Nell’ambito delle celebrazioni del Centenario della fondazione dell’Università degli Studi di Milano, il 20 e 21 settembre 2024 si è svolto il convegno Per una storia dei primi cento anni dell’Università Statale, organizzato dal Dipartimento di Studi Storici. Nel corso di quattro sessioni di lavoro, le relatrici e i relatori hanno ripercorso la storia dell’ateneo dalla nascita sino al nuovo millennio, seguendo un comune filo rosso: la storicizzazione dell’istituzione universitaria, necessariamente legata, nella sua evoluzione, ai vari contesti politici, tanto nazionali quanto locali.
L’incontro si è aperto con i saluti istituzionali del rettore uscente Elio Franzini, il quale ha evidenziato come il convegno costituisse la degna conclusione del Centenario della Statale (aperto dal volume di Decleva Milano, città universitaria),in grado di sintetizzare in modo compiuto e scientifico le tappe fondamentali della sua storia. Nel domandarsi quale fisionomia potrebbe assumere l’ateneo nei prossimi cento anni, Franzini ha espresso fiducia ed entusiasmo per i futuri atti del convegno, destinati a diventare, a loro volta, parte integrante dei lavori storiografici sull’Università. La funzione costruttiva del Centenario è stata ribadita anche dal professore Andrea Gamberini, direttore del Dipartimento di Studi storici. Centenario che non deve però essere concepito come una miope autocelebrazione, né una mera storia dei saperi insegnati nell’ateneo. In quest’ottica, Gamberini ha dato una valutazione positiva dell’iniziativa, che si è proposta, grazie all’utilizzo di numerose fonti, di affrontare i momenti più complessi della storia di Unimi: il legame con il fascismo, dalla sua fondazione sino al termine del secondo conflitto mondiale, l’epurazione, il Sessantotto, l’istruzione di massa, l’ostacolata presenza femminile. Per discutere queste tematiche, complesse ma irrinunciabili, è necessario adottare prospettive talvolta scomode e fare i conti con il proprio passato.
Sessione I – Fondazione ed epoca fascista
In questo spirito si è aperta la prima sessione, presieduta dalla professoressa Emanuela Scarpellini e dedicata all’epoca fascista. La fondazione della Statale, in riferimento al più ampio contesto milanese e nazionale, è stata al centro dell’intervento inaugurale del professor Mauro Moretti, specializzato in storia dell’università. La sua analisi ha illustrato la nascita di Unimi, vista nei suoi aspetti di lungo periodo, in relazione ad altri atenei italiani e, soprattutto, alla riforma Gentile dell’istruzione del 1923. Il provvedimento, definito la prima radicale trasformazione dell’assetto accademico nell’Italia unita, prevedeva la suddivisione delle università in due fasce (in aggiunta a quelle libere), distinte in base al rapporto finanziario con lo Stato e dunque ai fondi che ricevevano. Il suo assetto autoritario si esplicò nella scelta di Gentile di appoggiarsi molto ai fondi locali, creando disparità significative nel sistema, e nella sua ostilità all’apertura di nuovi atenei. Tuttavia, lasciò alle università la prerogativa di darsi uno statuto, garantendo loro un certo margine di autonomia. La Statale fu tra i molti atenei nati negli anni successivi alla riforma (contro gli auspici di Gentile) e, insieme all’Università di Firenze, ebbe una storia peculiare rispetto al quadro nazionale. Entrambe le città vissero, infatti, un percorso di trasformazione all’insegna della gradualità, in un contesto generale contraddistinto, sotto il fascismo, dalla volontà di dare una svolta nazionalista alle università e di confrontarsi con i modelli esteri.
