Antifascismo, un bilancio storiografico, Milano, 15 febbraio 2024
Il 15 febbraio 2024 si è svolta a Milano la seconda edizione di Orizzonti storiografici. Libri sull’età contemporanea, seminario di discussione organizzato dal Dipartimento di Studi Storici della Statale. Tema di questa edizione è stato l’antifascismo, di cui si è tentato una sorta di bilancio storiografico attraverso il confronto con alcuni libri recenti.
Nicola Del Corno ha presentato la raccolta La forza della libertà. L’antifascismo dall’Aventino alla seconda guerra mondiale, frutto del convegno omonimo tenutosi a Bari nel marzo 2022. A cura di Patricia Chiantera-Stutte e Maurizio Pagano, l’opera rientra nel nuovo orizzonte storiografico in cui all’antifascismo è riconosciuta una sua dimensione autonoma rispetto alla vecchia prospettiva secondo cui il prima -gli anni dell’esilio e della cospirazione – sarebbe stato un qualcosa in funzione di quanto accaduto dopo, ossia la Resistenza e la nascita della Repubblica.
I saggi si concentrano sulle diverse anime che hanno caratterizzato la storia ventennale dell’antifascismo. Ad esempio, Anna Rita Gabellone si è focalizzata sulla percezione internazionale dell’antifascismo, in particolare sul mito scaturito in Gran Bretagna in seguito alla morte di Matteotti, da cui sarebbe sorto il Women’s International Matteotti Committee di Sylvia Pankhurst. Al contesto britannico fanno poi riferimento Santi Fedele e Colin Tyler, autore di un intervento sui legami tra il pensiero di Carlo Rosselli e la cultura politica inglese nella formulazione del suo “socialismo liberale”. La dimensione internazionale dell’antifascismo è stata sottolineata anche da James Connelly, soprattutto in merito alla reciproca influenza tra gli ambienti culturali italiani, francesi e inglesi.
Un altro tema centrale è quello della libertà, che, oltre a dare il titolo al convegno, è ricorrente nella prosa antifascista, come notato da Maurizio degl’Innocenti nell’introduzione alla raccolta. La libertà era diventata rapidamente la bandiera comune delle diverse anime dell’antifascismo: “Libertà!” infatti era il nome del giornale dei giovani socialisti riformisti, fondato nel 1924 e fatto chiudere dal regime nel febbraio 1925; così come “La libertà” era il titolo del giornale della concentrazione antifascista dato alle stampe per la prima volta il 1° maggio 1927; quindi, “Nuova libertà”, sorto dalla riorganizzazione degli scritti salveminiani della primavera 1929.
Oltre a Salvemini, dopo la morte di Matteotti, era divenuto un punto di riferimento dell’antifascismo Benedetto Croce, che, pur senza un saggio dedicato, è ricorrente nella raccolta. Ad esempio, Geri Cerchiai sottolinea l’importanza del pensiero crociano nella formazione politica del socialista Eugenio Colorni. Allo stesso modo, Maurizio Pagano approfondisce il rapporto tra Aldo Capitini e Giacomo Matteotti.
Torna su Rosselli Paolo Bagnoli nel suo contributo sulla nascita di Giustizia e Libertà, focalizzandosi sul significato dell’aggettivo “liberale” nel pensiero rosselliano: “liberale” in Rosselli deriva dall’idea di libertà e non dall’-ismo ideologico del liberalismo. Il sistema liberale, caratterizzato da capitalismo, libera iniziativa e proprietà privata, era cosa altra rispetto al metodo liberale rosselliano, modulato su democrazia e libera persuasione.
Nel suo saggio, Nicola Del Corno arricchisce la riflessione sulle interpretazioni del fascismo, affiancando alle letture classiche quella di “complesso di fenomeni” formulata da Rosselli, che accoglieva in sé sia la proposta di rivolta generazionale di Alberto Cappa, sia l’idea di autobiografia della nazione di Piero Gobetti, sia una dimensione di fascismo come dottrina e prassi aggressiva in espansione. A partire da questa formulazione, Rosselli è tra i primi a definire il fascismo come fenomeno europeo, negli anni in cui si andava manifestando anche in Francia, in Austria e in Spagna. Rosselli è protagonista anche nel saggio di Cesare Panizza, in cui si pone l’accento sulle fratture interne all’antifascismo italiano. Panizza infatti riporta il dibattito-scontro interno a GL tra Rosselli e i cosiddetti “novatori”, Andrea Caffi, Nicola Chiaromonte, Mario Levi e Renzo Giua: lo scontro era passato da una diversa concezione di Stato – necessariamente negativa per Rosselli – a un dissidio più netto sul piano di azione dello schieramento antifascista, che vedeva da un lato un impaziente Rosselli e dall’altro i “novatori”, sostenitori di una riorganizzazione dal basso del movimento prima di passare all’azione.
