Identità, Immagini, Riuso. Percorsi di ricerca tra diritto e memoria, questo il titolo del seminario che si è tenuto giovedì 16 maggio 2024 come ultimo appuntamento annuale del ciclo di colloquia del Centre for visual history (CLIO) organizzati dal Dipartimento di studi storici dell’Università degli studi di Milano. Relatori di tale conferenza sono stati la prof.ssa Elisabetta Fusar Poli, docente di storia del diritto medievale all’Università degli studi di Brescia, e il prof. Stefano Gardini, docente di archivistica presso l’Università degli studi di Genova. L’intento è stato quello di cercare di considerare alcune questioni storiche legate alle immagini, alla riproduzione ed al riuso delle stesse con un approccio che includesse anche l’ambito giuridico.
L’intervento della prima relatrice, la prof.ssa Poli, è partito da una semplice, ma non scontata, distinzione lessicale delle tre parole che hanno fornito il titolo della conferenza considerandole come gli assi di un immaginario piano cartesiano nel quale è contenuta l’intera questione. Tra queste tre parole, come si vedrà in seguito, intercorre una stretta relazione, un legame di volta in volta espresso in modo diverso ma comunque sempre presente. Una volta chiariti l’importanza e il significato, anche sotto l’aspetto del diritto, dei tre termini, si è passati a chiedersi come, nel corso del tempo, sia stato posto il tema del diritto al riuso delle immagini. L’arco cronologico trattato è quello che va da fine Ottocento ai giorni nostri, nel quale anche i cambiamenti e gli sviluppi della tecnica hanno giocato, e giocano tuttora, un ruolo fondamentale. La riproduzione di un’immagine può avere finalità diverse dall’idea dell’opera originale, e in questo caso, entrano in gioco le questioni del diritto al riuso di un’immagine e dell’identità che la stessa immagine possiede e che viene veicolata. Ciò che regola giuridicamente queste vicende è, nel caso italiano, la legge sul diritto d’autore, che intende l’immagine come opera dell’ingegno umano e dunque pone il tema della proprietà dei diritti su quell’opera in quanto espressione dell’atto creativo e dell’identità dell’autore. Le prime norme sul diritto d’autore, in Italia, risalgono al primo periodo post-unitario (1865); dopo varie modifiche si è arrivati alla legge del 1941 che, seppur ritoccata leggermente in epoca repubblicana, sostanzialmente vige ancora oggi. Vengono dichiarati in essa anche i cosiddetti “diritti morali” che esprimono una assoluta novità, poiché sono proprio tali diritti ad esprimere quella che può essere considerata l’identità dell’opera. I diritti morali, dunque, proprio in virtù del fatto che restituiscono l’identità di un’opera, rimangono in vigore anche dopo la morte dell’autore per un periodo di 70 anni a beneficio degli eredi.
Una volta affrontato questo breve ma importante excursus storico sulla legge del diritto d’autore si è giunti a definire in quali modi può essere attuato il riuso di un’immagine. Se il riuso di un’immagine non è consentito può a pieno titolo definirsi plagio. Tuttavia con riuso si intende anche la riproduzione di un’opera che potrebbe non modificare il significato, e quindi l’identità, dell’opera stessa, anche se essa viene immessa in un contesto differente da quello di origine. Anche qualora venga realizzata da un autore un’opera nuova a partire da un’opera di un altro autore, non è detto che l’azione debba essere considerata un plagio.
Come distinguere, dunque, una riproduzione legale da un plagio? La risposta non è semplice e, soprattutto, non è univoca. Una sentenza della Cassazione del 2018 stabilisce che il riuso di un’opera è legale se la nuova opera presenta uno “scarto semantico” rispetto all’originale che conferisca una nuova identità, differente da quella espressa dall’opera d’origine. A questo riguardo occorre anche segnalare che nel corso del tempo l’idea stessa di plagio ha subito varie trasformazioni. Basti pensare che fino alla metà dell’Ottocento la fotografia di un’opera d’arte era considerato un plagio; le riproduzioni fotografiche delle opere d’arte divennero, infatti, legali solo quando la fotografia passò ad essere considerata un’opera dell’ingegno umano.
Tornando alle tre parole che danno il titolo alla conferenza ci si è poi soffermati sulle immagini, per la maggior parte fotografie, che ritraggono volti e persone. Nella riproduzione delle figure umane si aggiunge una nuova componente nel diritto, ossia l’esistenza di un diritto appartenente alla persona ritratta. Le normative garantiscono i diritti d’immagine di un individuo stabilendo le norme per il riuso; se viene alterata l’identità non si parlerà più di riuso di un’immagine, ma di abuso, poiché si attua ciò che viene definita una “ri-semantizzazione” dell’immagine, ovvero l’attribuzione di un significato totalmente differente da quello che era in origine, che, se fatto per ledere l’onore e la percezione della personalità di chi è ritratto, si configura come un reato. Già dalla fine dell’Ottocento la giurisprudenza punisce tali abusi sull’immagine, ma solo ad inizio Novecento, con la già citata legge sul diritto d’autore, si comincerà a tutelare il diritto alla propria immagine e alla sua diffusione.
Ancora una volta, dunque, si torna a comprendere come i tre sostantivi Immagine, Riuso e Identità siano sempre in qualche modo concatenati l’uno con l’altro.
