Città Mito. Percorsi nel lungo Novecento politico italiano, Convegno di studi, Milano 2-3 dicembre 2021, responsabile scientifico: Massimo Baioni
Interventi di: Catherine Brice (Université Paris Est – Créteil), Elena Papadia (Università di Roma, La Sapienza), Xavier Tabet (Université Paris 8), Massimo Baioni (Università di Milano), Federico Carlo Simonelli (Università di Urbino), Paola Salvatori (Scuola Normale Superiore, Pisa), Silvia Cavicchioli (Università di Torino), Renato Camurri (Università di Verona), Filippo Focardi (Università di Padova), Amoreno Martellini (Università di Urbino), Mirco Carrattieri (Istituto Storico Parri), Paolo Capuzzo (Università di Bologna), Monica Gaffrè (Università di Firenze), Aurelio Musi (Università di Milano e Università di Salerno), Fabio Guidali (Università di Milano), Irene Piazzoni (Università di Milano), Alberto Guasco (CNR, Istituto per la Storia dell’Europa Mediterranea), Francesco Bartolini (Università di Macerata), Barbara Bracco (Università di Milano-Bicocca), Patrizia Dogliani (Università di Bologna), Paolo Nicoloso (Università di Trieste).
Il Convegno svoltosi a Milano il 2 e il 3 dicembre ha offerto un’importante occasione per riflettere sul ruolo di alcune città italiane che nel corso del Novecento hanno rappresentato un “mito politico” entrato nell’immaginario nazionale, sedimentato e alimentato nel corso di varie generazioni, dall’inizio del Novecento ad oggi. Più in generale, la città italiana – nella sua analisi storica – è la rappresentazione di un sostrato ideologico, una narrazione ideale che si fonde con la realtà andando a creare una dimensione simbolica utilizzata della stessa nel contesto politico per creare affettività (o dis-affettività), vicinanza e autorappresentazione del cittadino (o lontananza fisica e sentimentale).
La prima sessione, presieduta da Marco Soresina è stata inaugurata dall’intervento di Catherine Brice, dedicato alla città di Roma tra la fine dell’Ottocento e il periodo fascista. Partendo dalla consapevolezza che molteplici miti si sono intersecati nella storia dell’Urbe, è stato evidenziato come essi abbiano effettivamente contribuito alla costruzione della sua identità. Attraverso un excursus tripartito – Roma capitale, Roma liberale, Roma imperiale – è stata messa in luce la forza nazionale e internazionale del mito, mutato nel corso di queste diverse fasi, ridefinito nel corso delle epoche e delle congiunture politiche e religiose, implementato e divenuto efficace soprattutto durante il periodo fascista.
La seconda relatrice, Elena Papadia, ha proposto un intervento di più ampio respiro, incentrato sulle città dei “blocchi popolari”, realtà locali che, in età giolittiana, furono guidate da amministrazioni moderate, cioè da giunte di liberali progressisti, radicali, repubblicani, socialisti che diedero vita a esperimenti di “municipalismo democratico”. Dopo una preliminare esposizione delle priorità comuni alle diverse giunte – quali le politiche abitative, l’istruzione alimentare, la municipalizzazione dei servizi, il risanamento igienico –, sono state illustrate le evoluzioni dell’ambivalente rapporto tra municipalismo socialista e governo centrale e, infine, l’ampia connessione dei blocchi con la politica extranazionale, cioè con le altre democrazie europee, dall’Inghilterra alla Francia.