Il tema del totalitarismo invece è affrontato da Franco Di Sciullo e il già citato Santi Fedele: il primo trattando la figura di Angelo Tasca, comunista ma critico verso Stalin, e per questo espulso dal partito; il secondo invece soffermandosi su Sturzo e Salvemini e sulla loro azione di contropropaganda, accomunata da una profonda critica alle idolatrie totalitarie, per la razza in Germania, per la nazione in Italia e per la classe in Urss.
Infine, sono presenti anche due contributi riguardo all’antifascismo al femminile. Nel primo Rossella Pace indaga il ruolo dei salotti aristocratici di ispirazione liberale e crociana nella costruzione di una rete antifascista e nel processo di emancipazione politica delle donne che ne facevano parte: è il caso ad esempio di Palazzo Taverna a Roma, o del salotto degli Uberti a Torino o di quello delle sorelle Ajroldi a Robbiate, luoghi di solidarietà politica antifascista. Nel secondo, invece, Laura Mitarotondo si sofferma sulla vicenda della scrittrice Alba de Céspedes, figura già di riferimento per l’emancipazione femminile, che però qui è rilevante per le due fasi del suo antifascismo: la prima a Bari, dove era stata giornalista per Radio Bari, la seconda a Napoli, dove ha fondato la rivista culturale “Mercurio”.
Dopo l’intervento di Del Corno, Irene Piazzoni discute il libro Rethinking antifascism. History, Memory and Politics, 1922 to the present curato da H. Garcia, M. Yusta, X. Tabet, e C. Climaco edito da Berghahn Books nel 2016, presentandone gli aspetti più rilevanti e le diverse prospettive utilizzate dagli autori nell’affrontare il tema dell’antifascismo: da un antifascismo plurale vissuto in Spagna (Garcia), all’utilizzo di una prospettiva di genere (Yusta). Intrecciata ai temi di cui sopra è la presentazione dei saggi contenuti nel volume Antifascismi, antifasciste e antifascisti. Pratiche, ideologie e percorsi biografici curato da Gianluca Fulvetti e Andrea Ventura, edito da Pacini nel 2024. Il libro è diviso in tre parti: la prima dedicata all’antifascismo italiano, in patria (Ventura) e in esilio (Camurri); la seconda parte raccoglie articoli di diversa natura, tra cui quello che considera l’aspetto religioso dell’antifascismo (Baldoli); infine, la terza e ultima parte si occupa principalmente dei percorsi biografici, delle vite di antifascisti e antifasciste.
Secondo Piazzoni, ogni considerazione elaborata sul tema dell’antifascismo non può non partire dalla constatazione dell’esorbitante numero di studi e monografie sul fascismo rispetto a quello che interessa l’antifascismo, tanto in Italia quanto all’estero. In Italia ci si concentra maggiormente sull’antifascismo inteso come Resistenza, lotta armata contro il nemico nazifascista, oppure sulle esperienze dei partiti politici rinascenti dopo il 1943. I primi sforzi che si sono compiuti in direzione di una necessaria storicizzazione del fenomeno si sono registrati a partire dagli anni Novanta dopo la caduta della Repubblica dei partiti che avevano fondato la propria legittimità nell’esperienza resistenziale. Questi lavori si sono però maggiormente concentrati sulla memoria dell’antifascismo, che impedisce una reale storicità dell’antifascismo stesso. Piazzoni sostiene che bisogna uscire da questa impostazione e abbandonare una visione teleologica, altrimenti sarà difficile arrivare ad una visione complessiva del fenomeno. Rimane, nonostante gli sforzi compiuti, una grande difficoltà nel definire l’essenza dell’antifascismo. Bisogna chiedersi che cosa intendiamo per antifascismo, capire da cosa esso sia caratterizzato. Così come si è parlato di un mosaico di fascismi diversi, seppur accomunati da alcuni elementi simili tra loro, allo stesso modo possiamo analizzare il fenomeno dell’antifascismo prendendo in considerazione le sue varianti nazionali, che però mantengono forti legami con movimenti lontani e differenti tra loro. Diventa difficile parlare di un fronte comune dell’antifascismo, motivo per cui bisogna abbandonare una sua visione ecumenica; prendendo in considerazione un concetto quale quello di democrazia cogliamo immediatamente come all’interno del fronte antifascista esso sia molto diversificato.
