La dodicesima edizione della manifestazione dedicata al libro e alla lettura – Bookcity – promossa dall’omonima Associazione di Milano e dall’Assessorato alla cultura del Comune stesso, ha avuto inizio il 13 novembre. Anche quest’anno l’Università degli Studi di Milano ha contribuito al successo dell’iniziativa, offrendo alla città lo spazio e l’opportunità per una riflessione critica intorno al tema della lettura.
Questa edizione è stata scandita dal Tempo del sogno, capace di evocare desideri profondi e associazioni di pensieri, sogni di gloria intorno a un futuro da riscrivere, utopie e distopie. Ed è proprio all’interno di questa ampia cornice che si è tenuta la presentazione del 14 novembre: Città italiane nel Novecento. Utopie, distopie, miti politici. Durante questa seconda giornata di iniziative, presso l’aula Pio XII, ha avuto luogo una disamina del ruolo delle città nell’immaginario collettivo, che attraverso stagioni differenti dell’Italia unita sono divenute metafora di elaborazione e circolazione di variegati miti politici, ideologici e culturali.
La discussione si è articolata intorno alla presentazione di due libri: Città mito. Luoghi del Novecento politico italiano (Roma, Carocci, 2023) a cura di Massimo Baioni, e La città italianissima, Trieste nel dibattito politico del dopoguerra, 1945-1954 (Pisa, Pacini, 2023) di Vanessa Maggi.
Alla presentazione hanno preso parte i Professori Massimo Baioni e Irene Piazzoni, dell’Università Statale di Milano. La Prof.ssa Barbara Bracco, dell’Università di Milano-Bicocca, che insieme al Prof. Francesco Bartolini, dell’Università di Macerata, hanno trattato i temi al centro dei due volumi, e l’autrice Vanessa Maggi, dell’Università di Urbino.
L’incontro è stato introdotto da Massimo Baioni, che con una breve ma incisiva esposizione ha indicato il concetto chiave della presentazione e le sue molteplici implicazioni: le “città mito” e le relative utopie e distopie che attorno ad esse si sono create.
Città mito. Luoghi del Novecento politico italiano è l’esito di un importante convegno di studi tenutosi presso l’Università degli Studi di Milano, nella sede di Via Festa del Perdono, nel dicembre 2021. Il libro, curato da Massimo Baioni, riserva particolare attenzione non solo alla genesi delle città, ma anche alle modalità in cui si costruiscono i loro miti, agli strumenti, ai linguaggi, ai canali e ai meccanismi narrativi della loro trasmissione. Modalità espressive che, unite, hanno dato corpo alla mitopoiesi della città, confortando l’idea che, come espresso nell’introduzione al volume, «ciò che separa la realtà storica di una città dal suo mito politico sia un confine poroso».
Il libro viene introdotto da Irene Piazzoni che ci fornisce una panoramica dei saggi contenuti al suo interno, offrendo delucidazioni sullo stretto rapporto tra le realtà urbane e la loro dimensione politica e ideologica. Con questo volume, che in virtù della sua polifonia, offre spunti di riflessione variegati, si è voluto puntare lo sguardo sulle città italiane che sono entrate più di altre nell’immaginario nazionale, diventando parte della “mappa mentale” di una o più generazioni.
In questa prospettiva sono raccolti i contributi dedicati a città che hanno costituito uno spazio di costruzione identitaria in ambito politico e culturale in età contemporanea. Come spiegato dalla relatrice, i saggi sono distribuiti in ordine cronologico, dall’Unità ad oggi, sia pure con una netta prevalenza per le esperienze novecentesche.
Catherine Brice apre la raccolta con il saggio dedicato all’Urbe: Roma, itinerari nel mito dall’Unità al fascismo, tra retorica e politica. Si prosegue attraverso le Roccaforti della Repubblica immaginata nell’Italia monarchicadi Maurizio Ridolfi. Massimo Baioni si occupa di Trento e Trieste e della parabola novecentesca di questa endiadi.
