Filippo La Porta, Eretico controvoglia: Nicola Chiaromonte, una vita fra giustizia e libertà, Bompiani, Firenze-Milano, 2019.
Dopo avervi dedicato un capitolo in Maestri irregolari: una lezione per il nostro presente (Bollati Boringhieri, 2007) e un altro in Disorganici: maestri involontari del Novecento (Edizioni di storia e letteratura, 2018), Filippo la Porta, critico letterario, saggista, e collaboratore di diverse testate giornalistiche, torna a parlare di Nicola Chiaromonte (1905-1972), intellettuale lucano del secolo scorso che, dati i suoi continui spostamenti fra Roma, Madrid, Parigi e New York, è oggi forse più conosciuto all’estero che in Italia.
La breve monografia qui presentata non ha la pretesa di fornire un’analisi puntuale e approfondita della vita di quest’ultimo (per la quale si veda Cesare Panizza, Nicola Chiaromonte. Una biografia, Donzelli, 2017), bensì si propone di esporre in sintesi le sue riflessioni e la sua visione del mondo con un andamento vivace e a tratti aforistico: ognuno dei dieci capitoli, infatti, è preceduto da significative citazioni di Chiaromonte che suggeriscono al lettore, in nuce, l’argomento di cui, di volta in volta, si tratterà. Lo stile adottato da La Porta è confidenziale, ma allo stesso tempo ricco di ricercati e colti riferimenti: ad aneddoti personali raccontati in prima persona, infatti, si intrecciano sottili richiami letterari e artistici. Il risultato, a mio parere, è una a tratti forse disorientante, ma ben riuscita trattazione, originale nei contenuti, mai monotona e capace di avvicinare il lettore alle dinamiche di una realtà cronologicamente vicina a quella dei giorni nostri, eppure spesso e inspiegabilmente percepita distante.
Dopo una sintetica nota biografica, la bibliografia critica di riferimento e l’elenco delle opere edite di Chiaromonte, nonché fonti utilizzate dall’autore (principalmente appunti tratti dai taccuini dell’intellettuale – Che cosa rimane: taccuini 1955-1971, il Mulino, 1995 – saggi o articoli contenuti in varie pubblicazioni – Credere e non credere, il Mulino, 1993; Il tarlo della coscienza, il Mulino, 1992; Il tempo della malafede e altri scritti, Edizioni dell’Asino, 2013 – e carteggi – Fra me e la verità. Lettere a Muska, Una città, 2013), La Porta giustifica, nel capitolo introduttivo, la scelta del titolo del libro, spiegando il motivo per cui abbia definito colui che è il suo eroe culturale un «eretico controvoglia».
Nei difficili anni del secondo dopoguerra, non era facile trovare un intellettuale disposto a rifiutare le soverchianti ideologie politiche che la guerra fredda imponeva; agli uomini di pensiero veniva chiesto di assecondare questa o quella verità di Stato e non era concesso loro opporvisi, pena l’esclusione sociale. Chiaromonte fu un’eccezione: egli mostrò di voler ricercare l’autentica verità del reale, svincolandosi da qualsivoglia indottrinamento statale o partitico e muovendosi solo «fra giustizia e libertà». Di conseguenza, seppe negarsi ad ogni tipo di «ortodossia ideologica», distinguendosi dai più, ma esercitò sempre tale eresia di pensiero controvoglia, per obbligo, dal momento che separare la propria individualità dalla collettività costituiva per lui «l’ultimo disperato ricorso» (p. 17). Egli non rivendicava l’esistenza di un’élite di privilegiati, portatrice di verità assolute, ma la massificante situazione politica non gli permetteva nemmeno una libera apertura alla socialità collettiva.
Questa complicata tensione fra l’isolamento intellettuale e la volontà di vivere inserito nella comunità è il filo conduttore di buona parte dei capitoli del libro: in essi, a partire da fatti biografici, viene ricostruito il tormentato e libertario pensiero di Chiaromonte, impegnato per tutta la vita nella ricerca di verità capaci di superare l’asservimento della cultura alla politica, della massa allo Stato, dell’individuo alla società. Per queste ragioni, egli viene ascritto da La Porta nel novero degli intellettuali italiani della cosiddetta Terza forza, «che potremmo definire gradualista, separatista e ‘antipolitica’» (p.34).
