Si è svolto con successo il ciclo di incontri dal titolo Minoranze tra Italia e contesto globale (XIV-XX secolo): nuove esperienze di ricerca, che si è tenuto tra il pomeriggio di mercoledì 7 febbraio 2024 e la mattinata di giovedì 8 febbraio, presso il Dipartimento di Studi storici dell’Università degli Studi di Milano. Nel primo giorno di lavori l’uditorio dell’aula seminari dedicata ad Elena Brambilla ha assistito alla presentazione ed alla discussione dei progetti Prin 2022, dal titolo Spatializing Jews and the Economy. Towards A Digital and Dynamic Atlas: People, Business, Artifacts in Global Italy (14th – 20th centuries) e Visualizing Jewish Cultural Heritage. Toward a Digital and Dynamic Atlas: People, Artifacts, Books and Manuscripts in Global Italy (15th – 20th Centuries) e del Prin Pnrr 2022, dal titolo Jewish and Christian Marriages. Rituals, Rights, Interrelations (15th – 17th Centuries, Papal States). Ospite illustre della seconda giornata è stata invece Tamar Herzog, docente presso la Harvard University, la quale ha esordito con un intervento dal titolo Enslaved as Outsiders, Enslaved as Property: Understanding Slavery in a Global and Early Modern Context, per poi contribuire, insieme alle professoresse Beatrice del Bo e Alice Blythe Raviola (Università degli Studi di Milano), alla presentazione del volume I confini della salvezza. Schiavitù, conversione e libertà nella Roma di età moderna (Viella 2022), pubblicato dalla professoressa Serena Di Nepi, docente presso l’Università di Roma Sapienza.
Ad introdurre il primo pomeriggio di lavori è stato il professor Germano Maifreda (Università degli Studi di Milano), organizzatore del ciclo di incontri e coordinatore di uno dei tre progetti presentati mercoledì 7 febbraio. «L’idea del seminario – ha spiegato Maifreda – è quella di aggiornare su nuove specie di ricerca concernenti il tema delle minoranze tra medioevo ed età moderna, in Italia e sulla scena globale». L’intento che sottende ai tre gruppi di ricerca non è dunque quello di svolgere una storia delle minoranze, isolata e da specialisti, bensì quello di integrare la storia di una minoranza, non necessariamente studiata da esponenti del medesimo gruppo minoritario, con la storia generale e nazionale, dimostrando come la prima possa rivelarsi una risorsa imprescindibile per gli sviluppi della seconda. «Penso che tutti noi siamo d’accordo sul fatto che sia ora di trasgredire questi confini epistemologici e teorici che quasi sempre non sono altro che steccati accademici. Del resto – ha continuato Maifreda – io stesso ho iniziato a studiare l’Inquisizione su impulso di Elena Brambilla, che lamentava l’assenza del contributo di uno storico dell’economia all’oggetto di studio».
Nel presentare il primo Prin 2022 della giornata, dal titolo Spatializing Jews and the Economy. Towards A Digital and Dynamic Atlas: People, Business, Artifacts in Global Italy (14th-20th centuries), centrato sulle due unità di Milano Statale e Roma Sapienza, Maifreda ha illustrato le tre anime del progetto: un’anima medievistica, diretta da Beatrice del Bo in collaborazione con l’assegnista di ricerca Luca Campisi e con la professoressa Daniela Preite (Università degli Studi di Milano), si propone di indagare mobilità, presenze e oggetti di ebrei ed ebree in età medievale, tra Lombardia e Piemonte, a partire dalla rivalutazione della documentazione esistente. Segue un’unità modernistica diretta da Serena Di Nepi, che intende concentrarsi sulla circolazione di opere d’arte nella dimensione dello Stato Pontificio e dell’Italia centrale. Infine l’anima contemporaneistica del progetto, diretta da Maifreda coadiuvato da Gianluca Podestà, dal professor Fantacci (Università degli Studi di Milano) e dall’assegnista di ricerca Carla Cioglia, ambisce a investigare gli oggetti, gli stanziamenti e la circolazione delle persone attraverso i fascicoli di conquista dei beni ebraici operati soprattutto in Lombardia dall’Egeli (Ente di Gestione e Liquidazione immobiliare). Questo ente, in collaborazione con alcune banche, ha censito e confiscato i beni considerati di proprietà ebraica.