Ha poi preso la parola la professoressa Michela Minesso, professoressa di Storia delle istituzioni politiche. Nella sua relazione Minesso ha affrontato la tematica della storia delle docenti donne all’Università degli Studi, con un taglio biografico e focalizzato sulla loro progressione di carriera, sino ai livelli apicali. La riflessione ha preso le mosse dalla figura di Cesarina Monti, prima in tutta Italia. Il suo percorso, per quanto contraddistinto da questa eccezionalità, sotto molti aspetti è paradigmatico di una più ampia storia, quella delle professoresse dell’ateneo. Ancora poco nota, è meritevole di essere portata alla luce con particolare interesse, ma non per questo separata dalla storia dei saperi nel suo complesso. Monti, donna dell’Ottocento e studiosa di scienze naturali, prima di giungere a Milano divenne ordinaria a Sassari, nel 1911, in un momento storico in cui si facevano strada le rivendicazioni femministe. In un contesto ancora ostile all’accesso femminile al lavoro e allo studio, Monti poté contare, oltre alle qualità personali che spinsero Mangiagalli a contattarla personalmente, sul fatto che la legge Casati del 1859 non proibisse esplicitamente alle donne di entrare in università. Malgrado ciò, la sua ascesa ad ordinaria rimase un evento eccezionale, in Statale, per quasi un ventennio: solo nel 1942 l’ateneo vide la matematica Maria Pastori raggiungere il medesimo traguardo; quando divenne ordinaria la storica dell’arte Anna Maria Brizio, terza nella storia di Unimi, quasi un altro quindicennio era trascorso. A partire dalle vicende di queste prime carriere apicali, notevoli ma isolate, Minesso ha sviluppato la propria riflessione conclusiva, riportando all’attenzione l’intreccio della storia delle donne in università con la storia dei saperi: non è un caso che le docenti, e soprattutto le prime due ordinarie, fossero scienziate. Per lungo tempo le materie umanistiche rimasero esclusivo appannaggio maschile, secondo una concezione che le riteneva più astratte e complesse.
Con il successivo intervento della professoressa Irene Piazzoni, il centro del discorso si è spostato sul «fronte editoriale dei professori tra fascismo e guerra», prendendo in esame il complesso rapporto fra i docenti della Statale e la sfera politica, attraverso lo studio degli sbocchi editoriali del loro lavoro. La relatrice, esperta di storia dei mass media e del giornalismo, nonché autrice del volume Il Novecento dei libri: una storia dell’editoria in Italia, ha aperto il proprio contributo constatando la presenza quasi necessaria di risvolti politici del lavoro accademico e di ricerca, in alcuni ambiti più che in altri. A Milano la politicizzazione dei saperi investiva soprattutto la geografia, la storia romana e la storia del Risorgimento (non a caso, utili alla costruzione della nuova identità fascista voluta dal regime). Esempi come De Magistris, l’antichista Lanzani, Monti e Gallavresi, storici del Risorgimento, sono rappresentativi dell’adeguamento di molti studiosi alle istanze politiche del fascismo, che vedevano in questi ambiti un mezzo di propaganda coloniale e di ridefinizione dell’identità nazionale. Nondimeno, la Statale fu culla di contributi più autonomi e l’interesse per queste materie costituì anche un’opportunità di arricchimento e vivacità intellettuale. Dal punto di vista editoriale, ciò significò maggiore attenzione agli aspetti divulgativi del lavoro di ricerca e alla completezza dei cataloghi scolastici, come nel caso dello storico dell’arte Paolo D’Ancona. Oppure la ricerca di una “zona franca” dalla politica, come per Vincenzo Errante, traduttore, e parzialmente per il filosofo Antonio Banfi, che fece uso del canale editoriale per diffondere un pensiero che si discostava tanto da Croce quanto da Gentile. Il quadro d’insieme delineato da Piazzoni non è, nonostante i tempi, statico, né del tutto omologato. Le collaborazioni editoriali dei docenti di Unimi in epoca fascista furono in ottica sostanzialmente laica, aperta agli influssi stranieri e sospesa fra tendenze modernizzatrici e la permanenza del positivismo e dello storicismo, movimenti filosofico-culturali ormai in declino, ma ancora influenti.