Ritengo che, per comprendere fino in fondo il testo in esame, occorra orientarsi secondo le due direzioni, opposte e complementari, destruens e construens, attraverso cui lo stesso Chiaromonte elaborò il suo obiettivo di vita, peraltro molto attuale: abbattere lo strapotere statale per far rinascere i frutti di una cultura indipendente e feconda, in grado di affermare il primato dell’etica sulla politica.
E così, dopo aver finemente tratteggiato, nel primo capitolo, la personalità dell’intellettuale, di cui emergono la mente profonda, umile, refrattaria a ogni servitù e l’inclinazione a costruttivi dialoghi con amici e sodali, La Porta delinea, nel capitolo seguente, l’argomento centrale di tali conversazioni, ossia la critica ai “miti della modernità”: la fama, il successo, l’utile, l’egomania e il conformismo erano i mali della società novecentesca, in balia delle bipolari logiche della guerra fredda. L’attività intellettuale, letteraria e artistica, lungi dall’esprimersi in maniera libera e disinteressata, finiva per asservire il potere statale, la cultura tout court si subordinava alla politica e si accentuava quella trahison des clercs (tradimento degli intellettuali) che già da tempo si denunciava.
L’apparentemente insuperabile nichilismo, proprio della pars destruens appena descritta, però, non costituiva il punto d’arrivo del pensiero di Chiaromonte, bensì quello di partenza. Secondo l’intellettuale, infatti, era possibile trovare nella ricerca della libertà individuale e degli altri valori nobili (verità, ragione, giustizia), nel recupero di una disinteressata cultura letteraria, artistica e teatrale e nelle utopie impolitiche, immaginate all’insegna del gratuito, dell’inutile e del sentimento di φιλία sociale, la via d’uscita dal baratro di quell’epoca di malafede che era la contemporaneità del ventesimo secolo europeo. La Porta descrive i termini di questa pars construens nei capitoli quinto, nono e soprattutto decimo, intitolato significativamente «l’unica utopia accettabile: il gratuito».
Anche in riferimento al contesto storico specificatamente italiano, Chiaromonte criticò la degenerazione civile, morale e culturale in molti articoli della rivista Tempo presente (1956-1968), di cui egli era direttore insieme a Ignazio Silone. L’intellettuale lucano si mostrava attratto e al contempo respinto dai suoi connazionali, che faticavano a emanciparsi dall’opprimente potere statale e che si piegavano alle dinamiche del nazionalismo piuttosto che a quelle del patriottismo. Fu poi il 1968 l’anno dirimente in cui prese forma, almeno in parte, il superamento della coercizione politica, grazie a quella rivoluzione morale che riabilitò la libertà d’espressione, la giustizia e lo spirito di collettività. Nei capitoli settimo e ottavo è possibile ripercorrere queste riflessioni dell’intellettuale definito perciò «italiano e antitaliano» (p. 111).
I restanti capitoli, invece, si discostano in parte dalla tematica predominante finora analizzata per affrontarne un’altra: il rapporto fra umano e divino. In particolare, il quarto capitolo è incentrato sullo scambio epistolare intercorso fra Chiaromonte e l’amica suora Melanie von Nagel. Quest’ultima, da sempre estranea agli ambienti intellettuali e alle battaglie politiche delle riviste, ma spinta dall’amore per la giustizia e per il bene, fu una stimolante interlocutrice del laico intellettuale lucano, che poté così accostarsi ai temi del divino, del sacro, dell’esistenza di Dio attraverso quello che definì un «marriage of true minds» (p. 50). Su questa scia, nel quarto capitolo, La Porta presenta, discostandosene, l’interpretazione di Chiaromonte dei Promessi Sposi, secondo la quale il concetto di provvidenza rendeva Manzoni un «ideologo cattolico» al servizio del totalitarismo ecclesiastico. Infine, nel sesto capitolo, l’autore propone un originale parallelismo fra Chiaromonte e Pasolini, definendoli «laici aperti al sacro» (p. 77), ossia ad una spiritualità non religiosa o teologica, bensì fondata sulla fiducia nella ragione e nella libera coscienza individuale. Ed è proprio così che va oggi ricordato Chiaromonte: un intellettuale che, avendo individuato il senso dell’esistenza nel «distruggere per rinascere fruttificando» (p. 53), cercò sempre di abbattere i preconcetti sociali per incoraggiare l’emancipazione della coscienza umana.
Alina Binaghi