Festival èStoria (Gorizia, 23-26 maggio 2024)

Tra il 23 e il 26 maggio si è tenuto a Gorizia il festival èStoria, un gioiello nel calendario culturale della città friulana. Il festival, che quest’anno ha raggiunto la sua ventesima edizione, attrae studiosi e appassionati da tutta l’Italia, che possono assistere a lezioni, panel, discussioni e altre iniziative culturali in varie sedi nel centro di Gorizia; il leitmotiv che le congiunge è la Storia. Quest’anno, anche per celebrare un anniversario importante, il tema centrale sono state le Date: partendo da questo punto di riferimento, i vari incontri hanno analizzato eventi e fenomeni, dalla preistoria alla più prossima attualità.

Anche quest’anno il Dipartimento di Studi Storici ha rinnovato la sua collaborazione con èStoria: hanno partecipato in qualità di relatori alcuni docenti (Massimo Baioni, Antonino De Francesco, Marina Gazzini), mentre gli studenti dei percorsi d’eccellenza hanno partecipato in qualità di “inviati” del Dipartimento. Non potendo dare conto delle decine di eventi che si sono tenute nei giorni del festival, quelle che seguono sono le considerazioni su una piccola selezione di incontri, che rendono bene l’idea della varietà delle esperienze che si possono fare al festival.

1492

Lucia Bellaspiga, inviata di Avvenire, ha intervistato Antonio Musarra, professore di storia medievale alla Sapienza e autore di 1492. Diario del primo viaggio, aprendo il festival delle date con uno degli avvenimenti cardine della periodizzazione occidentale: la “scoperta” dell’America.

Nel maggio del 1453 Costantinopoli cadde in mano agli Ottomani, si imponeva così un filtro inamovibile tra l’Occidente ed i traffici orientali, con un conseguente invito per gli stati atlantici alla ricerca di nuove rotte per accedere a quei ricchi mercati. È in questo contesto che la figura di Colombo si afferma, con l’idea innovativa di “buscar l’oriente con il poniente”, ovvero, sfruttare la rotondità del globo ed i venti atlantici (“gli alisei”), per evitare la circumnavigazione dell’Africa, nella quale i portoghesi erano impegnati, e trovare una via più diretta per l’Oriente.

Dopo la spiegazione del contesto, l’intervento si è poi spostato sui protagonisti della spedizione, fermandosi su alcune figure particolari, come i fratelli Pinzon, che durante l’arruolamento vennero in aiuto di Colombo, fornendogli, grazie alla loro influenza, approvvigionamenti ed equipaggio in un momento in cui la spedizione appariva incerta e pericolosa, o come Rodrigo de Triana, il primo uomo ad avvistare la terra dalla Pinta.

Nel marzo del 1493 Colombo fece ritorno a Palos dopo diversi mesi di viaggio, concludendo il viaggio con un parziale successo: egli aveva sì trovato una terra, che aveva scambiato per il Cipango (odierno Giappone) descritto da Polo, ma non vi trovò né le città, né le ricchezze sperate. Per questo al primo viaggio ne fece seguito un altro, stavolta in grande stile: una spedizione di 17 navi, sotto le insegne de los reyes catòlicos, per rivendicare, senza ombra di dubbio, la proprietà delle nuove terre.

Data la mancanza di risultati, Colombo ne intraprese un terzo, durante il quale arrivò per la prima volta nel continente americano, avvistando le foci del fiume Orinoco, nel Venezuela. Questo viaggio fu fatale alla sua reputazione: infatti, la sua incapacità di trovare le ricchezze del Milione (mancanza perdonabile, con il senno di poi) si sommò alla cattiva amministrazione della nuova colonia caraibica, a lui affidata, costringendolo ad un inglorioso ritorno in Spagna. Il suo nome venne poi riabilitato per intercessione della regina Isabella, grazie alla quale compirà il quarto viaggio, l’ultimo ed il più disastroso, durante il quale fu lasciato per mesi in Giamaica naufrago e senza soccorso. Tornato in Europa morirà a Valladolid, screditato e amareggiato: un finale che forse è sintomo, dice Musarra, di un’invidia spagnola, per un élite genovese che in quegli anni si trovava in un ruolo di primo piano, sia dal punto di vista bancario sia dal punto di vista politico, controllando la curia papale.