Garcia si occupa principalmente della storia culturale dell’antifascismo. In Spagna il fascismo rimane marginale fino alla vittoria del Fronte Popolare, eppure il fronte antifascista nasce prima del regime; la sua nascita precedente all’affermarsi del regime di Francisco Franco è determinata dalla diffusione di una cultura antifascista: viaggi, relazioni, circuiti internazionali, scambio di libri tra ambienti nazionali diversi comportano la gestazione di questa cultura. L’antifascismo viene considerato come una cultura politica in costruzione, in processo e in evoluzione al pari di ogni altra ideologia politica. Tuttavia, l’analisi della genealogia dell’antifascismo ha riportato spesso, nonostante esso sia un movimento espresso dalla modernità del Novecento, a un’origine ottocentesca, con particolare riferimento alla tradizione romantica e risorgimentale (Mazzini, Garibaldi, Cattaneo).
Tra i temi che vengono approfonditi trova spazio anche il concetto di violenza, che emerge nel contributo di Buchanan. L’antifascismo attivo ha nella violenza una delle sue caratteristiche portanti, in quanto strumento di lotta politica. Attorno a questo concetto risulta lampante che applicare al passato la retorica contro la violenza come elemento di opposizione al fascismo cozza con il largo utilizzo della violenza organizzata adoperata da diversi antifascismi per contrastare la diffusione e l’affermarsi del fascismo.
Isabelle Richet, nel suo contributo intitolato Women and antifascism: Historiographical and Methodological approaches, riflette sulle ragioni del ritardo della storiografia attorno al ruolo svolto dalle donne. La difficoltà preminente sembra quella di mettere insieme la storia dell’antifascismo con quella del femminismo e la storia di genere, analizzando principalmente le difficoltà, condivise anche dal genere maschile, di adesione all’antifascismo. In questo campo bisogna ragionare sulle motivazioni personali, studiando le cosiddette fonti del sé. Le nuove prospettive storiografiche, del resto, hanno portato con sé una profonda rivalutazione del genere biografico. Mentre fino a poco tempo fa si privilegiava la rimozione del soggetto, oggi si studiano più gli antifascisti che l’antifascismo. Si studiano i linguaggi della comunicazione, gli slogan, il linguaggio del corpo, i simboli. Questi nuovi studi hanno avuto influenza anche nell’approfondimento del linguaggio utilizzato dal fascismo con una rinnovata attenzione per i termini utilizzati dal fascismo stesso nell’etichettare l’antifascismo.
Massimo Baioni, con riferimento ai medesimi libri analizzati da Piazzoni, si sofferma sulle parti che riguardano il tema della memoria, in un arco temporale che eccede il periodo dell’antifascismo vero e proprio. Non basta limitare l’indagine al periodo che canonicamente viene inteso come antifascismo. Il tema della memoria costringe inevitabilmente a considerare il periodo successivo ad esso e a indagare la presenza dell’antifascismo nei processi di costruzione della memoria pubblica.
All’interno del volume Rethinking Antifascism alcune rassegne approfondiscono il tema della memoria dell’antifascismo all’interno di alcuni contesti nazionali: Francia, Spagna, Portogallo. Mentre invece nel volume Antifascismi, antifasciste e antifascisti gli interventi sono meno compatti e sistematici, risentendo dell’impianto del convegno da cui il libro prende origine, ma offrendo al contempo importanti spunti di ricerca: ad esempio, l’eredità antifascista che si riveste e si trasforma nell’impegno anticolonialista o le relazioni tra Italia e Repubblica Democratica Tedesca nel periodo del secondo dopoguerra.