Questo Prin 2022, che riconosce come predecessore il Prin 2015 The long history of anti-semitism, «mira a rinnovare un approccio storiografico nella storia sociale, economica e politica degli ebrei d’Italia, per creare uno strumento digitale open access, un atlas che è un manufatto ma anche paradigma di un approccio teorico nuovo alle digital humanities incentrato sulla spazialità», ha spiegato Maifreda.
Proprio sul tema della spazialità ha insistito Germano Maifreda: «L’approccio spaziale può aiutarci a riconfigurare i fenomeni storici che riguardano gli ebrei, nonché i rapporti tra ebrei e non ebrei nell’Italia globale, al di là degli eccezionalismi teorici e localistici». La proposta si articola attorno a tre elementi innovativi: una “spazialità legata alle relazioni”, che recuperi la celebre categoria di “Stato ebraico senza Stato”, elaborata dallo storico Daniele Luzzatti per parlare della mobilità degli ebrei e delle loro relazioni personali e sociali nella penisola. Una spazialità che tenga conto della salvaguardia della “distintività” della minoranza ebraica nella propria coabitazione con altre sub-culture ebraiche e con le “maggioranze”. Infine una “spazializzazione storica”, che ci rammenti come la minoranza ebraica, per ragioni storiche, sia stata “spostata”, ossia espulsa (è il caso di Milano, Napoli e di altre capitali moderne nella penisola) e quindi re-insediata in appositi spazi (il “ghetto”, la “zona di residenza”). «L’ebraismo, specie nella sua peculiarità italiana, può e deve essere studiato come un processo, non come una fissità».
Come coniugare lo statuto della disciplina della jewish history con le riflessioni metodologiche che più recentemente hanno interessato la storia economica? Ecco un altro interrogativo cui Maifreda ha cercato di rispondere. Ancora a fine XX secolo, un grande economista neoclassico del calibro di Kenneth Arrow, ebbe a dire che le minoranze sono un oggetto troppo ostico per gli studiosi di economia, a causa degli interrogativi, difficilmente esauribili con teorie economiche, che essi sollevano: perché ci sono segmenti di mercato in cui le minoranze si specializzano? Perché esse si concentrano in zone particolari di una città, dai ghetti ai “quartieri corporativi” alle “aree etnicamente specializzate”?
Tuttavia, negli ultimi anni, l’ethinc economy è stata affrontata in maniera originale ed empirica, pur tenendo ferma la definizione weberiana della minoranza come gruppo la cui posizione nella società è svantaggiata in termini di status, ricchezza, prestigio. Gli economisti hanno iniziato a dialogare con sociologi, esperti di migrazioni, storici e psicologi, irrorando la concettualizzazione teorica dell’economia, ora sempre più improntata verso il paradigma neo istituzionalista. Tre indicazioni generali emergono da questa nuova letteratura che mira ad analizzare l’ethnic economy come oggetto di indagine in sé, sopra i contesti spaziali locali, cercando di spiegarla e misurarla. In primo luogo, molto successo ha riscosso lo studio delle minoranze come forme organizzative, ossia come meccanismi che uniscono un gruppo i cui appartenenti si riconoscono attraverso un insieme di qualità auto-percepite o attribuite dalla società: questo approccio consente di capire come una o più minoranze possano fungere da strumento di crescita economica e di sviluppo politico, contribuendo ad una diversa o migliore allocazione delle risorse economiche. In altri termini, in un contesto, come quello moderno, di lassità delle istituzioni, le minoranze fanno da collante in un mercato che, in assenza di diritto internazionale e commerciale, tende a sgretolarsi, creando norme e regole nuove che contribuiscono allo sviluppo della civiltà. Un altro oggetto di ricerca privilegiato della ethnic economy è quello delle “dotazioni iniziali”, ossia le risorse sociali, politiche e culturali che orientano il comportamento delle minoranze. Un ultimo aspetto significativo che emerge da un’analisi economica dell’attività delle minoranze è senza dubbio l’ethnic capital: il capitale etnico è un capitale indivisibile, che si forma dentro una minoranza ma non appartiene ai singoli individui, bensì a tutto il gruppo minoritario (informazioni, lingua, istituzioni giuridiche, tribunali, strumenti comunitari di tutela del prestigio del gruppo).