L’impatto che la nuova terra ebbe sui marinai emerge bene nel diario di Colombo (opera fondamentale creata grazie alle testimonianze del figlio Fernando e di Bartolomé de Las Casas), ed è per questo che l’incontro non poteva non trattare del primo contatto degli esploratori con l’ignoto. In quest’ambito Musarra fa notare un fenomeno particolare: le aspettative sull’oriente, formate dall’accumularsi di un immaginario medievale di racconti e leggende, portano a ricondurre elementi di quella nuova realtà alle aspettative della stessa, identificando lingua, luoghi o persone con qualcosa di più familiare in una trasposizione delle conoscenze. Un esempio si può osservare in un episodio raccolto nel diario nel quale l’esploratore raccontò di aver veduto delle sirene, rimanendo deluso dal loro aspetto: “Hanno volti mascolini e non sono belle nemmeno la metà di come le dipingono”,mentre probabilmente, non vide altro che dei lamantini, riconducendoli ad un essere a lui più familiare.

Anche il rapporto con gli indigeni è descritto nel diario. Si tratta di una relazione contraddittoria, di cui ci rimangono solo fonti europee, dalle quali emerge un rapporto complesso. Mentre in principio i nativi vengono descritti come uomini semplici e pacifici, si nota però una costante presunzione di superiorità nelle descrizioni. Una presunzione che si concretizzerà in vari episodi di spostamenti forzosi, a partire da un gruppo di indigeni portati in Spagna durante il primo viaggio, e di altri episodi di prevaricazione che segnarono fin dal principio i rapporti tra spagnoli e locali. 

L’immagine dell’esploratore risultò centrale nella narrazione nazionale americana fin dalla nascita. Nonostante non avesse mai toccato il suolo nordamericano, il genovese incarnava la narrativa post-rivoluzionaria degli States: un self made man, che aveva subito delle ingiustizie dalle istituzioni del vecchio continente. Su questa linea di pensiero, verso la fine dell’Ottocento, cominciò ad affermarsi una nuova festività: il Columbus day, che sarebbe poi stata ufficializzata da Roosevelt negli anni ’30.

Questa immagine, però, fu a mano a mano rivista a partire dagli anni Ottanta, sull’onda delle proteste delle associazioni indigene, che andarono a identificare il 1492 come una data dolorosa: l’inizio della dominazione europea in America. Un processo che ha avuto il suo apice nel 2020, quando a Richmond una statua dell’esploratore fu abbattuta sull’onda del movimento BLM.

Nella sua riflessione finale Musarra ha espresso un invito ad un’altra via, alternativa alla cancellazione della memoria materiale: una via che possa permettere una contestualizzazione di personaggi che, agendo con parametri mentali estranei ai nostri, devono essere presi nel loro particolare contesto storico.

15 marzo 44 a.C.

Venerdì 24 maggio si è tenuto l’incontro 15 Marzo del 44 a.C., con i relatori Luca Fezzi e Mariangela Galatea Vaglio, moderati da Daria Crismani. La protagonista di questo incontro è stata una data rimasta indelebile nella cultura europea di ogni epoca successiva: Le Idi di Marzo del 44 a.C., durante le quali si consumò l’assassinio di Caio Giulio Cesare.

Già alle prime luci dell’alba, in un angolo nascosto del Senato, qualcuno avrebbe potuto notare una cassetta, spesso usata per la posta e per i documenti della burocrazia romana, ma che quel giorno conteneva anche il pugnale che avrebbe modificato il corso della storia.

Furono due le date fondamentali per la vita di Cesare: il varco del Rubicone e il giorno della sua morte, evento del tutto inaspettato. Sembra quasi impossibile credere che un uomo del suo calibro, che come nessuno era riuscito a leggere e a comprendere gli intricati eventi della vita di Roma, sia stato tanto cieco da non accorgersi di cosa stesse succedendo proprio sotto i suoi occhi. L’assurdità della vicenda viene esasperata anche dai continui avvisi di pericolo che per mesi lo avevano raggiunto, anche dallo stesso Cicerone. Non è facile comprendere il motivo di tale atteggiamento, da spiegarsi o come un suo tratto caratteriale, che lo portava a sottostimare le minacce di uomini che proprio lui aveva già perdonato nel corso della sua carriera o come una sopravvalutazione del suo fascino, che lo avrebbe dovuto proteggere da qualsiasi minaccia.

Proprio quella mattinata, spinto dai sogni nefasti della moglie Calpurnia, Cesare stava quasi per decidere di non recarsi in Senato. Aveva ormai 56 anni, era stato più volte messo in guardia ed aveva avuto anche la previsione di un indovino, che gli avrebbe confermato la pericolosità delle Idi di Marzo per la sua persona. Nonostante tutto, alla fine, uscì di casa e una volta entrato in Senato si rivolse proprio a quell’indovino, mettendo in discussione la veridicità della sua previsione. Plutarco ci riporta anche la risposta di quest’ultimo, che gli ricorda come il giorno non sia ancora giunto al termine.

