Alex Chase-Levenson, The Yellow Flag. Quarantine and the British Mediterranean World, 1780-1860, Cambridge, Cambridge University Press, 2020, 307 p.
Il titolo ci presenta immediatamente uno di quei fenomeni di cultura materiale assai ben illustrati da questa monografia sulle quarantene marittime nel Mediterraneo: le navi a cui non veniva concessa l’autorizzazione a sbarcare per motivi di sicurezza sanitaria dovevano issare una bandiera gialla per segnalare la propria condizione alle altre imbarcazioni. In realtà, l’uso della bandiera gialla risaliva al principio dell’età moderna, così come la presenza dei lazzaretti nei porti. Ciò che mutò radicalmente tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo, ci spiega l’autore, è il livello di organizzazione interna alle varie strutture, il coordinamento internazionale tra le varie autorità incaricate di gestirle, e la scala del traffico marittimo regolato da queste procedure, che arrivò a coinvolgere ogni anno decine di migliaia di navi, con equipaggi e passeggeri, e tonnellate di merci di varia natura. Secondo Chase-Levenson, questo sistema integrato di quarantene e lazzaretti fu un’istituzione eminentemente tipica dell’età delle rivoluzioni, quando il principio dell’universalità nell’applicazione delle norme prese piede in vari contesti, incluso quello sanitario, rinnovando radicalmente la società europea. Non si tratta però di una storia del diritto – le fonti legislative sono quasi del tutto assenti – ma di una storia sociale e culturale di pratiche concrete e di esperienze di vita, spesso narrate in prima persona: tra le fonti non mancano diari, resoconti e cronache di viaggi, in molti casi redatti da autori anonimi o da personaggi non altrimenti noti.
Il «Mediterraneo britannico» del sottotitolo è un «mondo» collocato nello spazio e nel tempo: il tempo cioè che corrisponde all’era del massimo splendore della potenza navale britannica, esercitata sullo spazio di una «realtà cartografica»; ma è anche un mondo dotato di una sua «geografia dell’immaginario» (p. 48). Sfogliando le pagine del volume, la Gran Bretagna appare come una protagonista sullo scacchiere geopolitico mediterraneo grazie ai suoi mercantili ed alla Royal Navy. Benché amministrasse Gibilterra, Malta e, tra il 1814 e il 1864, il Protettorato delle Isole Ionie la Gran Bretagna non era però certo la dominatrice indiscussa di quell’area, dovendo negoziare di volta in volta l’adozione di standard sanitari condivisi con gli altri Stati d’Europa. Emblematico a questo riguardo è un caso del 1825, quando la decisione delle autorità inglesi di permettere lo sbarco a Liverpool, senza la regolare quarantena, di un convoglio mercantile proveniente dall’Egitto provocò la ritorsione delle autorità sanitarie di vari porti italiani, che per qualche settimana predisposero quarantene per tutte le navi provenienti dalla Gran Bretagna (pp. 144-45). L’anno successivo, il governo di Londra dovette lavorare per ottenere l’approvazione di Malta come porto sicuro da parte delle autorità di vari Stati italiani, riuscendoci solo dopo aver acconsentito a una più lunga quarantena per le proprie navi militari (p. 130). Nel frattempo, comunque, la crescita della sfera d’influenza britannica nel Mediterraneo stava portando a un incremento nel numero di inglesi, scozzesi e irlandesi tra i governatori, i consoli e gli ufficiali incaricati di redigere le relazioni utilizzate dagli enti portuali dei vari Paesi (p. 138). Progressivamente, i contenuti dei loro rapporti andarono a costituire una quota sempre maggiore delle informazioni su cui le amministrazioni basavano il proprio lavoro: è quindi anche in questo senso, di carattere più prettamente discorsivo, che il sistema delle quarantene ci mostra un Mediterraneo che stava diventando sempre più “britannico”.
Come dichiarato dalla titolazione di alcune delle sezioni centrali del volume, il lavoro di Chase-Levenson si situa al punto d’incontro tra i filoni di studi sulla Nascita della Biopolitica e sull’Orientalismo, inaugurati sul finire degli anni ’70 del Novecento grazie alle riflessioni di Michel Foucault e di Edward Said, ed entrambi molto sviluppatisi nel corso degli ultimi due decenni. Per quanto riguarda «the building of a biopolity» (capitoli 3-5), è illuminante il caso della «morte sospetta di un francese» nel lazzaretto di Malta, ricordata come evento sinistro e spaventoso nel diario di un’ospite inglese della struttura, ma riportata in maniera asettica e professionale nelle fonti prodotte dagli impiegati maltesi (pp. 118-19). I lazzaretti venivano organizzati seguendo presupposti di carattere scientifico e razionale, secondo i quali ad essere presa in carico era la vita stessa degli ospiti. I loro corpi, fossero sani, malati o ormai privi di vita, erano ciò di cui si cominciava ad occupare questo nuovo modello di amministrazione sanitaria, per cui anche la morte stava diventando oggetto di governo, per quanto spaventoso ciò potesse apparire a molti contemporanei.