Federica Brambilla, già docente di archivista informatica e digital humanities presso l’Università degli Studi di Milano e responsabile dell’archivio informatico di Banca Intesa San Paolo, è stata introdotta da Maifreda per illustrare nel dettaglio la componente più squisitamente informatica del Prin. Brambilla ha utilizzato il caso del fondo Egeli, che contiene le carte relative alle confische fatte dalle filiali di banche italiane su tutto il territorio nazionale agli ebrei dopo la promulgazione delle leggi razziali nel 1938, per sottoporre all’attenzione dell’uditorio una innovazione metodologica. Gli archivisti di Intesa hanno infatti raccolto i dati desunti da queste carte e li hanno pubblicati con la tecnologia del linked open data, che permette di fare una valutazione aggregata di dati che altrimenti lo storico realizzerebbe in anni di lavoro, servendosi di inventari cartacei forniti dall’archivio. «Oggi gli archivisti di Intesa hanno raccolto dati nella modalità open access per garantire una fruizione, anche da remoto, migliore per l’utenza, che non si limita a trovare quel dato, ma ha accesso libero anche a tutte le informazioni collegate nel patrimonio di Intesa» – ha spiegato. L’adozione della tecnologia dei “Lod” si rivela dunque vitale per un progetto, come quello del Prin, che si estenda dal Medioevo al XX secolo in tutta Italia, dovendo tener insieme dati relativi a relazioni interpersonali come matrimoni, confische, produzione di manufatti.
Il secondo progetto Prin 2022, dal titolo Visualizing Jewish Cultural Heritage. Toward a Digital and Dynamic Atlas: People, Artifacts, Books and Manuscripts in Global Italy (15th-20thCenturies), è stato presentato daAlessandra Veronese (Università di Pisa), in assenza del professor Saverio Campanini (Alma Mater Studiorum Università di Bologna). La professoressa, che dirige l’unità pisana del progetto, ha sottolineato l’importanza degli studi ebraici per le discipline umanistiche: «L’Italia è uno dei paesi al mondo con la presenza ebraica più antica (sebbene la comunità ebraica in Italia non abbia mai superato le 50.000 unità) e circa il 70% dei beni ebraici nel mondo sono in Italia; cionondimeno, non esiste un dipartimento nazionale di jews studies». Il progetto, che vede il contributo di storici sociali, economici, delle idee ed ebraisti puri provenienti da tre università diverse, si rifà ad una prospettiva globale, sebbene analizzi fenomeni locali: «I ricercatori coinvolti cercano di tenere in conto “la lunga storia degli ebrei in Italia”, intersecando storia, cultura sociale, dei manoscritti e degli ebrei in contesti spaziali ben specifici». Anche gli esiti di questo progetto andranno a confluire, come accadrà per gli altri Prin, nell’atlante digitale sopra menzionato, per “aiutare la divulgazione dell’importanza del mondo ebraico in Italia”.
