Se, ancora oggi, risultano difficili il riconoscimento e la discussione intorno al razzismo, Aurélia Michel, docente di storia delle Americhe a Parigi, propone un suo contributo al dibattito con questo lavoro di sintesi storica sulla schiavitù e sull’idea di razza. A tal fine, traccia un’ampia parabola cronologica e geografica che collega strettamente i due argomenti e ne sottolinea la continuità storica. Dal suo punto di vista, infatti, hanno entrambi lo stesso obiettivo disumanizzante, volto a giustificare lo sfruttamento di una parte dell’umanità ad opera di un’altra. Sul classico modello francese della dissertation, la studiosa inizia con una storia della schiavitù premoderna, si focalizza successivamente sul sistema delle piantagioni e sul funzionamento dell’economia atlantica, e procede infine con una riflessione sulla razza, concetto che affonda le proprie radici nell’America di fine XVIII secolo, quando comincia a tramontare l’istituzione schiavista. In apertura, un’analisi semantica dei termini «bianco» e «negro» interviene a spiegare un titolo a prima vista provocatorio. Interessante, inoltre, la scelta di partire da una definizione sociologica del concetto di razza (C. Guillaumin) per, in seguito, affermare la necessità di una definizione storica, volta a raggiungere una maggiore precisione e a comprendere meglio la persistenza del razzismo nei nostri giorni. L’approccio generale testimonia un interesse per tendenze storiografiche piuttosto recenti: il taglio post-coloniale e quello costruttivista sono decisivi, ma considerazioni relative alla storia di genere,alla network history o alla storia delle rappresentazioni sono anche evidenti.
Nella prima parte del volume, la studiosa propone un panorama storico sulla schiavitù, dall’Antichità fino all’instaurazione di un’economia atlantica fondata sul lavoro forzato e sulla tratta degli schiavi africani. Di nuovo, non parte da una definizione storica bensì da una definizione di stampo antropologico. Infatti, definendo la schiavitù sulla scia di C. Meillassoux, stabilisce una serie di concetti che saranno centrali nella sua analisi e verranno usati in chiave storica, si pensi in particolare all’esclusione degli schiavi dalla parentela e dall’umanità. Si concentra in seguito sull’istituzione della schiavitù durante l’Antichità mediterranea e sottolinea il fatto che non esisteva all’epoca un’equivalenza tra schiavo e nero. Si sofferma quindi sul Medioevo e sullo sviluppo delle reti commerciali che attraversano il Sahara, prevalentemente sotto la spinta e l’espansione del mondo islamico in modo tale che, tra XIII e XIV secolo, lo spazio sub-sahariano giunga a diventare il primo fornitore di schiavi dell’area mediterranea. Queste reti commerciali ricoprono un ruolo essenziale quando, nel XV secolo, gli europei sbarcano sulle coste occidentali dell’Africa e «riscoprono» la schiavitù come motore produttivo. Con la fine della Reconquista e la rottura delle vie commerciali verso Oriente (1453), portoghesi e spagnoli si rivolgono verso l’Atlantico, sostenuti da una Chiesa interessata ad espandere la propria influenza. L’arrivo degli spagnoli in America appunto, insieme alla distruzione degli imperi locali e la volontà di insediarsi sulla lunga durata, fa nascere un problema destinato ad essere costante per tutto il periodo coloniale: il popolamento e la richiesta di forza lavoro. D’altronde, sotto l’influenza del prete De Las Casa, viene proibita la schiavitù degli indios, già vittime della violenza coloniale e delle nuove malattie importate dall’Europa. Si decide allora di importare nuovi lavoratori coatti dall’Africa.
Nella seconda parte del lavoro, A. Michel riparte dal quadro tracciato precedentemente e si concentra su quello che viene chiamato il «periodo negro», caratterizzato dallo sviluppo sfrenato dell’economia atlantica e dal sistema delle piantagioni. Si concentra prima sul modello di piantagione perfezionato dagli olandesi in Brasile e poi diffusosi in tutte le Americhe (metà del XVII secolo), un perfezionamento che implica espansione territoriale e accelerazione della tratta. In questo periodo, i piantatori acquistano ampi poteri e riescono ad influenzare le scelte dei loro governi che, data l’instabilità del sistema, cercano da parte loro di tutelare l’intera filiera per preservare i guadagni: la convergenza d’interesse con il capitalismo mercantile è completa e il ruolo centrale del capitalismo verrà poi ribadito dalla studiosa nel suo legame con il razzismo. Nello studio viene concesso un ampio spazio anche alla ricostruzione delle condizioni di vita degli schiavi, sulla base di testimonianze dirette riportare nel testo. Si insiste sulla violenza coloniale, onnipresente nelle sue diverse forme, al contempo garanzia del funzionamento dell’intero sistema ma anche ragione del progressivo declino dell’istituzione schiavista. Molti coloni non sopportano questa violenza e si rifugiano in una «finzione del negro», ovvero si convincono artificiosamente che il «negro» (allora sinonimo di «schiavo») si collochi al di fuori dell’umanità: si tratta dell’unico modo per giustificare l’estrema violenza messa in atto. La crisi del sistema comincia a manifestarsi già a partire dalla metà del Settecento e diventa particolarmente rilevante con la progressiva abolizione della tratta nel primo decennio dell’Ottocento. Infatti, diventa sempre più evidente il problema del popolamento delle colonie, dato fondamentale per il sostegno dell’economia atlantica. Incitare gli schiavi a fare figli riapre loro la possibilità di reintegrare una forma di parentela e quindi di umanità. D’altra parte, l’aumento della popolazione meticcia partecipa ad una certa porosità della frontiera tra schiavi e liberi. È tuttavia la Rivoluzione francese ed i suoi valori universali di uguaglianza e libertà a dare un vero e proprio colpo alla schiavitù. Questi valori contrastano con la violenza dispiegata nei confronti degli schiavi neri che, da parte loro, stanno recuperando un’umanità da cui erano stati esclusi e che avrebbe dovuto garantire loro l’universalità dei diritti.