La memoria dell’antifascismo assume carattere sovranazionale, pur conservando le sue caratteristiche specifiche legate all’appartenenza nazionale. In Francia, ad esempio, l’antifascismo è andato fondendosi con il mito repubblicano. In alcuni paesi autoritari, come la Spagna, il regime ha impedito la diffusione di una storiografia indipendente sull’antifascismo e la costruzione di una memoria su di esso; in altri casi invece, come in Unione Sovietica, dove si è commemorata la Grande guerra patriottica mediante il ricorso alla costruzione di statue, l’odonomastica e la ricorrenza di anniversari, la memoria dell’antifascismo è stata calata dall’alto, irrigidita in forme canoniche. In Spagna, nonostante la transizione al regime democratico tra anni Settanta e Ottanta, un compromesso tra i partiti ha portato a non riesumare la memoria della guerra civile degli anni Trenta temendo che riaccendendo questa memoria ci fosse il pericolo di un ravvivamento dei contrasti politici del tempo. Non a casa il processo di rimozione delle statue di Francisco Franco così come la rimozione della sua tomba, sono avvenute solamente a partire dagli anni Novanta. Allo stesso modo, anche in Portogallo la fuoriuscita dal regime salazarista non è stata accompagnata da un processo di revisione dell’antifascismo.
In tutta Europa il triennio 1989-1991 ha rappresentato un fondamentale momento di transizione nella costruzione della memoria pubblica, anche nei paesi dell’Europa occidentale dove l’antifascismo ne era il perno. Rimanendo concentrati sul caso italiano, il dissolvimento della cosiddetta Prima Repubblica ha comportato una revisione del rapporto con la storia in generale e con l’antifascismo in particolare. In questo periodo, infatti, accompagnato all’ampliamento delle prospettive storiografiche sull’antifascismo, troviamo la perdita della sua egemonia culturale nella società italiana e ripetuti attacchi ai protagonisti politici di quella stagione, in particolar modo verso il Partito Comunista italiano. È questo il periodo in cui la categoria dell’antifascismo viene sostituita da quella dell’antitotalitarismo.
Questo processo, realizzatosi a partire dagli anni Novanta, restituisce il senso dell’attività storiografica: se la “revisione” è connaturata all’attività dello storico, come sostiene Enzo Traverso, il revisionismo può oscillare tra stimolo a una migliore e aggiornata conoscenza del passato e un utilizzo della storia in forme strumentali alla politica del presente. Alcune di queste narrazioni possono essere definite anti antifasciste, e sono riconoscibili da alcune caratteristiche comuni come: la tendenza a presentarsi come narrazioni totali e oggettive della storia; la volontà di dividere un antifascismo democratico da uno totalitario, sottolineandone anche i caratteri violenti; e infine, una tendenza a prendere le distanze tra i due campi, mettendo sullo stesso piano la nascita dei due fenomeni: fascismo e antifascismo. Queste contro narrazioni non fanno altro che negare la legittimità dell’antifascismo, senza tener conto dell’ampiezza della composizione dell’antifascismo, resa ancor più evidente dalla complessità della memoria elaborata di esso. Il concetto di antifascismo è quindi storicamente evanescente in quanto spendibile per ogni posizione politica, riproponendo schemi superati, appartenenti al passato, che non tengono in considerazione la complessità degli studi, della sempre maggiore profondità con cui l’antifascismo viene trattato e affrontato dello sviluppo della storiografia italiana e internazionale.
Nell’intervento successivo, Leonardo Pompeo D’Alessandro presenta e discute il volume di Simona Colarizi, La resistenza lunga. Storia dell’antifascismo 1919-1945. L’opera consta di cinque parti: la prima è relativa al periodo 1918-1922, definito da Colarizi della “guerra civile”; la seconda, dal 1922 al 1926, va dalla presa del potere sino alla fine dello Stato liberale; la terza, dal 1926 al 1935, si sofferma sugli anni dell’esilio e della lotta clandestina; la quarta, dal 1925 al 1943, sugli anni delle guerre in cui si era impegnato il fascismo fino alla sua caduta; l’ultima, quella sul biennio 1943-1945, è relativa alla Resistenza stricto sensu. L’accento cade sull’interdipendenza tra la storia del fascismo e la storia dell’antifascismo, ribadendo il concetto di “lunga resistenza”, sulla scia delle recenti evoluzioni della storiografia sull’antifascismo. Colarizi motiva il suo ritorno sul tema come una personale esigenza di fare il punto in una fase in cui il concetto di “antifascismo” pare aver perso significato e dimensione storica.