La consapevolezza dell’importanza della morte di Cesare ha attirato la curiosità e la penna di grandi menti dell’antichità, ancora prima di Shakespeare, e ciò ha portato alla nascita di svariate versioni della vicenda, spesso non in linea fra loro. Sappiamo che circa un mese prima dai fatti, si consumò un sacrificio nel quale l’aruspice non trovò il cuore del bovino sacrificato. La veridicità della vicenda viene garantita da Cicerone un anno dopo nel De divinatione, seppur con molto scetticismo.

Un altro fattore determinante fu il caso, oggetto di studio sin dall’epoca ellenistica. Ma la parola che ricorre maggiormente per narrare gli eventi riguardanti quella mattina è spesso usata nell’ambito dei giochi regolati dalla sorte ed è “automaton”, che indica proprio qualcosa che cade addosso senza ratio. C’è una persona in Senato, che nella tipica confusione che precede i momenti di voto o di discussione, si avvicina a Cesare per consegnargli direttamente un avvertimento preciso, ma tra la folla il messaggio non arriva al diretto interessato. È proprio questa che Plutarco definisce come vicenda governata dall’automaton.

Nella ricostruzione della vicenda non si può però prescindere dal comprendere come dietro le fonti ci sia anche una splendida ricostruzione letteraria, che rispecchia l’amore per gli antichi di costruire delle belle storie, anche a costo di sacrificare l’oggettività assoluta. In Plutarco, Casso Dione e in tutti coloro che affrontarono l’argomento si evince la voglia di creare una vera propria tragedia che viene palesata da una serie di fattori puramente letterari: un eroe che pecca di hybris,che non ascolta gli avvisi che gli stessi dei gli hanno mandato e che quindi non può non essere punito, ma anche il tradimento di coloro che gli erano più vicini: Marco Antonio, che tace sulla vicenda nonostante gli avvertimenti; Decimo Bruto, uno degli ufficiali di Cesare fin dalla Gallia, citato nel suo testamento, futuro governatore della Transpadana e colui che lo va a prendere a casa e lo convince ad andare in Senato.

Per la comprensione della vicenda, non si può prescindere dalla conoscenza del “Cesare giovane”, un ragazzo che non ebbe fin da subito delle idee politiche chiare, ma solo una grande ambizione, figlia del sistema politico romano, che lo spinse a sentirsi destinato a grandi cose. Il “primo Cesare” ci è poco noto, la prima parte della biografia di Svetonio non ci è pervenuta, mentre quella di Plutarco inizia dalla morte del padre. È un personaggio proveniente dai mariani, sconfitti nella guerra civile, che deve nascondersi da Silla, ma è così sicuro di sé che rifiuta l’ordine di quest’ultimo di divorziare da Cornelia, e quando venne catturato dai pirati si fa beffe di loro e li punisce con la morte dopo il riscatto. Le biografie lasciano intendere che non ebbe mai una salute di ferro, mancanza compensata però dall’enorme forza di volontà.

Cesare non fu un grande giocatore d’azzardo, non ebbe molti vizi, amava molto le compagnie femminili e maschili, era un gran pianificatore, freddo ma con la capacità di presentarsi sempre al meglio, con la capacità di rischiare, di mettersi in gioco e con il bisogno di affermarsi, dato che i Giuli all’epoca erano ormai alle strette e non avevano molto se non il loro nome. Plutarco racconta che in Spagna Cesare ebbe una crisi di nervi dinanzi ad una statua di Alessandro Magno, sentendosi in ritardo rispetto ai successi fatti dal macedone alla stessa età. Cesare non fu solo un grande generale, prima e soprattutto fu un grande politico e scrittore, capacità che gli fu utilissima per la propria propaganda. Riuscì infatti a trasformare i suoi dispacci militari in appuntamenti periodici non solo per il Senato ma soprattutto per il popolo, che poteva sentire notizie dell’unico grande timore di Roma, i Celti. Anche oggi noi abbiamo l’idea che Cesare stesso voleva trasmettere e la sua morte ha fissato per sempre quella nell’immaginario collettivo come un’icona.

Le Idi di Marzo diventano la svolta per una nuova epoca, non ci sarà più la Res publica, al contrario di come avevano immaginato i congiurati. Ma se Cesare non fosse morto? Sappiamo che stava pianificando una campagna contro i Parti, se avesse avuto successo non ci sarebbero state minacce orientali almeno fino ai Sassanidi nel III secolo d.C. E anche la Germania sarebbe stata maggiormente difesa e protetta, ma il fato non teneva questo in serbo per Roma.

