Tesi di laurea magistrale in Storia e critica dell’arte, a.a. 2023/2024, relatore Prof. Mauro Elli, correlatrice Prof.ssa Giulia Lami
Il 9 novembre del 1987 gli italiani si recarono alle urne per prendere una decisione che avrebbe segnato profondamente lo sviluppo energetico del Paese. Benché il referendum non lo prevedesse direttamente, la vittoria del fronte antinuclearista ebbe come conseguenza l’abbandono di questa fonte di energia. Esplorare gli effetti del referendum, approfondendone in particolare il forte impatto che questa risoluzione ebbe sui lavoratori, sulle industrie del settore e sulle comunità locali coinvolte, è stato lo scopo di questa ricerca. L’esito referendario sul nucleare, infatti, ha sempre alimentato un intenso dibattito pubblico, generalmente concentrato sugli aspetti politici ed ambientali conseguenti alla chiusura delle centrali, rispecchiando e proseguendo la dialettica che lo accompagnò; tuttavia, quanto in quegli anni questa decisione pesò su scienziati, tecnici, imprenditori ed operai del settore rappresenta ancora oggi una lacuna da colmare.
Utilizzando come fonti una selezione della stampa d’informazione nazionale si è voluto ricostruire il clima di precarietà, segnato da disagi e proteste, conseguente al referendum abrogativo del 1987 e protrattosi fino al 1990, anno in cui, di fatto, il programma nucleare italiano fu definitivamente sospeso. L’analisi di questi anni è stata dunque un’indagine sull’epilogo della storia del nucleare italiano, che, a partire dai primi anni Cinquanta del Novecento, cioè dalle sue origini, fu caratterizzato da tensioni e decisioni contraddittorie.
Nello specifico, la tesi documenta ed analizza le vicende di cinque casi: le centrali di Trino Vercellese e Caorso, il cantiere di costruzione della centrale di Montalto di Castro, l’impianto di produzione del combustibile nucleare di Bosco Marengo e l’azienda nucleare della società Ansaldo. Un campione, dunque, rappresentativo di gran parte del settore italiano e dei suoi lavoratori, coinvolgendo anche le fasi del ciclo del combustibile attive in Italia e l’impiantistica. Quello che emerge con chiarezza è il fatto che il Governo italiano di pentapartito, guidato in quel momento da Giovanni Goria, nel momento in cui si decise di abbandonare l’atomo si mostrò assolutamente impreparato a gestire una situazione di tale portata, non riuscendo a formulare soluzioni a lungo termine. L’assenza di una strategia chiara e definita finì per creare preoccupazioni e tensioni fra i lavoratori, a diversi livelli di specializzazione, e nei territori sede delle centrali. Un esempio significativo di quanto abbiano pesato le decisioni governative sull’economia di un territorio è rappresentato dal Vercellese, area a vocazione agricola, nella quale pesava considerevolmente l’indotto generato dalla centrale preesistente a Trino e da quella in costruzione.
Le lotte fra i partiti della stessa coalizione governativa, proprio riferite al nucleare, alimentarono un clima di confusione, incertezza e precarietà, che pesò sui lavoratori del settore. La cassa integrazione rappresentò a più riprese l’unica soluzione adottata, malgrado la sua evidente valenza temporanea. Nemmeno le istituzioni statutariamente chiamate alla difesa dei lavoratori, quali i sindacati nazionali e locali, a causa di alterne differenze di vedute, si dimostrarono capaci di suggerire e perseguire con forza unitaria progetti ed azioni volti alla tutela di questi lavoratori. Pertanto, furono questi ultimi ad adottare differenti forme di protesta: più contenute, con cortei e scioperi, a Trino Vercellese, Caorso e Genova; più radicali a Montalto di Castro e a Bosco Marengo. In questi ultimi casi le azioni dei lavoratori si scontrarono più volte con le rivendicazioni degli ambientalisti; ciò portò a più riprese all’occupazione di tratti stradali e ferroviari, addirittura della stessa azienda a Bosco Marengo. Fu spesso necessario l’intervento delle forze dell’ordine per arginare atti violenti.
Malgrado le proteste, ai lavoratori e alle comunità territoriali furono presentate soluzioni eterogenee ed essenzialmente poco risolutive: se Ansaldo, dopo un momento di incredulità e sbandamento, puntò sulla diversificazione della propria attività, per le centrali fu decisa la chiusura definitiva o la riconversione a fonti energetiche considerati più “sicure”. Il decommissioning, ovvero il totale smantellamento in sicurezza delle centrali, sarebbe stata probabilmente l’alternativa più valida, ma accettare la fine definitiva del nucleare scontentava chi vi aveva tanto investito, ritenendola una fonte insostituibile per la sicurezza energetica, e presentava una sfida tecnologica e organizzativa, oltre che di consenso, che il paese non fu in grado di vincere.
Ciò che emerge dalla ricerca è il fatto che la storia del nucleare in Italia è stata condizionata principalmente dalla grave incapacità dei governi, che si sono succeduti tra il 1987 e il 1990, di progettare e gestire programmi a lungo termine nell’interesse del Paese e degli italiani. Impedimenti politici, prima ancora che strutturali, lecite e condivisibili preoccupazioni di una parte del mondo scientifico, dell’opinione pubblica, di ambientalisti, insieme ad eventi condizionanti imprevedibili, come lo stesso disastro di Chernobyl, si sono trasformati in pesanti ostacoli alla realizzazione di un’uscita ordinata dal nucleare, e i primi a pagarne le conseguenze, in quel momento, furono i lavoratori, ovvero la fascia più debole.