Fernanda Alfieri (Alma Mater Studiorum Università di Bologna), coordinatrice, insieme a Serena Di Nepi, del progetto Prin Pnrr 2022, dal titolo Jewish and Christian Marriages. Rituals, Rights, Interrelations (15th-17thCenturies, Papal States), è intervenuta nel merito della presentazione dell’ultimo progetto di ricerca della mattinata. «L’impianto del progetto è comparativo e l’area geografica indagata è quella dello Stato Pontificio, segnatamente Roma e Bologna, nonché centri minori quali Imola e Ravenna: queste erano tutte sedi di istituzioni deputate alla giurisdizione matrimoniale, nonché luoghi di residenza dei soggetti coinvolti nel momento in cui le fonti ne intercettano la presenza». L’arco cronologico che il progetto ambisce ad osservare è il XVI secolo, pre e post-tridentino, con alcune determinanti cesure: il decreto Tamezi (1563), la bolla Cum nimis absurdum (1555) con la creazione dei ghetti nelle città di Bologna, Roma e in seguito Ferrara ed infine il 1569, anno dell’espulsione degli ebrei da Bologna. Il progetto mira a relativizzare una normatività universale, ma soltanto presunta tra Trento e Roma in materia matrimoniale e nell’ambito di una storia della sessualità, provincializzando le medesime nello spazio e nel tempo e mettendo in discussione la categoria storiografica del “disciplinamento” quale strumento di costruzione dello Stato moderno.
A chiusura della prima giornata di incontro, Di Nepi ha puntualizzato nuovamente l’obiettivo sotteso a questi progetti di ricerca: «relativizzare la specificità ebraica, pur mantenendo ferma l’attenzione sulla sua specificità». Riflettendo sull’evoluzione dei jew studies a livello internazionale e nazionale, la professoressa ha individuato “un’occasione mancata” nei due volumi Einaudi “Storia degli ebrei in Italia” (1992) che, seppur abbia rappresentato una svolta per il panorama storiografico italiano, non ha comunque attinto a fonti in ebraico, «con il risultato paradossale per cui, mentre il tema riassumeva una centralità nel panorama storiografico italiano, si trovava escluso dalle discussioni della storiografia internazionale. Proprio su questo i tre Prin presentati oggi si trovano ad intervenire». Ma vale proprio la pena occuparsi di storia ebraica? «La storia ebraica, fatta nel rispetto del suo peculiare statuto disciplinare e nel dialogo con la discussione internazionale, va fatta perché non si tratta meramente di una “ancilla” alla “grande storia”, bensì di uno strumento utilissimo per riconfigurare risposte e domande storiografiche attuali», ha chiosato Di Nepi.
Ad inaugurare i lavori della seconda giornata è stato, ancora una volta, Germano Maifreda, che ha avuto l’onore di presentare Tamar Herzog, già docente presso la Stanford University , l’Università di Chicago e l’Università Autonoma di Madrid e attualmente professoressa presso la Harvard University. Studiosa di diritto e storica di formazione, si occupa di storia europea della prima età moderna, storia coloniale dell’America Latina, storia imperiale, storia atlantica e storia giuridica. Il seminario dal titolo Enslaved as Outsiders, Enslaved as Property: Understanding Slavery in a Global and Early Modern Context, ha proposto un’analisi di ampio respiro sul tema della schiavitù che miri a rinnovare un paradigma storiografico ormai cristallizzato nel mondo atlantico (circa l’80% degli studi sul tema sono stati prodotti negli Usa, secondo Harzog), a porre in discussione una «storia di “a-contestualizzazione”, atta a creare un modello “americano” di schiavitù, esportato in tutto il mondo».
Tamar Herzog ha sottolineato come «la schiavitù è fatta di singole pratiche diverse nel tempo e nello spazio, che noi unifichiamo sotto questa etichetta». Tra i tratti salienti e comuni alle pratiche di enslavement, Herzog ha ricordato una «disparità di potere tra chi schiavizza e chi viene schiavizzato», l’importanza dell’utilità (a livello economico, riproduttivo, simbolico, religioso, militare) come movente del processo di riduzione in schiavitù e infine l’otherness, ossia la percezione dello schiavo come corpo estraneo alla società – eloquente a tal proposito è il caso degli schiavi nella Roma antica, privati dell’appartenenza alla comunità e alla famiglia.
