003.
[2]Fra cui, P. Pezzino, Anatomia di un massacro: controversia sopra una strage tedesca, Bologna 2007, P. Pezzino, Sant’Anna di Stazzema: storia di una strage, Bologna 2008, P. Pezzino, Storia di una guerra civile: l’eccidio di Niccioleta, Bologna 2009, P. Pezzino, Monte Sole Marzabotto: il processo, la storia, i documenti, Roma 2023.
[3]Il testo letto dal relatore è estrapolato dall’arringa dell’avvocato Dino Grandi.
[4]Il riferimento è alla recente monografia S. Colarizi, La resistenza lunga: storia dell’antifascismo, 1919-1945, Bari 2023.
[5]M. Mondini e G. Schwarz, Dalla guerra alla pace: retoriche e pratiche della smobilitazione nell’Italia del Novecento, Sommacampagna, Verona 2007, pp. 102-103.
[6]Sulla marcia su Roma e sulla progressiva occupazione delle periferie si veda G. Albanese, La marcia su Roma, Bari 2008, pp. 84-128.
[7]Il discorso è riportato da D. Bidussa, Benito Mussolini: scritti e discorsi 1094-1945, Milano 2022, pp. 213-226.
[8]Il discorso è riportato da G. Pedullà, Parole al potere. Discorsi politici italiani, Milano 2011, pp. 332-339.
[9]Colarizi, La resistenza lunga: storia dell’antifascismo, cit.