I contributi successivi sono dedicati a Fiume (Federico Simonelli), Venezia (Xavier Tabet), Torino – laboratorio di antifascismo (Silvia Cavicchioli) – alle città cattoliche e democristiane del “Veneto bianco” (Renato Camurri). Si passa poi al saggio di Filippo Focardi, che traccia una geografia e una cronologia delle città che hanno contato molto non solo nella genesi della Resistenza, ma soprattutto nell’elaborazione e nella trasmissione della sua memoria.
Sesto San Giovanni, la “Stalingrado d’Italia”, è il caso esplorato da Irene Piazzoni. Uno sguardo al rapporto tra le città e il fenomeno del terrorismo viene attraverso l’analisi di Monica Galfré. Poi i simboli del movimento della non violenza incarnati da Perugia e Assisi (Amoreno Martellini), fino a Predappio, città Natale di Mussolini e luogo di pellegrinaggio del neofascismo, studiata da Mirco Carrattieri. È poi la volta di Napoli e del suo mito populista (Aurelio Musi), della Milano “moralista” di Mani Pulite (Alberto Guasco) fino alle “città invisibili”, così definite nel titolo del saggio di Fabio Guidali sui luoghi dell’identità leghista.
La parola passa a Barbara Bracco che approfondisce alcuni dei temi presenti nel volume curato da Massimo Baioni. La docente della Bicocca rivela fin da subito come sia da sempre rimasta affascinata dal concetto delle “città e della loro storia”. Parte dall’assunto di come l’idea stessa di città fosse in passato inserita nella interconnessione tra letteratura politica e storiografica di stampo anti-urbano. Le città sono state per molto tempo vissute come “luogo di degrado e perversione”, fino a quando grandi protagonisti dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea – si pensi a Renzo Piano, tra i tanti – hanno fornito il loro contributo alla rivalutazione delle realtà urbane. Allo stesso modo, Città mito rappresenta un palinsesto su cui si proiettano tante storie che possono essere declinate in modi differenti: non solo la storia urbana, quindi, intesa come storia dell’architettura in senso stretto, ma anche storia sociale e politica. Barbara Bracco specifica che in questa occasione il focus si sposterà sull’analisi della geografia dell’immaginario, delle emozioni, del mito. Non solo la città reale, urbana, ma “città mito”, come uno schermo su cui si depositano i quadri della memoria.
Si analizza anche il doppio binario attorno al quale si sviluppa il volume: da un lato autori che si sono concentrati su singole realtà urbane, come Torino, Venezia, Milano, dall’altro, un approccio prevalentemente tematico, che mette insieme comuni e città che hanno condiviso una stagione, un nodo, un momento, come avvenuto nel caso del “Veneto bianco”. Questa doppia prospettiva fornisce una chiave interpretativa peculiare.
Sono presenti storie di città come Trento e Trieste che hanno avuto una “parabola discendente” e storie di città protagoniste di fenomeni contratti nel tempo. Anche storie di lungo periodo, come quella di Roma e del suo mito, protagonista di una serie di stratificazioni e strumentalizzazioni storico-politico-culturali anche molto differenti: Roma-laica, Roma-antica, Roma-fascista, declinazioni che Catherine Brice ripercorre attentamente nel primo saggio.
Città intesa anche come “capitale morale”: Milano, epicentro dell’inchiesta Mani Pulite, il cui mito non risulta legato esclusivamente alla fase di tangentopoli, anzi, è tangentopoli stessa a rispolverare e riattivare quell’immaginario che lega il capoluogo lombardo a una “moralità” che affonda lontano le sue radici.