A concludere la prima sessione è stato il professor Emanuele Edallo, il quale ha effettuato, tematica già esplorata nel suo recente volume Il razzismo in cattedra: l’Università di Milano e la persecuzione degli ebrei (1938-1945), una relazione sui professori e sui lavoratori della Statale «cacciati perché ebrei». Il settore dell’istruzione vedeva una presenza ebraica cospicua ed era fondamentale per plasmare le coscienze secondo gli ideali del fascismo. Fu, quindi, duramente colpito dalle leggi razziali del 1938, complice il ruolo di spicco svolto dal ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai. Nell’autunno del 1938, gli ebrei, insegnanti e studenti, furono ufficialmente esclusi dalle scuole di ogni ordine e grado, con l’unica eccezione degli studenti universitari in corso. Con la Dichiarazione sulla razza dell’ottobre 1938, il regime diede una definizione ufficiale (e purtroppo ampia) dell’espressione “razza ebraica”. In questo quadro, l’Università Statale fornì al Ministero un censimento degli insegnanti e degli studenti ebrei cacciati all’inizio dell’anno accademico; tra i docenti non mancavano intellettuali di spicco. Edallo si è soffermato su due questioni: il loro posizionamento politico e il rapporto con l’identità ebraica, variabili che influirono ben poco sull’effetto di provvedimenti trasversalmente discriminatori. Furono espulsi allo stesso modo i “non allineati” al regime e chi aveva messo la propria conoscenza al suo servizio, i praticanti convinti dell’ebraismo e le persone, invece, che rifiutavano ogni credo religioso. Ad accomunarli fu, nella maggioranza dei casi, la scelta di restare in Italia; questo, però, non fu garanzia di un facile reinserimento in Statale alla fine della guerra. Infatti, i decreti legislativi, promulgati tra il 1944 e il 1946, privilegiarono soprattutto la stabilità e la continuità dell’istituzione universitaria, costringendo molti docenti al rientro in ateneo in sovrannumero o a trasferirsi. Anche la Statale cercò di reintegrare il corpo docente, ma mancò della volontà di fare i conti con il passato, lasciato il più possibile in ombra.
Sessione II – Continuità e discontinuità tra guerra e dopoguerra
Presieduta dal professore Marco Soresina, la sessione successiva sulle continuità e discontinuità tra il periodo bellico e l’immediato dopoguerra si è aperta con il contributo del professor Marco Cuzzi, dedicato a «Resistenza, sopravvivenza e ambiguità». Il biennio 1943-1945 è stata la cornice all’interno della quale si sono inserite le considerazioni di Cuzzi, forte dei suoi studi su fascismo e neofascismo, tra cui un volume dedicato alla vita sotto la Repubblica di Salò. Centrale nella sua relazione è stata la figura del rettore della Statale Giuseppe Menotti De Francesco, il cui incarico coincise con i seicento giorni di occupazione nazifascista di Milano. Fascista piuttosto convinto, De Francesco insegnava, prima di ricoprire tale ruolo, Diritto costituzionale e amministrativo. In quanto monarchico, l’esperienza di Salò e il recupero delle idee repubblicane del fascismo delle origini lo allontanarono dal regime; tuttavia, ciò non lo distolse dalla posizione istituzionale occupata. La sua politica fu di ambiguo attesismo: pur mantenendo una pragmatica vicinanza alla RSI, non nascose le sue perplessità verso le debolezze di questa, come attestato dalle sue memorie, e le normative universitarie da lui implementate confermano quest’atteggiamento. Nel discorso di apertura dell’anno 1944-1945, per esempio, parlò genericamente di ricostruzione, senza citare né l’occupazione, né la RSI.
Fu tollerata, per un po’, anche la docenza di un antifascista come Chabod, poi inevitabilmente sostituito da un ex ministro fedele al fascismo. Sotto il suo timido collaborazionismo, i gruppi universitari politicizzati (tanto fascisti quanto della Resistenza), furono del tutto minoritari nell’ateneo, dove prevaleva un clima di normalizzazione e disimpegno. Tant’è che l’ultimo Senato accademico si svolse proprio la mattina del 25 aprile 1945, secondo le modalità ormai consuete della vita universitaria che De Francesco aveva promosso. Pur inquadrata nella RSI, la Statale aveva vissuto l’occupazione con parziale autonomia, privilegiando la continuità didattica sul posizionamento politico.