2004: 20 years from the eastern enlargement of the European Union

Nel pomeriggio si è tenuta l’incontro intitolato “2004: 20 years from the Eastern enlargement of the European Union”. Ana Bojinović Fenko, docente di Relazioni Internazionali presso l’Università di Lubiana, ha dialogato con Demetrio Kompare, studente all’Università di Trieste ed esponente dell’associazione studentesca Fast.

Lo scopo era analizzare gli effetti del cosiddetto Big Bang Enlargement del 2004, cioè l’entrata nell’Unione Europea di dieci nuovi paesi, otto dei quali dell’Europa centrale e orientale (Repubblica Ceca, Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Ungheria, Malta, Polonia, Slovenia, Slovacchia). Si sono voluti quindi mettere in luce gli effetti di questo avvenimento, sia sui paesi già in precedenza membri dell’Unione sia su quelli che quest’anno festeggiano i vent’anni dal loro ingresso, sia sull’Unione Europea nel complesso.

Lo strumento analitico impiegato è quello della relazionalità (relationality), proprio delle scienze sociali. Si tratta di un paradigma interpretativo utile per lo studio di dinamiche complesse, che coinvolgono numerosi attori: si fonda infatti sull’analisi delle posizioni e delle interazioni dei soggetti coinvolti, con lo scopo di metterne in luce i cambiamenti nel corso del tempo. Dunque, studiare il Big Bang Enlargement con il paradigma della relazionalità significa porsi domande sull’identità dei vari paesi, specialmente quelli usciti dalla quarantennale esperienza comunista, all’indomani del loro ingresso nell’Unione.

Un altro concetto centrale, legato a doppio filo con quello di relazionalità, è quello di europeizzazione (europeanization). Tale paradigma permette di descrivere più concretamente le dinamiche di influenza, a doppio senso, tra l’Unione Europea e gli stati membri: si tratta di un approccio che riesce a rendere conto della gradualità dei cambiamenti implicati dal Big Bang Enlargement. Le dinamiche di europeizzazione principali sono tre, e vengono descritte con termini presi in prestito dal linguaggio informatico.

Innanzitutto, l’up-load, cioè la proiezione degli interessi nazionali nel sistema politico europeo. In seconda battuta, il download: le decisioni prese centralmente dall’Unione si riflettono nei singoli paesi. Infine, il cross-load: l’identità nazionale viene trasformata ed integrata con una nuova identità europea.

Per essere però in grado di analizzare in modo più efficace il Big Bang enlargement bisogna ricostruire, seppur brevemente, la storia dell’Europa dall’indomani del secondo conflitto mondiale.

L’Unione Europea inizia a muovere i primi passi come CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) dopo la Seconda guerra mondiale: viene fondata nel 1951, a seguito della dichiarazione Schuman. Nel 1957, poi, i trattati di Roma portano alla fondazione della CEE, la Comunità Economica Europea. Paesi storicamente caratterizzati da forte rivalità decidono quindi di superare il loro passato inimicizia tramite la cooperazione economica. Ma questo nuovo soggetto politico ha bisogno di un’alterità con cui misurarsi, e il processo di confronto con l’altro si instaura su due binari.

In primo luogo, l’Altro è il sé del passato: si tratta quindi di un’alterità time-related. In seconda battuta, l’Altro è geografico (space-related): è l’Europa orientale, al di là della cortina di ferro. Questa seconda opposizione si allenta parzialmente nel corso degli anni Sessanta e Settanta, anche grazie agli accordi di Helsinki (1975) e all’ostpolitik.

Gli anni Ottanta e Novanta sembrano poi portare con sé, almeno per quanto riguarda il processo di integrazione europea, fiducia e speranza. Il trattato di Maastricht del 1992 sancisce la nascita dell’UE per come la si conosce oggi; con il crollo del blocco sovietico, inoltre, la cortina di ferro si solleva. Questo clima di positività viene parzialmente incrinato dallo scoppio delle guerre civili a seguito della disgregazione della Jugoslavia.