Tra mitologie antiche e moderne, Xavier Tabet ha trasportato gli uditori a Venezia, in un percorso snodatosi dall’inizio dell’Ottocento ad oggi. Anche qui, l’approccio di longue durée è stato scandito dalle fasi più significative della storia della Regina dell’Adriatico: la caduta della Serenissima – concepita come morte del mito politico e nascita di quello estetico e artistico – e la Prima guerra mondiale, quando la città divenne la capitale del nazionalismo adriatico con creazione di nuove memorie e nuovi miti. Tra le due guerre, il mito nazionalista e modernista di Venezia prese corpo tanto nelle opere letterarie quanto in saggi di storici locali, articoli di giornali o riviste: negli anni Venti fu valorizzato il binomio città-porto; negli anni Trenta le ricostruzioni storiche del passato imperiale di Venezia furono influenzate dagli obiettivi perseguiti dalla politica imperialista fascista. Nel dopoguerra, tuttavia, la sopravvivenza del “mito veneziano” fu minacciata da problemi causati dalla modernità, dall’industrializzazione e dalle conseguenti modifiche dell’ecosistema lagunare. Ciononostante, non mancarono sforzi tesi a preservare il patrimonio artistico di una “ville mondiale”, apprezzata da turisti e autoctoni.
Con una relazione su Trento e Trieste, l’intervento di Massimo Baioni ha posto l’attenzione sul forte legame esistito tra le due città per lungo tempo, dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta del Novecento, sull’evoluzione di un mito che finì talvolta per comunicare la storia, talaltra per sostituirla, e che legò indissolubilmente le due città nell’immaginario politico-nazionale degli Italiani. Se la solida dimensione politica e simbolica ricoperta dalle due città nel Risorgimento e nel corso della Grande guerra si mantenne fino al fascismo, attraverso un ricorso alla mitologia e ad una mistica impregnata di retorica religiosa e patriottica, fu proprio nello stesso periodo che la memoria irredentista di Trento, legata ad una resistenza antitedesca, andò gradualmente allontanandosi dall’evoluzione del mito di Trieste, in una divaricazione di percorsi resa poi ancora più evidente con le vicende che investirono quest’ultima città tra il 1945 e il 1954 e la loro pervasività nel panorama mediatico italiano. Il loro destino iniziò a tramontare negli anni Sessanta, con la riscoperta della Resistenza come fulcro della nuova identità italiana.
Infine, la sessione della mattina del 2 dicembre è stata conclusa dalla relazione di Federico Carlo Simonelli autore di un intervento sulla mitologia di Fiume dannunziana dal primo dopoguerra fino ai giorni nostri. Sebbene il mito di Fiume sia nato tardi rispetto a quello di Trento e Trieste e la città abbia tardato ad imporsi come oggetto di rivendicazioni territoriali italiane, essa rappresentò dalla fine della Grande guerra una nuova idea di politica: espressione del principio di autodeterminazione dei popoli, poi di ribellione contro il potere legale, Fiume fu trasformata da D’Annunzio in una capitale “alternativa” dell’Italia, divenendo così l’emblema di un contro-mito che tentava di imporre una narrazione italo-centrica dall’alto potere simbolico. Tuttavia, con la vittoria del fascismo e la sua annessione all’Italia, Fiume sembrò sparire dalla narrazione italiana e la città assunse gradualmente la funzione di luogo della memoria.
La seconda sessione, coordinata da Emanuela Scarpellini, si è aperta con la relazione di Paola Salvatori che ha indagato la dialettica centro-periferia nella retorica di alcuni gruppi fascisti. Fonte centrale è stata “Il Selvaggio”, periodico satirico pubblicato a Colle Val d’Elsa a partire dal 1924, letto come una delle voci profonde del fascismo di provincia. La campagna, come luogo fisico e mentale, rappresenta per i redattori della rivista il luogo genetico del fascismo – nella sua anima più genuinamente popolare, squadrista, irriverente – in contrapposizione con le correnti borghesi e “cittadine”. Silvia Cavicchioli si è concentrata su Torino, città mito dell’antifascismo, di diverse matrici. Dagli stabilimenti della Fiat, che ne fanno l’epicentro dell’antifascismo operaio, all’antifascismo liberale gobettiano: Torino è per Cavicchioli il simbolo di una opposizione precoce e indomita al fascismo, che ha lasciato tracce nel tessuto urbano, in monumenti e luoghi paradigmatici. La relazione di Renato Camurri si è concentrata sulla provincia veneta, allo stesso tempo «locomotiva» e «sacrestia» d’Italia. Centrale nella costruzione delle strategie di governo della Democrazia Cristiana, il Veneto è stato un modello di sviluppo e di “industrializzazione tardiva” ma anche di laboratorio per il progetto democristiano di “ricristianizzazione della società”. Filippo Focardi è intervenuto sulle “capitali della Resistenza”, ricostruendo le concessioni della qualifica di “medaglia d’oro” alla Resistenza, al Valor militare e al Valor civile, a città, province, località, comuni. Si tratta di circa 55 medaglie, distribuite nel corso dei decenni, soprattutto a partire dagli Novanta, quando iniziano a essere riconosciute anche le città del centro sud. Perugia e Assisi, estremi dal 1961 della “marcia della pace” , sono state al centro della relazione di Amoreno Martellini. Grazie all’opera dell’attivista Aldo Capitini, la marcia che unisce le due città è riuscita a riunire un “pulviscolo” di associazioni pacifiste di diversa matrice. Mirco Carrattieri ha parlato di Predappio, città natale di Benito Mussolini, negli ultimi anni al centro di una nuova stagione di interesse interdisciplinare seguita alla proposta di istituirvi un museo nazionale del Fascismo.