Le immediate conseguenze dell’azione di De Francesco e il difficile tema dell’epurazione hanno costituito il fulcro del successivo intervento del professor Pompeo Leonardo D’Alessandro. Autore di un volume sul Tribunale speciale per la difesa dello Stato, D’Alessandro è partito dal presupposto che i ceti amministrativi (inclusi quelli universitari) tendano a una maggiore continuità con il passato rispetto alla politica, anche nei momenti storici di svolta. È, quindi, necessario indagare le cause di queste persistenze, anziché limitarsi a parlare di una mancata epurazione dopo la defascistizzazione. Anche alla luce di nuovi documenti, si può e si deve delineare un quadro più complesso e sfumato, che le nuove interpretazioni preferiscono chiamare «difficile transizione» o «continuità necessaria». Questi chiaroscuri coinvolgono il caso della Statale, che D’Alessandro legge alla luce di dinamiche di lungo periodo. Innanzitutto, il proficuo rapporto che la stessa ebbe con il regime, da Mangiagalli a De Francesco. La parabola personale di quest’ultimo è rappresentativa delle contraddizioni che segnano la questione. La volontà, da parte della Commissione per l’epurazione, di espellere dall’università i collusi con il fascismo era forte, ma dovette scontrarsi con una tendenza locale all’autoassoluzione e con la volontà di privilegiare la continuità istituzionale in un momento di crisi. De Francesco, infatti, non fu sospeso dalla Commissione, che riconobbe la sua «equanimità»; anzi, fu rieletto a rettore con grande sostegno del corpo docente (anche se rinunciò all’incarico). Inoltre, delle 25 sospensioni dirette a insegnanti di ogni grado, 10 furono immediatamente ritirate e altri 14 docenti furono reintegrati in seguito al giudizio della Commissione. A loro favore giocarono sia le pressioni del rettore sul Ministero, sia un generale processo di depoliticizzazione dell’epurazione, che allentò la severità delle Commissioni ministeriali. La normalizzazione dell’attività didattica in Statale fu frutto, quindi, tanto della necessità di assicurare stabilità, quanto di una complessiva autoindulgenza, ma, ha concluso D’Alessandro, ciò non significa l’assenza di impegno da parte dei docenti nel dissociarsi dal passato. Una via d’uscita rassicurante e, per certi versi, onorevole.
L’intervento del professor Stefano Twardzik, docente di Archivistica, si è, invece, focalizzato sulle vicende del Consorzio per l’assetto degli istituti di istruzione superiore a Milano, organismo fondato nel 1913 attraverso la convenzione sottoscritta dal Comune, dalla Camera di Commercio e dalla Provincia, con l’intento di «provvedere […] alla costruzione e all’assetto edilizio di nuovi edifici per gli istituti superiori» della città. Questo organismo non deve essere confuso con il Consorzio degli Istituti d’istruzione superiore cittadino, creato nel 1875 su impulso di Francesco Brioschi, con la finalità di coordinare l’attività didattica e le risorse finanziarie degli istituti superiori universitari milanesi.
Dopo la stipula della convenzione, nel 1915 il Consorzio presentò al Comune i progetti esecutivi degli edifici destinati agli istituti universitari milanesi, ovvero l’Istituto tecnico-superiore, l’Accademia di Belle Arti, l’Accademia Scientifico-Letteraria, la Scuola superiore di Agricoltura, la Scuola superiore di medicina veterinaria, l’Osservatorio astronomico di Brera, gli Istituti clinici di perfezionamento (fondati da Luigi Mangiagalli) e l’Orto botanico. I progetti degli edifici della Regia Università furono completati solamente nel 1926-1927, in seguito a ripensamenti, variazioni apportate ai progetti e agli alti tassi di inflazione registrati nel periodo bellico e post-bellico. A causa delle lacune nella documentazione tecnica presente nell’Archivio del Consorzio, non è possibile comprendere appieno lo sviluppo delle varie fasi progettuali.
I primi passi mossi dalla Statale sono stati oggetto dell’intervento della professoressa Gigliola Di Renzo Villata, la quale ha evidenziato come le premesse, specialmente finanziarie, della fondazione dell’ateneo non fossero le più rosee. Di Renzo Villata ha sottolineato, inoltre, l’interesse del ministro della Pubblica istruzione Alessandro Casati per la creazione di una università e il grande, nonché decisivo, contributo fornito da Mangiagalli nel sensibilizzare la popolazione milanese, affinché sottoscrivesse delle donazioni per il progetto. Tutta la cittadinanza fu coinvolta: privati, enti finanziari, imprenditori, avvocati. Si poteva, dunque, guardare con fiducia alla nuova realtà universitaria grazie alla mobilitazione ad ampio raggio di Mangiagalli.