Si può quindi tornare all’oggetto della nostra analisi, il Big Bang Enlargement. L’obbiettivo di questo volo d’uccello sulla storia europea, dice la professoressa, è quello di fornire qualche strumento critico per rispondere all’idea euroscettica, diffusa in alcuni paesi europei dell’est, secondo cui i paesi protagonisti del Big Bang Enlargement sono soggetti passivi, penalizzati dalle decisioni di una Bruxelles lontana e indifferente. In realtà, tali paesi sono fondamentali nelle dinamiche dell’Unione, cui partecipano attivamente. Inoltre, la professoressa Fenko spiega che la storia dell’UE dovrebbe insegnare agli stati, ma soprattutto ai cittadini europei, a proiettarsi piuttosto verso l’accoglienza e il dialogo costruttivo, opponendosi alle politiche e ai discorsi esclusivisti.

1348: fu una vera crisi?

La conferenza dei professori Bruno Figliuolo, Elisabetta Scarton e Marina Gazzini ha avuto per tema il 1348, anno d’inizio dell’epidemia di peste a Firenze.

Docente di Storia medievale all’Università degli Studi di Udine, Figliuolo ha introdotto l’argomento trattando il tema dell’arbitrarietà delle date e il rapporto conflittuale tra queste e lo storico. Agli inizi del ’900 il concetto di data viene ridimensionato e si sperimenta un nuovo modo di fare storia basato su strutture lunghe, strutture brevi, e congiunture. L’evento viene riletto come un concetto insidioso che può essere usato dallo storico come giustificazione per spiegare in modo più semplice un fenomeno poco chiaro allo studioso stesso, come nel caso del 1348. Figliuolo ricorda che la crisi del ’300 è probabilmente un’invenzione storiografica basata su tante congiunture di differente durata e incidenza, come l’epidemia, il fallimento dei banchi fiorentini, le carestie nelle campagne, il calo demografico, che tuttavia non portarono ad un vero cambiamento della struttura europea. La rappresentazione tipica di un’Europa in ginocchio nella seconda metà del XIV secolo si scontra ad esempio con la realtà del terzo conflitto genovese-veneziano, combattuto tra il 1350-1355, che mostra invece due città con grandi capacità belliche e un’economia abbastanza florida per affrontare una guerra di conquista.

Il secondo intervento, tenuto dalla professoressa Scarton, docente di Storia medievale all’Università degli Studi di Udine, ha analizzato l’incidenza della crisi trecentesca sul territorio friulano. Tra aprile e settembre del 1348 la malattia raggiunse tutta l’Italia, risparmiando solo Milano e poche altre zone in cui l’epidemia è, infatti, poco documentata, come nel caso del patriarcato di Aquileia. La tradizione storiografica, affidandosi alle vaghe e labili tracce documentarie, ha sempre sostenuto che nel Friuli la peste incise poco, forse per la scarsa densità demografica. Sono due le fonti documentarie principali che attestano l’epidemia: la prima è una delibera del Comune di Udine dell’aprile 1348 in cui viene vietato l’accesso in città ai malati o a coloro che si fossero recati di recente a Venezia. La seconda fonte è la Cronaca di Spilimbergo in cui si registra la visita del re di Ungheria del 1348, e il suo ritorno tempestivo per l’arrivo di una possibile malattia legata ai polmoni. Però utilizzando una fonte alternativa, come la genealogia di una famiglia di Cividale, si è arrivati a conclusioni differenti. Nei libri anniversari compilati da un’esponente della famiglia, Nicolò notaio, viene registrata la morte di un numero molto elevato di familiari tra il 1348 e il 1350, quasi sicuramente morti di peste, che dimostra quindi che ci fu una crisi nell’area friulana. Tuttavia, i fattori che contribuirono a creare una situazione di emergenza sono molteplici, come ad esempio l’abbassamento improvviso delle temperature che rovinò i raccolti, causò l’aumento dei prezzi e della mortalità per un indebolimento generale della popolazione. La crisi climatica è testimoniata da Giovanni di Odorico da Pordenone, piccolo possidente terriero che registrò le conseguenze di piogge intense, periodi di siccità, invasioni di cavallette che gravarono sul suo podere tra il 1310 e il 1324. Nel gennaio del 1348 la situazione si aggravò per un terremoto che provocò morti e danni, ma in questo momento di difficoltà è spiazzante leggere il bilancio del 1349 del patriarca Bertrando, in cui si legge degli investimenti artistici da lui commissionati e dell’economia florida della città di Udine, che sembra ribaltare completamente la prospettiva descritta dalle altre fonti.