Allargando lo sguardo, l’autore suggerisce che l’amministrazione di quarantene e lazzaretti abbia rappresentato un primo esempio di integrazione europea, sebbene per vie parallele piuttosto che convergenti. Lo sviluppo degli apparati burocratici nell’ambito della prevenzione sanitaria procedette di pari passo nei vari Stati d’Europa, quasi indipendentemente dalle crisi politiche che si ebbero nei primi anni dell’Ottocento. Tuttavia, questa interpretazione deve essere accolta con cautela: come ammette lo stesso Chase-Levenson, la stabilità istituzionale sembra essere stata legata più al conservatorismo e al corporativismo all’interno delle burocrazie che a una reale volontà di sviluppare degli standard transnazionali di competenza amministrativa. Tra i vari esempi: un certo capitano Pulis, nominato a ricoprire un ruolo di responsabilità nel lazzaretto di Malta dal governo dei Cavalieri prima del 1798, lo mantenne sotto l’occupazione francese e quella inglese fino al 1831 (pp. 78-82). All’apparenza, ciò può apparire come il risultato di un consenso nel voler investire su esperienza e professionalità. Eppure, qualche pagina più avanti, ritroviamo lo stesso capitano Pulis sollevato dai suoi incarichi proprio nel 1831 («dopo anni di accuse e vigorose difese del suo onore da parte del sovrintendente») per aver preso parte al contrabbando delle merci in quarantena sulle quali avrebbe dovuto vigilare (pp. 121-22).
Il sesto capitolo risulta particolarmente efficace nel mostrare come il contagio fosse percepito come un pericolo di provenienza esterna rispetto al “mondo civilizzato”, quello dei Paesi dell’Europa occidentale. Esaminando esempi di letteratura di viaggio inglese e francese, Chase-Levenson tratteggia un immaginario collettivo che contrapponeva il “progresso” occidentale a un eterno “torpore” orientale, associando alle civiltà del Vicino Oriente una totale mancanza dell’ordine amministrativo tipico della modernità, e quindi presumendo anche il dilagare delle malattie in quelle aree geografiche. Il viaggiatore che si recava nell’Impero Ottomano era disposto a sottostare alle procedure sanitarie più restrittive, sentendo il bisogno di proteggersi da pericoli percepiti come onnipresenti. Peraltro, numerosi membri dell’élite ottomana si affidavano alle cure di medici occidentali residenti a Costantinopoli, il che suggerisce come il discorso medico europeo si presentasse a quest’altezza cronologica come sufficientemente autorevole da esercitare un’egemonia culturale anche fuori d’Europa (si vedano, a riguardo, le ricerche di Salvatore Speziale) – ciò nonostante gli accesi dibattiti interni che lo caratterizzavano, come quello tra contagionisti (che affermavano l’utilità delle quarantene) e anticontagionisti (che la negavano).
Il capitolo conclusivo, introdotto da una sarcastica rima byroniana («Adieu thou damndest quarantine / That gave me fever, and the spleen», p. 278), presenta un bilancio complessivo. Sebbene molte delle pratiche messe in atto nei lazzaretti possano apparire del tutto irrilevanti, persino bizzarre, sulla base delle moderne conoscenze batteriologiche e virologiche, e sebbene apparissero tali anche agli anticontagionisti del tempo, è un fatto storicamente accettato che fu proprio a cavallo fra Sette e Ottocento che alcune malattie epidemiche scomparvero dall’Europa (cfr. per esempio G. Restifo, I porti della peste, Messina 2005). A conti fatti, è probabile che la diffusione di una sensibilità medico-amministrativa attenta alla prevenzione sanitaria abbia contribuito a questo cambiamento. Dal punto di vista politico e sociale, liberali ed aristocratici (come appunto Lord Byron) si univano spesso agli anticontagionisti nel prendere di mira, seriamente o scherzosamente, gli isolamenti di persone e le fumigazioni di merci messe in atto dagli enti sanitari portuali, provvedimenti percepiti ad un tempo come autoritari ed egualitari. Tuttavia, sostiene l’autore, non fu per motivi ideologici che si giunse alla fine del sistema di quarantena universale, a cui, invece, si arrivò quasi all’improvviso tra gli anni ’40 e ’50 del XIX secolo, come conseguenza delle mutate condizioni geopolitiche. La Conferenza sanitaria internazionale del 1851 non fu un momento decisivo per la fine del sistema delle quarantene, le quali erano in ogni caso destinate a cadere sotto i colpi dell’interesse politico delle potenze europee per l’espansione coloniale in Africa e Asia. La quarantena, da barriera geografica, sarebbe presto diventata strumento di discriminazione razziale.
Nel complesso, The Yellow Flag costituisce un importante contributo alla storiografia sociale e culturale del Mediterraneo nel primo Ottocento. La padronanza di una mole notevole di fonti di varia natura consente all’autore di tracciare un quadro convincente di un insieme di pratiche e di istituzioni ancora relativamente poco studiate – ma si vedano la raccolta di saggi curata da J. Chircop e F. Martínez, Mediterranean quarantines, 1750-1914, Manchester 2018 e, per quanto riguarda le politiche mediterranee francesi, B. Pouget Un choc de circulation, Rennes 2020. In futuro, ci si potrebbe attendere un maggiore approfondimento degli aspetti prettamente italiani del sistema delle quarantene, poiché la Penisola, sia per la sua posizione geografica che per l’uso dell’italiano come una delle lingue franche mediterranee, risultava essere il vero e proprio epicentro della rete internazionale dei lazzaretti. Peraltro, una debolezza dell’approccio adottato nel libro è proprio lo sfasamento tra la centralità assegnata alle istituzioni sanitarie dell’area italiana e quella data alla prospettiva culturale britannica. Nonostante la relativa debolezza degli Stati italiani rispetto alle grandi potenze europee, essi detenevano una certa possibilità di manovra attraverso le burocrazie situate nei loro territori. Forse, più che testimoniare la crescita dell’influenza britannica nel Mediterraneo, l’esperienza storica delle istituzioni sanitarie portuali mostra in un certo senso proprio i limiti di tale egemonia geopolitica.
Tommaso Penna