Nelle convenzioni stipulate e nei successivi atti si prefigurò un solido apparato di governo dell’ateneo, composto dal rettore, dal Collegio dei professori, dal Collegio dei clinici e da altri organismi. La riunione inaugurale del Consiglio di amministrazione ebbe luogo il 18 maggio 1925; all’adunanza parteciparono due privati, Adelina De Marchi e Piero Puricelli. L’organismo si occupava della stesura del bilancio provvisorio e definitivo, della diposizione delle nomine degli organici, degli aumenti di stipendio e dei problemi edilizi. I suoi membri erano designati dal Consiglio dei presidi e dal Collegio docenti.
Accanto a esso fu creata la Giunta esecutiva (1926), un organo ristretto che discuteva delle materie di competenza del Cda e si occupava dei procedimenti disciplinari. Al Senato accademico, invece, spettava il compito di redigere lo statuto dell’Università, approvato nel 1926.
Sessione III – Dagli anni Sessanta al nuovo millennio, tra svolte e persistenze
Nella terza sessione congressuale, presieduta dalla professoressa Daniela Saresella, l’attenzione dei relatori si è focalizzata sul ruolo dell’Università Statale di Milano a partire dagli anni Sessanta, evidenziando i momenti di svolta e di continuità di un ateneo che dovette confrontarsi con importanti cambiamenti sociali.
Alla base del contributo del professor Massimo Baioni c’è stata l’idea di verificare se la Statale avesse partecipato ai festeggiamenti del Centenario dell’Unità nazionale e quali iniziative fossero state organizzate per commemorare quell’importante ricorrenza.
Se mezzo secolo prima le celebrazioni furono ripartite nelle 3 capitali del Regno (Torino, Firenze, Roma), in questa occasione si scelse Torino: la “culla” del Risorgimento, ma anche la città che in quei primi anni Sessanta incarnava la grande trasformazione economico-sociale in atto nel Paese.
Le indicazioni del Ministero della Pubblica istruzione per le celebrazioni del centenario furono chiare: ogni ateneo doveva preparare una solenne commemorazione per il 27 marzo, incaricando i professori di Storia del risorgimento o di Storia moderna di illustrare l’importanza dell’evento, al quale era corredata una mostra con cimeli e documenti d’archivio.
All’appello ministeriale il rettore Caio Mario Cattabeni rispose con due eventi organizzati il 23 marzo e il 27 marzo 1961, con la collaborazione del Comune, del Museo del Risorgimento e del Politecnico. Il 23 fu invitato Franco Valsecchi, storico di origine milanese e professore alla Statale nel secondo dopoguerra. La seconda data ebbe come ospite Riccardo Bacchelli, accademico dei Lincei. Con l’intervento intitolato L’Europa e l’unità italiana, Valsecchi allargò i confini della prospettiva storiografica predominante fino a quel momento, ponendo il fenomeno risorgimentale in un percorso di lungo periodo e spostando l’attenzione sulle relazioni tra Italia ed Europa. La lectio di Bacchelli, al contrario, si mosse tra storia e memoria, con un discorso che voleva essere un bilancio del delicato rapporto, nel tempo, tra gli italiani e il concetto di nazione.
Con il professor Nicola Del Corno, ordinario di Storia delle dottrine politiche, il focus si è spostato sulla contestazione studentesca a Milano. Il Sessantotto milanese della Statale iniziò l’anno precedente, con sporadici episodi di contestazione: il 25 febbraio fu occupata la mensa del Cusm a Sesto S. Giovanni; il 17 maggio gli studenti si impossessarono di un’aula per solidarietà verso i colleghi di architettura di Roma e Torino. Ma fu con il 1968 che si ebbero i primi scontri importanti. Il 23 febbraio gli studenti del Fuan (Fronte universitario d’azione nazionale) e i contestatori scatenarono una rissa nella sede di via Festa del Perdono, mentre un’assemblea formatasi in Aula Magna votò a favore dell’occupazione, costringendo le autorità accademiche a sospendere le attività didattiche.