 L’ultima parte della conferenza è stata presentata dalla professoressa Marina Gazzini, docente di Storia medievale all’Università degli Studi di Milano. Il tema centrale dell’intervento è stato l’aggiornamento della ricerca storica. Le teorie storiografiche, come la crisi del XIV secolo, possono essere superate con il progresso della ricerca cambiando i paradigmi teorici condivisi e riconosciuti dagli studiosi. Spesso però storici non professionisti creano teorie indimostrabili e accusano gli esperti di nascondere la realtà dei fatti per proteggere i poteri politici, religiosi, economici.  Sono state teorizzate due nuove periodizzazioni che cancellano interi periodi storici, tra cui il Medioevo. La Phantomzeit theorie, o teoria del tempo fantasma, è stata formulata dall’ingegnere Hans-Ulrich Niemitz e dallo storico Heribert Illig dopo aver partecipato ad un convegno sull’abbondanza di documenti falsi nel Medioevo, da cui i due autori hanno dedotto che l’intera l’età medievale fosse in realtà un’invenzione storiografica. La prova a sostegno della nuova cronologia, che elimina 297 anni di storia, è il passaggio dal calendario giuliano a quello gregoriano che ci fu nel 1582. Secondo questa nuova cronologia in realtà il passaggio avvenne nel 1257, ed è proprio in quella circostanza che furono creati a tavolino i tre secoli restanti. Questa teoria è stata subito smentita da storici professionisti sottolineando che la data usata per ricalcolare i giorni era stata il 325, anno del Concilio di Nicea, e non l’anno 0. La seconda cronologia innovativa è la Novaja chronologija di Anatolij Fomenko, un matematico russo, il quale sostiene che in realtà sono stati inventati quasi 3000 anni di storia dai poteri occidentali succedutisi nel tempo per offuscare la grandezza dell’impero russo. Secondo la teoria di Fomenko, in realtà tutti i grandi personaggi della storia fino all’XI secolo sono solo un’invenzione basata su protagonisti della storia russa. Fomenko non cita la crisi del 1348 perché la sua è una storia evenemenziale, di grandi date e personaggi rappresentativi, non lascia spazio a problemi economici, sociali, religiosi cadendo in uno tipo di studio limitato e sorpassato dal mondo accademico.

1789

L’incontro intitolato “1789” si è sviluppato come conversazione attorno alla Rivoluzione francese tra Jean-Clément Martin, professore emerito della Sorbona, e Antonino De Francesco, professore di storia moderna del nostro Ateneo. La discussione è ruotata attorno a tre nuclei tematici: l’inizio della Rivoluzione, il suo rapporto con la violenza e come si è interfacciata con il popolo.

Entrambi hanno rifiutato il canonico 14 luglio che, osserva De Francesco, è una data scelta dalla Terza repubblica francese perché non eccessivamente controversa. Martin ha suggerito il mese di ottobre, con il ritorno forzato del re a Parigi, mentre De Francesco propone l’importanza del 4 agosto. Gli eventi della notte del 4 agosto sono l’inizio di qualcosa di nuovo: l’abolizione dei privilegi feudali decreta la fine dell’antico regime e l’inizio della modernità. Gli eventi dell’ottobre del 1789 paiono a Martin più convincenti, in quanto rappresentano una vera presa di coscienza sulla portata dell’accaduto da parte dei rivoluzionari; il 4 agosto, invece, viene considerato come una macchinazione politica da parte dell’élite borghese per riportare l’ordine dopo mesi di subbugli nelle campagne; infatti, per vedere miglioramenti effettivi nelle vite dei contadini francesi si sarebbe dovuto aspettare gli anni ’30 dell’Ottocento. L’ultima riflessione di De Francesco è stata sul valore che una macchinazione politica può avere: il suo essere frutto di un calcolo politico non rende l’evento meno rivoluzionario, né si può sottovalutare il valore simbolico dello scardinamento dell’antico regime.

In materia di violenza, Martin è tornato alla seconda metà del Seicento, alla rivoluzione in Inghilterra, la prima ad associare strettamente i due concetti. In senso etimologico, ricorda, ogni stravolgimento è rivoluzione; la presa della Bastiglia si configura così non come un evento straordinario ma come parte di un sistema di violenza considerato assolutamente normale, soprattutto se si considera che la situazione era andata esacerbandosi già dal 1786. Puntualizzando in materia di etimologia, De Francesco ha osservato che l’origine del termine “rivoluzione” viene dall’ambito scientifico: la rivoluzione era un ritorno a un punto di partenza originario, migliore, ritenuto perso. La novità della Rivoluzione francese sta proprio nel cercare, anziché un ritorno a un passato aureo, un futuro nuovo. In questo contesto la violenza è da percepirsi in maniera diversa: per quanto il collasso dell’ordine pubblico sia innegabile, la violenza, di per sé, è normale nell’antico regime. La novità non è la violenza in sé, quanto l’uso che se ne fa: la violenza non è un fenomeno, ma uno strumento sfruttato dalla politica.