Nonostante la messa in discussione dell’istituzione schiavista, il colonialismo conosce tra XIX e XX secolo una formidabile espansione. Gli Stati colonialisti introducono forme alternative di lavoro coatto e il nuovo paradigma della razza permette di giustificare la violenza necessaria per mantenere i rapporti di forza già esistenti. I primi discorsi sulla razza appaiono nei Paesi delle rivoluzioni democratiche per tentare di risolvere, appunto, il paradosso della violenza coloniale. Nasce la «finzione del bianco» come nuovo modello di dominazione. Il «biancore», unica condizione per l’accesso a una piena cittadinanza e non acquistabile via legge o affrancamento, protegge le élites detentrici del potere. Il quadro democratico si restringe su questa base e la nazione (intesa come parentela simbolica) rigetta chi non è un «fratello» bianco. Negli anni 1830-40, segnati dall’abolizionismo, le teorie sulla razza si trovano allora al centro del dibattito pubblico. L’idea di razza permette di giustificare in termini pseudoscientifici l’esistenza di una rottura in seno all’umanità di una gerarchia. La spaccatura era già fondamentale per la schiavitù e continua ad essere essenziale in quanto produce dei «non-parenti» o «sotto-umani» su cui si può applicare la violenza alla base di un’organizzazione del lavoro favorevole all’economia capitalistica. Lo Stato e la sua polizia garantiscono il rispetto di questo ordine razzista. La nuova colonizzazione condivide inoltre le caratteristiche della schiavitù: sottrazione alla comunità di origine, forza lavoro disponibile immediatamente e spostamento forzato dei lavoratori. Politica, scienza e cultura popolare collaborano per alimentare il mito dell’uomo bianco e della sua superiorità. Il primo dopoguerra vede invece in atto una ridefinizione del paesaggio sociale, soprattutto nelle ex-colonie americane, dove la popolazione nera aumenta fortemente nelle città e si scontra con la reazione segregazionista dei bianchi. Con il culminare del «delirio» razzista negli anni Venti e Trenta, si arriva ai fascismi e alla Seconda guerra. La scoperta dei campi di sterminio darà finalmente un colpo decisivo ai fondamenti dell’ideologia razzista, almeno in quanto teoria biologica.
In conclusione, la studiosa riporta l’attenzione sulla contemporaneità e fa notare come la razza persista ancora oggi come fattore di organizzazione sociale. Questa persistenza non può essere pienamente compresa con una lettura strettamente economica dei concetti di schiavitù e razza. Uno studio storico permette invece di cogliere l’articolazione nella lunga durata delle dinamiche che hanno portato alla situazione attuale. Lo sguardo storico deve tuttavia, secondo la studiosa, allargarsi verso altre discipline e, infatti, il chiaro taglio socio-antropologico del libro permette di proporre alcune idee centrali come quelle di violenza onnipresente, di «rinegoziazione dell’uguaglianza rivoluzionaria» (p. 268), ossia il fenomeno che ha portato a una restrizione del gruppo suscettibile di accedere ai diritti civili, o di «naturalizzazione del potere dell’uomo bianco» (p. 268), vale a dire l’elaborazione di una giustificazione scientifica, per il predominio di un gruppo umano su un altro. La docente finisce con un’esortazione a «prend[ere] congedo dalla finzione di natura» (p. 272), in francese addirittura «faire le deuil» (elaborare il lutto): «strappiamo al nostro mondo ciò che chiamavamo naturale e restituiamolo alla sua vitalità» (p. 272) e cioè, alla sua duttilità e alle interazioni presenti al suo interno. L’impegno — quasi politico — della storica per queste questioni di attualità non viene nascosto, anzi, e da lì proviene molto probabilmente la scelta dell’editore francese Points di non collocare il volume nella collana «Histoire» bensì in quella chiamata «Essais» (Saggi). Un’ultima considerazione va fatta sulla bibliografia del volume, prevalentemente di lingua francese e con poche voci in inglese o in portoghese, che avrebbe guadagnato sicuramente ad essere diversificata, offrendo ad esempio spazio alla produzione americana degli anni 1990 e 2000.
Etienne Charrier