Se alcuni docenti come Vittorio Enzo Alfieri, Mario Untersteiner e Raffaele Cantarella furono critici, altri come Marino Berengo e Giulio Alfredo Maccacaro definirono le contestazioni legittime e l’ateneo inadeguato alle sue funzioni. Il successivo 19 marzo gli studenti presentarono una carta programmatica che ridefiniva la didattica: rimozione della figura del docente, attività seminariali senza distinzione docente-discente, sostituzione degli esami di profitto e di laurea con valutazioni collettive, tesi di laurea intesa come ricerca organica che rispecchiasse gli interessi dello studente. Un corteo di 20 mila studenti universitari si mosse dalla Statale per dirigersi verso Largo Gemelli e qui scoppiarono dei violenti scontri con le forze dell’ordine (definiti “La Valle Giulia milanese”).
Nel settembre si tenne l’ultimo convegno studentesco, durante il quale emersero le differenze che avrebbero segnato la fine dello spontaneismo ideologico e pragmatico della contestazione.
Anche nella primavera 1969 non mancò l’uso della violenza da parte degli studenti, accusati di essere squadristi fascisti. Gli ultimi mesi dell’anno, caratterizzati da un’intensa aggressività politica, videro una ristrutturazione interna al movimento studentesco, divenuto una formazione maggiormente organizzata e con ideali marxisti-leninisti-maoisti.
La nascita della Facoltà di Scienze politiche della Statale, nel 1970, è stata oggetto della relazione del professor Massimiliano Paniga, il quale ha evidenziato come di una Scuola di Scienze politiche a Milano si iniziò a parlare durante il rettorato di Baldo Rossi (1926-1930), ma l’idea non ebbe un’attuazione concreta. Si dovette attendere l’avvento della Repubblica e l’inizio degli anni Cinquanta prima che il tema tornasse sul tavolo: il rettore Giuseppe Menotti De Francesco propose l’istituzione di un corso di laurea in Scienze politiche (1953) da inserire all’interno della Facoltà di Giurisprudenza. Nel febbraio 1954 si ridiscusse la questione e fu approvata la modifica dell’ordinamento della Facoltà di Giurisprudenza, grazie alla quale sarebbe stato possibile conferire la laurea in Scienze politiche. Nel marzo giunse l’approvazione del Senato accademico e del Consiglio di amministrazione.
Per avere un’applicazione pratica del provvedimento si dovette, però, attendere il 1966-67, nonostante il Consiglio di Facoltà di Giurisprudenza avesse ribadito l’opportunità di creare un corso di laurea in Scienze politiche (1955) e i pareri favorevoli espressi dal Consiglio superiore della Pubblica istruzione (1957 e 1966).
Nel maggio 1970 fu, invece, avanzata al Ministero la proposta di costituzione di una Facoltà di Scienze politiche indipendente da Giurisprudenza. Se il Consiglio superiore della Pubblica istruzione si dichiarò favorevole, il Ministero si oppose o, meglio, decise di trasferire alla neonata Facoltà solo due cattedre in luogo delle tre stabilite da Giurisprudenza (e che costituiva il numero minimo per formare un Consiglio di Facoltà). Si aprì, dunque, un acceso scontro politico-istituzionale tra la Statale e il Ministero della Pubblica istruzione, che temeva la nascita di un centro di contestazione da sinistra.
Aggiungendo a questa situazione la carenza di finanziamenti, le indecisioni politiche e i ritardi burocratici si comprende come i primi anni di vita della Facoltà di Scienze politiche, ricca solo di studenti, furono problematici e di grande incertezza.
Dal 1975, grazie anche alle nuove cattedre ottenute con un concorso nazionale, la Facoltà poté iniziare a guardare al futuro con più fiducia e ottimismo.
L’intervento successivo è stato quello della professoressa Silvia Antonia Conca, docente di Storia economica, che ha posto l’accento sull’evoluzione dell’Università Statale in una prospettiva comparata con altri atenei internazionali.
L’idea di rendere le università moderne e al passo con i tempi nacque e si concretizzò negli anni Settanta, con gli atenei che diventarono “di massa”, accogliendo migliaia di studenti e studentesse. Questa condizione, però, era costosa per lo Stato.
Dagli anni Ottanta l’università iniziò ad ammodernarsi e ad avere un legame più stretto con l’economia. Gli atenei cercarono nuovi soggetti finanziatori, in aggiunta ai contributi statali, per esempio imprenditori ed enti locali. Era il periodo durante il quale economisti come Milton Friedman contribuivano a creare una rivoluzione culturale, diffondendo idee che costituirono una sorta di mainstream.