Ci sono esperienze di città che declinano per tante ragioni, come Fiume, che ha rappresentato il fulcro dell’immaginario collettivo nazionale per poi polverizzarsi nei decenni successivi. Allo stesso modo il caso di Predappio, dissipatosi dopo i fasti fascisti, salvo riapparire con la versione dei nuovi pellegrinaggi neofascisti nei primi decenni dell’Italia repubblicana e in occasione dell’ipotetica istituzione di un museo dedicato al fascismo.
In conclusione, la relatrice pone l’accento su come il volume restituisca la giusta dimensione a un’altra stratificazione, quella della storia locale, nazionale e universale che si tengono insieme e che rappresentano una specificità che la storia italiana offre: “città mito” che hanno svolto una funzione breve nella storia e geograficamente localizzata, altre che hanno invece avuto una rilevanza internazionale, quasi universale. Ci sono città come Roma, Venezia e Milano, che sanno parlare anche a grande distanza, che vanno oltre i confini nazionali, diventando vere e proprie storie “universali”.
I miti non stanno mai in piedi da soli, se non accompagnati da un sostrato politico, ideologico e culturale che li sostenga: la Lega è stata testimone di questo assunto, vedendo quasi scomparire il mito “Padania” appena esaurita la spinta politica del partito di Bossi, la cui esistenza, propagandata durante gli anni ’90, stagione di massima espansione ideologica del movimento, poggiava su liturgie, figure e miti ottocenteschi.
Il volume di Vanessa Maggi, La città italianissima, Trieste nel dibattito politico del dopoguerra, 1945-1954 è l’esito di una ricerca di dottorato svolta dall’autrice presso l’Università di Urbino.
Trieste si inserisce perfettamente nella trama delle città intorno alle quali sono sbocciate costruzioni mitiche e che hanno costituito un passaggio cruciale nel dibattito politico italiano del Novecento.
Alla presentazione del libro fornisce il primo contributo Francesco Bartolini. Con un’introduzione di ampio respiro egli sottolinea l’importanza dello sforzo accademico e scientifico – cui anche questa discussione offre il proprio contributo – finalizzato alla storicizzazione dei miti urbani in Italia, il tentativo quindi di contestualizzare la genesi e le trasformazioni degli stessi. Fa poi riferimento al rapporto che intercorre tra la storia delle città italiane e la storia della nazione, che nel nostro Paese ha assunto caratteristiche molto peculiari: talvolta i miti delle città hanno sviluppato elementi di identità in contrasto con “l’idea di nazione” ponendosi in una posizione apparentemente contraddittoria, tra particolarismo e nazionalizzazione.
La disamina del caso di Trieste offre la dimostrazione di come l’immagine della città sia stata spesso strumentalizzata ai fini della costruzione di un difficile patriottismo nel secondo dopoguerra. Una città ai confini della nazione, plurilingue, che diventa “mito nazionale”. Trieste, che da luogo deputato a ibridazioni e contaminazioni, cerca di assumere una sembianza monolitica – come vera essenza della nazione -, è al centro di una rappresentazione mitica che risulta in continua evoluzione rispetto a un contesto nazionale ed internazionale in rapido movimento. Come sintetizzato dal relatore, il periodo preso in esame è il secondo dopoguerra, con la questione sospesa del confine orientale, che non può che esacerbare un continuo dibattito intorno alla nazione e a Trieste, spesso composto da immagini in contrasto l’una con l’altra. In gioco ci sono concetti chiave – patria, nazione, italianità – all’indomani della caduta del fascismo, che aveva fatto dell’“idea di nazione” e di “nazionalismo” due dei capisaldi connotativi della propria ideologia. Il tentativo è quello di recuperare una tradizione patriottica risorgimentale antecedente al fascismo, con una persistenza di richiami e linguaggi risalenti all’irredentismo, ma