L’ultima riflessione è stata sul popolo e sul Terrore. De Francesco ha spiegato come tutta la politica rivoluzionaria sia nel nome del popolo e contro le fazioni: il popolo è un espediente per ogni parte politica, che dichiara i propri rivali faziosi persecutori di un interesse particolare e che si vuole difenditrice della volontà generale. Così il popolo diventa strumento di legittimazione quando se ne condivide l’opinione, mentre quando gli si è opposti si denuncia chi lo ha ingannato o male consigliato; l’ipotesi che il popolo sbagli è inaccettabile, siccome la sua volontà è quella della nazione. Questo popolo, buono o cattivo all’occorrenza, con l’avvento della repubblica nel settembre 1792, conosce una trasformazione: da mero oggetto della politica rivoluzionaria diventa un soggetto, con sempre più potere. Casi come le giornate insurrezionali del 31 maggio e 2 giugno 1793 rappresentano un ritagliarsi uno spazio sempre maggiore da parte di questo nuovo agente: le sezioni di Parigi si presentano come espressione del popolo richiedendo l’espulsione dei deputati girondini, contro la Convenzione nazionale, dove siedono quelli che dovrebbero essere i rappresentanti del popolo.

Martin ha fatto una proposta di periodizzazione che va oltre il Terrore: alla fine del 1793 la Convenzione nazionale dà origine al “governo rivoluzionario”, sospendendo la costituzione fino alla pace; non si tratta di un totalitarismo, ma di una sospensione della democrazia a causa della guerra. Il termine “Grande Terrore” con cui viene descritto il periodo risale agli anni ’30 del Novecento; la nozione era stata voluta dai sanculotti, ma respinta dalla stessa. A partire dal 1795 si va a costituire un regime politico dove a comandare è una ristretta élite, che decide chi può votare e che esclude dalla politica il popolo (e ancor più le donne e le altre categorie marginali): si tratta di un sistema antidemocratico in continuità con la dittatura provvisoria del Comitato di salute pubblica.

A chiudere la discussione è stato De Francesco, che ha offerto qualche spunto di riflessione sulle rivoluzioni oltre quella francese: il primo punto di paragone inevitabile è quello della Rivoluzione russa, i cui echi hanno notevolmente influenzato il modo in cui nello scorso secolo si sono studiate le rivoluzioni; il momento in cui nasce l’idea di “Grande Terrore” non è casuale. L’ultima suggestione è stata sull’attuale stato degli studi sulle rivoluzioni e sul fatto che tanta storiografia contemporanea consideri tutte le rivoluzioni come uguali e sullo stesso piano. De Francesco lo considera un errore: queste rivoluzioni non sono semplici avvenimenti, ma va anche considerata la portata rivoluzionaria delle rivoluzioni stesse. Ecco dunque l’importanza di ritornare a studiare il 1789.

Italia 1911: tra celebrazione del Risorgimento e aspirazioni imperiali

Nella mattinata di sabato 25 maggio Massimo Baioni, docente di Storia contemporanea presso la nostra Università, ha tenuto una lectio intitolata: “Italia 1911: tra celebrazione del Risorgimento e aspirazioni imperiali”.

“Perché l’anniversario dell’unificazione nazionale ci aiuta a comprendere la società italiana?”: così Baioni introduce il suo intervento. Il 1911 è un anno di fondamentale importanza in quanto unisce due grandi eventi: l’anniversario dell’unificazione nazionale, con le manifestazioni di Roma, Torino e Firenze, e l’inizio delle operazioni in Libia, che mettono in mostra le aspirazioni imperiali italiane. Questo anno è fortemente simbolico perché mostra in maniera molto chiara la centralità del Risorgimento nell’uso pubblico della storia a tal punto da diventare un mito, utile per la creazione di un sentimento di appartenenza nazionale. Il Risorgimento, infatti, è un periodo della storia italiana con cui tutti i regimi politici si sono confrontati per “fare e rifare gli italiani”.

Baioni prosegue nella sua disamina dimostrando quali sono le varie letture del Risorgimento sviluppatesi tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900 e che hanno trovato espressione proprio nelle manifestazioni per il cinquantenario dell’unificazione. Queste ultime, non a caso, si sono svolte nelle città che sono state capitali del regno d’Italia: a Torino sono state trattate tematiche inerenti allo sviluppo economico e tecnologico, in quanto città dell’industria; a Firenze sono state affrontate questioni artistiche, in quanto città emblema della cultura; a Roma, invece, queste mostre furono più articolate e differenziate.