Alla terza sessione del convegno di studi “Città-Mito” sono intervenuti di seguito Paolo Capuzzo, Monica Gaffré, Aurelio Musi e Fabio Guidali. Il tema delle città e del mito delle città nel ‘900 è stato trattato secondo schemi di analisi differenti: talvolta città come soggetti della costruzione di un mito, quello comunista, “rosso”, per la Bologna di Capuzzo e quello neo-monarchico e populista della Napoli di Musi; talvolta come luogo fisico generico, oggetto e non soggetto di dinamiche in essa incluse o da essa escluse, come nella rappresentazione della città “culla” del terrorismo rosso elaborata da Gaffré o quale elemento assente ed ideologicamente non compatibile con la propaganda leghista presentato da Guidali. Concentrandosi nello specifico sugli interventi di Aurelio Musi e di Fabio Guidali, è possibile individuare elementi antitetici in riferimento alla città e alla relazione di questa con il mito. Da un lato abbiamo una Napoli che ha creato una sua comunità nazionale, plasmando intorno a sé un regno basato su un rapporto biunivoco popolo – governatore (monarca o sindaco che sia). Questo unicum in Italia è ben rappresentato da una tradizione “populista napoletana” che affonda le sue radici nel Medioevo, evolve e non cala al momento di scegliere fra monarchia e repubblica (difatti al Sud prevarrà il voto pro monarchia) e si fa caratteristica costante nel rapporto fra le personalità carismatiche dei sindaci che si sono susseguiti, da Lauro a De Magistris passando anche per il governatore De Luca, e il popolo della città di Napoli – un sentimento forte di appartenenza che oltrepassa il confine istituzionale. Questo mito populista che lega cittadini ed espressioni del potere politico manca nel rapporto fra cittadini e leghisti, tanto da creare l’immagine di città anti-mito. La mitopoiesi leghista, difatti, non contempla la città come simbolo del suo passato, né tantomeno la inserisce nella geografia della sua propaganda. La città si fa quindi “invisibile” nella propaganda leghista, in cui si prediligono elementi bucolici, riferiti alla Padania in quanto “luogo spirituale e non fisico”.
Gli interventi della quarta sessione del Convegno di studi, tenutasi nel pomeriggio del 3 dicembre, si sono concentrati su due miti politici di notevole rilevanza che hanno avuto origine nell’area milanese durante la seconda metà del XX secolo. Nel suo intervento, incentrato sul caso di Sesto San Giovanni, Irene Piazzoni ha analizzato la genesi, i caratteri e il progressivo mutamento ed esaurimento del mito della Stalingrado d’Italia, nonché la molteplicità di racconti ad esso correlati. Particolare attenzione è stata posta nel delineare l’evoluzione a partire dalla “città resistente”, in evidente correlazione con le vicende della gemella sul Volga, e attraverso il complesso periodo delle lotte operaie in seno al boom economico, fino alla stabilizzazione della “casamatta difensiva” della sinistra politica e sindacale, ormai depurata di ogni potenziale focolaio di ribellione. Infine, la disarticolazione della sinistra sindacale del dopo ’68 e il progressivo esaurimento di quel peculiare modello di sviluppo economico e urbanistico segnano il tramonto, dopo quello sindacale e politico, anche del mito economico di Sesto San Giovanni, luogo simbolo della modernità e dell’industrialismo italiano, che a partire dagli anni Ottanta entrano in una fase di definitiva crisi.