Il rapporto tra schiavo e padrone era dunque indirizzato nel senso unico dell’esclusione? Rispondendo a questo interrogativo, Herzog ha invitato a concepire il processo di enslavement come strumento di integrazione e paradigma di mobilità sociale. «Molti gruppi indigeni, prima dell’arrivo degli europei, concepivano la schiavitù come mezzo per reclutare forza lavoro straniera, più che per escludere i nuovi venuti: è il caso del nord America, in cui i prigionieri di guerra venivano assorbiti nella comunità per sostituire i defunti, di cui l’ex-schiavo spesso acquisiva nome, proprietà e relazioni famigliari. In Africa, invece, le donne straniere venivano ridotte in schiavitù per partecipare allo sforzo riproduttivo della comunità».
È stato illustrato da Herzog, nel caso dei figli nati da madri schiave e da padri liberi, che i meccanismi di social exchange e il paradigm of insiding hanno informato di sé il fenomeno della schiavitù nel mondo coloniale anche sotto il dominio europeo: «Nella prima età moderna la prassi era quella di considerare liberi, una volta riconosciuti dal padre, i figli di una donna schiava». A Valencia, ad esempio, i bambini nati da una relazione con una schiava venivano separati dalla madre (il cui destino spesso variava tra l’ottenimento della libertà e la vendita in un mercato lontano), cresciuti da liberi e considerati “eredi di riserva”. Il caso di Valencia, ha ricordato Herzog, ha avuto echi nelle colonie europee, come a São Tomé e Príncipe e nelle Bahamas – in cui questa pratica potrebbe aver rappresentato una strategia per mantenere la crescita demografica del gruppo dominante nelle colonie – fino al XIX secolo, quando i figli di donna schiava smisero di essere legalmente considerati schiavi, anche se il padre non li riconosceva.
Secondo la docente di Harvard, la mancanza di interesse sulla pratica dell’insiding nella letteratura concernente la schiavitù può essere ricondotta alla storiografia statunitense, secondo cui gli schiavi erano oggetti di proprietà della famiglia, non inseribili in quanto individui nella società: «In antico regime, così come avveniva nella Roma antica, servi e schiavi erano sotto la giurisdizione del pater familias, ossia il vertice dell’household. A lui servants e slaves vendono, seppur con qualche differenza, lavoro e libertà, abdicando al diritto di avere una volontà autonoma». Questo retroterra giuridico, che Herzog ha sapientemente illustrato attingendo ai propri studi di storia del diritto, rinvia alla categoria, tipica del common law britannico, di chattel, che include i beni mobili, i diritti dei padroni sulle “proprietà intangibili” e, quindi, anche gli schiavi. «È opportuno concludere – ha spiegato Herzog – che né gli schiavi, né tantomeno i servi, fossero meri oggetti di proprietà, bensì che fossero individui i quali, privati di tutti i diritti di proprietà, erano sottoposti al lavoro coercitivo e alla giurisdizione di un padrone. Le difficoltà incontrate dagli schiavi nel processo di integrazione in società non devono dunque essere ricondotte ad altro se non a questa assenza di diritti di proprietà».
A chiudere i lavori del secondo giorno, Beatrice del Bo ha presentato il libro di Di Nepi, I confini della salvezza. Schiavitù, conversione e libertà nella Roma di età moderna (Viella 2022), che ha definito “un libro molto ben scritto”: «Il libro-mondo di Serena prende avvio da una prospettiva centrale che da Roma, caput mundi, si estende a tutto il Mediterraneo. Vengono presentati circa un migliaio di schiavi per parlare non tanto del fenomeno della schiavitù in sé, bensì di azione politica, di “sperimentazione di pratiche di governo dell’alterità”. È un libro in cui potreste trovare spiegazioni, suggerimenti, suggestioni, per tutti i temi delle vostre ricerche».