con la necessità di adeguarli a una prospettiva democratica. Il libro di Vanessa Maggi mostra come i richiami in questo senso siano molti – frontiere naturali, corpo della nazione, discendenza di sangue, maternità dell’Italia -, tutte parole chiave di nazionalismo ottocentesco. Soprattutto nella primissima fase, è quindi forte il tentativo di prendere possesso della città ai fini di una rappresentazione identitaria nazionale. Nel circoscritto arco di tempo preso in esame, Trieste si trova al centro di ogni dibattito politico, come dimostra la sistematica analisi da parte dell’autrice degli atti parlamentari e dei quotidiani di maggior tiratura. L’interesse su Trieste non verte soltanto intorno al discorso politico, ma riguarda anche rappresentazioni della città che includono cultura, musica, sport, spettacolo. L’autrice si concentra però intorno al dibattito politico, perché esso rappresenta la spia forse più trasparente di quale sia la vera lotta in atto al di sotto di questa trama. Il libro è scandito attraverso tappe che non a caso richiamano gli snodi cruciali della storia italiana di quel periodo: la Consulta nazionale tra il 1945 e il 1946, l’Assemblea Costituente, le elezioni del 18 aprile 1948 e la prima Legislatura repubblicana, i cittadini di Trieste per la prima volta al voto nel 1949, fino agli accordi di Londra del 1954 che restituiscono Trieste e la zona all’Italia, affidando la zona B del Territorio Libero di Trieste alla Jugoslavia. Snodi periodizzanti, non solo fortemente connessi alle vicende di Trieste, ma anche a un contesto più ampio della storia nazionale e internazionale, caratterizzato dallo scoppio e dalla evoluzione della guerra fredda.
Il relatore pone l’accento su un momento di volta fondamentale – le elezioni politiche del 1948 – in cui la contesa sul discorso patriottico diventa molto più evidente. Nel libro si fa riferimento a un vero e proprio “patriottismo di partito” consistente in immagini costruite dai diversi partiti, in primo luogo dai due grandi contendenti – la Democrazia cristiana da un lato, e il Fronte democratico popolare dall’altro (Pci e Psi) – che cercano di accreditarsi come i principali interpreti dell’italianità e della difesa della “città italianissima”. Quando nel 1954 gli accordi di Londra consegnano definitivamente Trieste all’Italia, la soluzione della questione del confine orientale contribuisce a ridimensionare il recupero di un patriottismo di stampo ottocentesco e il suo rimodellamento all’interno della cultura politica dell’Italia repubblicana: la sua forza si esaurirà negli anni successivi, rivelando l’incapacità di quel linguaggio e della mitologia patriottica di poter ancora percorrere vie persuasive di incarnazione di un sentimento collettivo di portata nazionale. La modernizzazione accelerata tra la fine degli anni ‘50 e gli inizi degli anni ‘60 rende obsoleto un linguaggio non più capace di evocare emozioni, sentimenti, rappresentazioni e dunque anche miti. La “questione Trieste” ha spinto i due grandi partiti di massa, Democrazia cristiana da una parte, Partito comunista dall’altra, estranei a discorsi politici fondati sul concetto di “nazione” e al discorso politico risorgimentale, a fare i conti col nazionalismo e col patriottismo nazionale di matrice ottocentesca. Come evidenziato dal relatore entrambi i partiti compiono uno sforzo titanico. Da una parte la Dc, che nella costruzione di un immaginario nazionalista si serve del modello della “latinità”, tema controverso visti i rimandi al fascismo, ma che affonda le sue radici in una tradizione nazionalista ottocentesca che ne aveva fatto un elemento fondamentale nella costruzione della propria impalcatura identitaria. Nazionalismo italiano fondato, quindi, sui capisaldi della latinità e della cristianità, che si trasforma in nazionalismo di stampo occidentale all’indomani della Dottrina Truman.