Nella seconda relazione, Alberto Guasco ha messo a fuoco le narrazioni e i miti politici che nascono e si sviluppano nella Milano dei primi anni Novanta, epicentro dell’inchiesta Mani Pulite e del fenomeno Tangentopoli. In apertura di relazione è stato ricordato il ruolo simbolico di “capitale morale” operosa, benefattrice e pragmatica, sottolineando come Milano costituisca un osservatorio estremamente utile per analizzare alcuni passaggi cruciali della storia italiana, in quanto anticipatrice, incubatore ed emblema di tutta una serie di fenomeni e tendenze. Il primo mito preso in esame è quello della magistratura, che vede come protagonista indiscusso Antonio Di Pietro, indubbiamente una tra le figure maggiormente iconiche di quella stagione di inchieste e rivolgimenti politici. All’inizio degli anni Novanta, l’immagine del magistrato diviene oggetto di un processo di sacralizzazione operata soprattutto dalla stampa e dalla televisione, acquisendo tutta una serie di tratti che caratterizzano la leadership carismatico populista: l’uomo di umili origini, dotato di senso pratico e autorealizzatosi, che parla un linguaggio peculiare e si presenta come alieno ai meccanismi della politica. Al suo fianco emerge il mito della cosiddetta società civile. Entità complessa e contraddittoria, crogiolo di valori positivi e virtù pubbliche, la società civile si colloca in decisa contrapposizione rispetto ad un sistema politico “malato” e fortemente delegittimato dagli scandali, configurandosi come sponda ed alleato naturale del pool di magistrati impegnati nelle inchieste giudiziarie. Conclude l’intervento l’analisi di come la magistratura, l’apparato mediatico e il mondo dell’economia avrebbero utilizzato l’inchiesta per affrancarsi da un sistema politico del quale erano stati parte integrante per decenni. Soprattutto si rivela fondamentale il ruolo della televisione come cassa di risonanza delle inchieste giudiziarie, con un protagonismo spiccato dei canali della rete Fininvest guidata da Silvio Berlusconi, che sarebbe riuscito ad imporsi sulla scena proprio cavalcando la narrazione apologetica della società civile.
I lavori sono proseguiti con gli interventi di Francesco Bartolini, Barbara Bracco, Patrizia Dogliani e Paolo Nicoloso, i quali sono stati invitati a discutere i contenuti delle relazioni presentate nel corso dei due giorni, individuandone connessioni e temi trasversali, e ad avanzare nuove riflessioni e sollecitazioni di tipo metodologico. Fra le questioni principali sollevate nel corso della tavola rotonda, ci limitiamo a ricordare: il nodo cruciale del rapporto tra città e campagna nella storia italiana e le sue implicazioni economiche, sociali, culturali, amministrative; i nessi che collegano la rappresentazione della città, il discorso politico e le trasformazioni urbane; il ruolo dell’architettura del periodo fascista nella creazione e nella perpetuazione di mitologie; la funzionalità ed i processi di costruzione narrativa e affermazione dei miti delle città; la centralità dei media e della dimensione emozionale nella costruzione del racconto.
Questa due giorni di studi si è poi conclusa con la chiusa del responsabile scientifico Massimo Baioni, che ha sottolineato come in questa fase il Convegno assuma la valenza di cantiere di riflessione e spazio di confronto su tutti i temi che sono emersi nel corso delle sessioni, in attesa della pubblicazione degli Atti.
Clara Belotti, Iara Meloni, Marco Rota, Anna Maria Scognamiglio, Mariella Terzoli
Università degli Studi di Milano