Dopo avere considerato l’immagine come opera dell’ingegno umano e come riproduzione di figure umane, come terzo percorso vengono esaminate le immagini come riproduzione di beni culturali. In questo caso è lo Stato che si arroga il diritto di intervenire su questi beni culturali nel momento in cui vi sia un interesse pubblico. Questo materiale dovrebbe, dunque, essere di pubblico dominio e la disciplina dei beni culturali non dovrebbe sovrapporsi a quella sul diritto d’autore. Tuttavia, già dalla fine dell’Ottocento, per poter riprodurre un bene culturale presente in un museo o in qualsiasi altro luogo è necessaria una autorizzazione rilasciata da un ente preposto e il versamento di un canone in denaro. Nel 1965, con l’intento di trasferire risorse verso gli enti e gli istituti culturali, viene definito per legge il cosiddetto “doppio binario”: quando l’uso della riproduzione fotografica è a fini commerciali si prevede il pagamento di un canone, mentre per tutti gli altri usi la riproduzione è libera. Tale distinzione è presente ancora oggi nei codici legislativi italiani, in virtù della necessità di un controllo statale sulla diffusione delle immagini che riproducono beni culturali; queste ultime, infatti, veicolano un’identità, ovvero un valore simbolico insito nel bene culturale riprodotto, tale da giustificare il pagamento per il riuso lecito dell’immagine.
Strettamente collegato al primo, nel secondo intervento del seminario, tenuto dal prof. Stefano Gardini, si è andati ad analizzare quella che è stata da lui stesso definita “l’immagine della parola scritta”, ossia la riproduzione di quei beni culturali che contengono testi scritti. La riflessione prende le mosse da un fatto di attualità: la nuova legge del 2023 con cui il Ministero della cultura ha normato i nuovi canoni di pagamento per la riproduzione dei beni culturali. Si sono verificati vari casi di cronaca riguardanti la questione della riproduzione dei beni culturali che, talora, è stata ritenuta lesiva del bene in questione. Quando si ha a che fare con riproduzioni di beni culturali documentari, come libri o documenti, occorre innanzitutto capire cosa si intende riprodurre, se il testo nel suo significato o l’immagine formale del documento. Per tentare di fornire una risposta a questa domanda è importante considerare, inoltre, i motivi per i quali, nel corso del tempo, sono stati riprodotti documenti testuali e in che modo lo sviluppo della tecnologia abbia influito in questo processo.
Nella storia si sono avvicendate varie modalità di riproduzione, ognuna con le proprie caratteristiche. La prima è costituita dalla riproduzione manoscritta, con la quale si tendeva spesso a riprodurre anche lo stile, in molti casi senza la comprensione del significato da parte del copista, dell’originale, al fine di mantenerne l’identità, la forza comunicativa e la solennità. Non a caso, la riproduzione manoscritta è stata usata per la creazione di documenti falsi, solo in apparenza identici agli originali. Successivamente si diffonde la riproduzione per immagini attraverso l’uso della stampa, che comporta una nuova funzione della riproduzione, a fini didattici; ne sono un esempio la creazione di manuali per lo studio della paleografia con le spiegazioni di tutti i caratteri e le forme scrittorie presenti nei documenti. In epoca molto più recente si giunge all’utilizzo della tecnica fotografica per la riproduzione dei documenti scritti, mantenendo lo scopo didattico e di ricerca (le fotografie di documenti o pergamene vengono utilizzate per lo studio dei documenti stessi); spesso le immagini fotografiche vengono usate in sostituzione degli originali per esposizioni in mostre o all’interno di musei e, in questo caso, subentra un’ulteriore finalità, vale a dire la tutela dei documenti più fragili. Nonostante nel corso del tempo si faccia strada l’idea che la presenza di copie fotografiche di documenti possa in qualche modo svilire e diminuire il valore che possiedono gli originali, prevale l’idea che la fotografia sia uno strumento efficace di tutela dei documenti, soprattutto per quelli più soggetti al deterioramento, come dimostrato da quanto accadde per parte della documentazione dell’Archivio di Stato di Venezia, interamente fotografata nel 1937 a causa di alcune problematiche di conservazione. Un altro esempio è costituito dagli archivi della Savoia, chiesti dallo Stato francese dopo la Seconda guerra mondiale ma rivendicati anche dal regime fascista: si decise di consegnare i documenti originali alla Francia e di conservare in Italia le copie fotografiche.
Gardini fa notare, inoltre, come la riproduzione per immagini di un manoscritto, dove oltre all’aspetto visivo e formale non si può prescindere dall’aspetto testuale che rappresenta l’essenza di quel documento, si distingua dalla riproduzione di qualsiasi altro bene culturale; basti pensare all’importante funzione che, grazie allo sviluppo tecnologico, hanno assunto le modalità di lettura e di scansione dei testi come l’OCR. Per questo motivo non è possibile trattare allo stesso modo la riproduzione di beni culturali scritti e quella che investe le arti grafiche.
Durante il dibattito finale sono sorte diverse questioni soprattutto riguardo ai rapporti, a livello giuridico, tra arte e diritto, e quali siano i limiti perché una riproduzione possa essere considerata lecita. Entrambi i relatori sono stati concordi nell’affermare che il diritto alla regolamentazione debba tenere conto di numerose realtà con caratteristiche molto diversificate tra loro e che occorra, quindi, cercare di istituire norme capaci coprire in modo più ampio possibile le diverse necessità. Purtroppo, però, spesso al legislatore mancano competenze specifiche e il rapporto tra arte e diritto rimane un ambito assai complesso da gestire.
In conclusione, l’incontro ha messo in evidenza l’indissolubile rapporto tra immagine, riuso e identità, riscontrabile sia in campo storico ed archivistico sia in ambito del diritto, e dell’opportunità di partire da riflessioni che tengano conto dei diversi aspetti in gioco prima di intraprendere qualsiasi azione prescrittiva.
Matteo Binaghi