Dall’altra parte il Pci, si trova diviso inizialmente tra una condizione di solidarietà nei confronti di uno stato comunista, la Jugoslava, e la necessità di definirsi in termini nazionali nei riguardi della “questione Trieste”. L’operazione messa in campo dal partito sarà quella di porsi come erede della tradizione laica del patriottismo ottocentesco. Le posizioni e i discorsi di entrambi i partiti assumono un carattere parzialmente diverso nel momento in cui nel 1948, all’indomani dello strappo tra Tito e Stalin, la Jugoslavia perde quella minacciosità che precedentemente possedeva. Tito, allontanandosi dall’Unione Sovietica, rende il confine orientale, dove fino poco prima passava la cortina di ferro, assai meno minaccioso. Come conseguenza diretta ne deriva un ridimensionamento della “questione di Trieste”, declassata da affare internazionale a dibattito nazionale, locale. Il relatore sottolinea come questo snodo segnerà l’ingresso in campo di un terzo protagonista: il Movimento sociale italiano, che proprio intorno al capoluogo friulano riuscirà a costruirsi una propria legittimità, un proprio spazio nel discorso politico della Repubblica, servendosene come uno dei mezzi per la costruzione del proprio impianto fortemente nazionalista. Bartolini in conclusione solleva un’ulteriore riflessione: l’analogia tra lo sforzo di “nazionalizzare” Roma, nel momento in cui diviene capitale, e quello che circonda Trieste nei nove anni che seguono la fine della seconda guerra mondiale. Ma Roma e Trieste possono essere studiati anche come elementi di una questione geopolitica più ampia, internazionale, se non universale. Una al centro, l’altra al confine, entrambe deputate alla celebrazione della nazione e a divenire oggetto di mitizzazione.
Con il suo intervento, Vanessa Maggi risponde alle sollecitazioni e alle domande sorte intorno alla città protagonista del suo libro. L’autrice delinea la dimensione catalizzatrice del mito e del ruolo che Trieste ha svolto nel decennio tra il 1945 e il 1954: così lontana geograficamente, eppure alla ribalta sui quotidiani di maggior tiratura per quasi tutto il decennio, non solo su quelli a livello politico, ma anche su quelli di partito e settoriali. Gli esempi riportati riguardano lo sport, nello specifico il Giro d’Italia del giugno 1949, in cui il passaggio dei ciclisti per Trieste inaugurò una lunga sequela di pagine dedicate alla “città italianissima”, interpretando lo stretto legame che univa il sentimento sportivo al sentimento nazionale. Anche la musica ha offerto la possibilità di tenere i riflettori accesi sul capoluogo giuliano, con riferimento alla seguitissima partecipazione di Nilla Pizzi al Festival di Sanremo nel 1952, con una canzone, Vola Colomba, dedicata al ricongiungimento di Trieste all’Italia. Immagini della città e di uno dei suoi iconici simboli, la Cattedrale di San Giusto, comparivano inoltre molto spesso nei cinegiornali della “Settimana Incom”, che venivano proiettati prima di ogni produzione cinematografica.
Riguardo alla posizione del Pci rispetto alla questione politica di Trieste, Maggi evidenzia il doppio binario in cui il partito si trova, stretto nella dicotomia dei problemi nazionali e internazionali. Questa difficoltà emerge molto chiaramente all’interno dei dibattiti parlamentari di cui l’autrice ha fatto lo spoglio, da cui affiora la ricerca di un difficile equilibrio nel partito tra promessa nazionale e ratio socialista a livello internazionale.
Molti sono stati gli spunti di riflessione offerti durante l’incontro, che hanno evidenziato come la città, fil rougedell’intera presentazione, offra e rappresenti una sorta di grande osservatorio dentro il quale far convergere prospettive di indagine diverse, privilegiando in questi due libri quelle connesse alle realtà urbane che sono entrate nell’immaginario collettivo come “mito politico”: alcune resistendo a lungo in questa veste, altre viceversa protagoniste di un’eclissi più rapida perché legate a determinate stagioni della vita politica e culturale italiana del Novecento.
Ilaria Viviana Iazzetti