La professoressa Conca ha, in seguito, esaminato le riforme che trasformarono l’università “di massa” in un’azienda, secondo criteri manageriali, dal dpr n. 382/1980, che ridisegnò il sistema universitario, alla legge Ruberti del 1989, che rese gli atenei autonomi sul versante scientifico, didattico, organizzativo e dei bilanci. Momenti altrettanto importanti furono l’introduzione dei crediti formativi universitari (cfu) e la suddivisione del percorso di laurea in tre anni più due di specializzazione (1999). Tale provvedimento fece seguito alla Dichiarazione di Bologna, firmata da 29 Paesi europei, avente per oggetto la creazione di uno spazio continentale di istruzione superiore. Con il nuovo millennio si segnalano, viceversa, le riforme Moratti (2005) e Gelmini (2010), che dotarono l’università di strumenti che le consentivano di rendere conto della propria produttività e gestione al Ministero.
Sessione IV – Luoghi e istituzioni della Statale
Nell’ultima sessione del convegno, presieduta da Mauro Moretti, si è affrontato il tema delle prime sedi dell’Università degli Studi di Milano, accanto a una relazione che ha sottolineato l’importanza dell’Archivio storico nella ricostruzione della vita universitaria.
La dottoressa Serena Bonetti ha concentrato il proprio intervento sulle sedi dell’Università Statale nei primi decenni di vita. Tra il 1915 e il 1919 furono depositate al Comune di Milano diverse planimetrie di edifici che di lì a poco sarebbero stati costruiti a Città Studi, una zona agricola nella parte orientale di Milano. La prima pietra fu posata alla presenza del presidente del Consiglio Antonio Salandra il 6 novembre 1915. I lavori vennero sospesi per la guerra e ripresero solo nella primavera del 1919.
Con la nascita della Regia Università le sedi scelte per le facoltà mostrarono la loro inadeguatezza, in particolare Palazzo Landriani in via Borgonuovo, che dal 1923-24 accoglieva la Facoltà di Lettere e Filosofia. Servivano nuove sedi e, per questo motivo, il rettorato, Giurisprudenza e gli uffici furono trasferiti in un palazzo di viale San Michele del Carso. La Facoltà di Medicina avrebbe continuato a essere ospitata dagli Istituti ospedalieri cittadini, mentre quella di Scienze non aveva una sede stabile.
Il progetto di porre in centro città l’ateneo fu concepito dal rettore Baldo Rossi (1926-1930), che ottenne dal Comune l’autorizzazione a spostare le Facoltà di Lettere e Giurisprudenza, insieme al rettorato in Corso Roma, mentre a Città Studi rimase la possibilità di collocare la Facoltà di Scienze (alla quale si aggiunsero quelle di Veterinaria e di Agraria negli anni Trenta).
Durante la guerra i bombardamenti sulla città colpirono pesantemente gli edifici universitari e la Ca’ Granda: per fortuna, quest’ultima aveva conosciuto, nel 1939 e per mano dell’architetto Ambrogio Annoni, un importante lavoro di ricognizione che ne consentirà la ricostruzione al termine del conflitto. Pure Città Studi e Corso Roma furono colpite: la sede della Statale fu così spostata in via della Passione a Palazzo Archinto.
La Ca’ Granda fu al centro dell’attenzione anche del Comune, che lì avrebbe voluto stabilire i propri uffici. Un accordo con l’Università per la divisione dell’immobile fu raggiunto nel 1942, ma a causa del conflitto non fu possibile renderlo effettivo. La cessione all’Ateneo fu ratificata nel 1947.
La conclusione del convegno è stata affidata a Claudia Piergigli e Gaia Riitano (Centro Apice), le quali hanno mostrato ai presenti un’anticipazione del sito dell’Archivio Storico, consultabile dall’8 dicembre prossimo. Con questo importante strumento si intende creare una “vetrina” in cui mostrare alcuni dei contenuti di cui dispone l’archivio universitario, così da portare all’attenzione degli studenti e dei ricercatori le fonti sulle quali si basa l’identità dell’ateneo.
Arianna Capucci e Lorenzo Vanoni