Roma è da considerarsi come il fulcro di tutte le manifestazioni legate al Risorgimento che hanno l’obiettivo di mostrare una visione del Risorgimento di tipo conciliatorista, in cui i grandi protagonisti sono raffigurati in modo armonioso, mantenendo nascoste le divergenze. La vignetta simbolo di questa costruzione artificiale operata dall’Italia giolittiana è la “Partita a tresette in paradiso” in cui Vittorio Emanuele II, Carlo Alberto, Giuseppe Garibaldi, Camillo Benso conte di Cavour, Giuseppe Mazzini e Pio IX vengono rappresentati intorno a un tavolo durante una partita a carte con atteggiamenti amichevoli.

I quattro “grandi fattori” sono i membri del Pantheon del Risorgimento italiano che viene edificato solo dopo la morte di queste illustri figure politiche con lo scopo di esaltarne lo spirito patriottico. L’esempio principe è Giuseppe Mazzini, componente del Pantheon nonostante fosse stato condannato più volte dal governo piemontese per le sue posizioni repubblicane. Accanto a queste raffigurazioni promosse dal governo crispino a fine Ottocento e ribadite nel corso dell’età giolittiana vengono intitolate ai protagonisti dell’unificazione vie, piazze e parchi, sempre con lo scopo di costruire un sentimento di appartenenza nazionale.

La rappresentazione conciliatorista cerca di mettere insieme le “varie Italie”: quella di tradizione liberale che ha come riferimento Cavour, quella di tradizione popolare che ha come riferimento Garibaldi, quella di tradizione repubblicana che ha come riferimento Mazzini, quella di tradizione cattolica che ha come riferimento Pio IX, anche se in quest’ultimo caso incide ovviamente la dura contrapposizione tra Stato e Chiesa. Baioni ha sottolineato come il Risorgimento sia un conflitto di memorie, in cui ogni Italia ha le proprie date, i propri eroi e le proprie feste. Gli organizzatori delle manifestazioni hanno cercato di valorizzare ogni Italia perché la varietà non doveva essere un ostacolo alla formazione dello spirito patriottico; il concetto di varietà viene mostrato anche nelle esposizioni etnografiche delle regioni, in cui ogni tradizione locale era fondamentale per costruire l’Italia.

Prima di passare alla guerra coloniale, Baioni sottolinea come negli stessi mesi venga inaugurato il Vittoriano. Il monumentale altare, situato sul Campidoglio, doveva essere il tempio della patria, anche se nella prima fase si caratterizza come un monumento essenzialmente dinastico; solo dopo il 1921, con la deposizione della salma del milite ignoto, assumerà una valenza nazionale.

Nel 1911 inizia la campagna libica e la retorica pubblica – tra gli autori degli articoli troviamo anche Pascoli – parla di “necessità dell’espansione coloniale italiana”, i giornali riportano diverse vignette raffiguranti il tricolore che sventola sulla Tripolitania. Ci troviamo di fronte ad un nuovo nazionalismo, quale è quello proposto da Federzoni, Corradini e Rocco, in cui il mito di Roma, con la retorica del mare nostrum, si mescola con il Risorgimento.  Questa nuova ideologia politica viene messa bene in evidenza in un discorso di Ettore Pedotti, ex ministro della guerra, che al congresso di storia del Risorgimento del 1911 afferma la vitalità dell’espansione coloniale come realizzazione delle premesse risorgimentali; Pedotti chiama a raccolta tutte le componenti del popolo italiano invitandole a reclamare il posto al sole che spetta alla nazione.

È il primo segnale della lettura del Risorgimento, all’epoca non ancora maggioritaria (bisognerà attendere il fascismo), non come periodo che porta all’unificazione nazionale, ma come processo in cui lo Stato unitario diventa la tappa necessaria per la proiezione dell’Italia nello spazio mediterraneo. Questo nazionalismo è presente anche nei giorni precedenti l’ingresso in guerra dell’Italia, come è evidente nel discorso di Quarto di D’Annunzio.

Baioni conclude l’intervento mostrando come il 1911 sia dunque un osservatorio ideale per cogliere il compimento del lungo processo di costruzione patriottica avviato dall’Italia liberale intorno all’uso pubblico del Risorgimento e al tempo stesso per evidenziare i segnali di una trasformazione che mostrerà tutte le sue implicazioni negli anni successivi.

Giovanni Baido, Nunzio Lauretta, Beatrice Savoia, Francesca Pezzaglia, Daniele Musatti e Paolo Baroni