Intervenendo ad arricchire il commento al volume presentato, Herzog ha sottolineato la peculiarità dell’oggetto preso in considerazione: «Nel suo libro Serena Di Nepi descrive come, nel periodo tra il 1516 ed il 1787, le autorità romane concessero a circa un migliaio di schiavi la libertà e la cittadinanza. La maggior parte degli individui che beneficiavano di queste procedure erano mussulmani (75%) e provenienti dalla penisola iberica (50%), che non si facevano scrupoli a dichiararsi convertiti al cattolicesimo». Molto nebulose rimangono tuttavia le motivazioni che spingevano gli schiavi “sedicenti convertiti” a chiedere la manomissione, così come poco chiare restano le reazioni dei precedenti proprietari.
Se le implicazioni di una rinnovata libertà erano in qualche misura determinate, ciò che implicava la loro cittadinanza era molto meno ovvio: nella maggior parte dei casi, si trattava di una integrazione soltanto teorica e quantomeno parziale nel tessuto sociale della città. Attingendo alle proprie competenze nell’ambito della storia del diritto, Herzog si è mossa tra antichità ed età moderna per confermare l’indissolubilità del binomio libertà-cittadinanza. In primo luogo, la libertà è un requisito indispensabile alla concessione della cittadinanza (e non una sua conseguenza) già nell’editto di Caracalla (212 d.C.) che estese oneri e diritti del cittadino a tutti gli abitanti delle province dell’impero romano. In secondo luogo, Herzog ha sottolineato come ancora la Costituzione di Cadice (1812), prodotta nella Spagna che resisteva all’invasione napoleonica, confermasse il binomio cittadinanza-libertà (art. 5) recuperando, come nella vicenda narrata in questo volume, un aspetto di “esclusività religiosa” – l’art. 12 infatti proclama il cattolicesimo romano religione di Stato, obbligando indirettamente ogni ex-schiavo, ormai cittadino, a convertirsi al cattolicesimo.
Secondo Tamar Herzog, il volume di Di Nepi dimostra come il motivo di questa procedura eccezionale fosse eminentemente politico, nonostante abbia raggiunto un numero modesto di persone: proponendosi come unico luogo di redenzione assoluta in un panorama dilaniato dalla competizione religiosa (inedita nel caso delle emergenti chiese riformate, rinnovata nei confronti del mondo islamico), Roma mirava a riaffermare il proprio prestigio e la propria autorità incontrastabile nel dirigere il “progetto di salvezza universale”.
«Anche Giovanni Botero, citato nella conclusione del volume, ha mostrato una forte impostazione ideologica in materia di schiavitù, specialmente nelle sue Relazioni Universali», ha spiegato Alice Blythe Raviola, inserendosi nel commento al libro di Di Nepi. Docente di storia moderna presso l’Università degli Studi di Milano e fine conoscitrice dell’ex-gesuita, Alice Raviola ha sottolineato come Botero abbia indirizzato il suo sguardo, sempre attento a questioni di carattere economico e, per usare un anacronismo, “geopolitico”, alle carte degli archivi del suo Ordine per trarne resoconti appassionati e indignati delle condizioni materiali e spirituali in cui versavano gli schiavi cristiani nei territori islamici. Per far fronte a questa minaccia alla cristianità così efficacemente descritta da Botero, sorsero negli anni delle “compagnie del riscatto”, sovente finanziate dai medesimi schiavi.
Ringraziando per i preziosi commenti delle colleghe, Di Nepi ha concluso la presentazione del proprio volume rilanciando la domanda di ricerca che ha animato questo ciclo di incontri: «Abbiamo fino ad oggi tenuto parcellizzati e separati alcuni campi di indagine e alcune metodologie […]; dovremmo invece studiare la storia dei diversi, osservare come proprio loro si pongono nel mantenimento della loro differenza rispetto a delle maggioranze che li vorrebbero omologare. Del resto, può una società che ha bisogno di darsi un senso stare senza i diversi?»
Luca Valeri