La riflessione di Colarizi è erede della revisione storiografica avviata negli anni Settanta da Renzo De Felice e soprattutto, su un altro versante storiografico, da quei contributi che negli anni Ottanta hanno contribuito a decostruire l’immaginario di fascismo e antifascismo come monoliti appartenenti a campi rigidamente separati. In questa prospettiva storiografica sono tre gli aspetti che emergono: una lettura non più tutta politica della contrapposizione tra fascismo e antifascismo, ormai non più legata alle sole antitesi consenso-dissenso e repressione-ribellione; il riconoscimento di un’interdipendenza tra fascismo e antifascismo; una nuova attenzione ai comportamenti, individuali e di gruppo, che ha portato a spostare il focus dalle élite alle masse, dall’antifascismo agli “antifascismi”. Ed è a questo orizzonte storiografico che si lega il libro di Colarizi, ribadendo più volte la pluralità che ha caratterizzato le anime dell’antifascismo.
L’idea di “resistenza lunga” rientra a sua volta in questa prospettiva, riconoscendo nella storia italiana un insieme di incontri, ma anche di scontri e confronti, che permettono di evidenziare le contraddizioni interne all’antifascismo. All’indomani del 1989 è infatti possibile ricostruire la lunga storia dell’antifascismo, indipendentemente dalle letture intrinsecamente politiche portate avanti dai partiti eredi dell’esperienza resistenziale, evidenziando piuttosto gli elementi di discontinuità e complessità propri dell’antifascismo.
Concludendo, D’Alessandro riflette sulle scelte adottate da Colarizi. Sul piano bibliografico, Colarizi definisce “classici” le opere realizzate tra anni Sessanta e Settanta, a suo avviso “pietre miliari” della “storiografia sul fascismo”. D’Alessandro, però, ricorda l’importanza degli studi successivi, poco valorizzati – a suo parere – nel volume, che hanno anch’essi contribuito a problematizzare e mettere in discussione l’assioma della “necessaria continuità” tra antifascismo, Resistenza e democrazia: a proposito di questo, D’Alessandro fa riferimento a Leonardo Rapone, quando tratta delle diverse aggettivazioni della futura democrazia, per alcuni “liberale”, per altri “sociale”, “cristiana”, “progressiva”, “nuova” e così via.
Infine, D’Alessandro torna sul tema della guerra civile, evidente recupero della prospettiva di Claudio Pavone da parte di Colarizi, che però ancora una volta pare non discutere a fondo alcuni recenti sviluppi storiografici: ad esempio, alcune relazioni presentate al convegno Da una guerra alle altre. Fascismo e nazionalismo nella Storia d’Italia (Roma, ottobre 2022) hanno problematizzato ulteriormente questa dimensione dello scontro tra fascismo e antifascismo.
Claudia Baldoli nel suo intervento ha discusso il libro di Marco Bresciani Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà, uscito nel 2017. Questo testo investe tante questioni che riguardano Giustizia e Libertà, ma non solo. Bresciani – evidenza Baldoli – si sofferma molto sul tema dell’esilio, inteso come laboratorio: dove emerge tutta un’interazione tra l’esilio e la lotta clandestina in Italia. La complessità di questa dinamica si riverbera nelle prime interpretazioni del fascismo: capire i motivi della sua vittoria, la scelta molto complicata di emigrare e il ruolo dell’esilio politico. In tutto questo – evidenzia Baldoli – protagonisti sono le sensazioni, le scelte diverse, i cambiamenti di idee, le revisioni, i tormenti nell’antifascismo. Baldoli pone la questione della “lunga resistenza”, a partire dall’intervento di D’Alessandro, e si chiede se si possa parlare di una connessione tra l’antifascismo del ’24-’26, quello dell’esilio, la Resistenza e il dopoguerra.
Nel 1926 la città di Milano è quella che resiste di più. Qui viene fondato “Il Quarto Stato”, ovvero uno degli ultimi giornali che riescono ad uscire, seppur con molte difficoltà. Quarto Stato vuol dire socialismo, democrazia, repubblica. Questi temi si troveranno anche nella concentrazione antifascista. Nenni era presente in “Quarto Stato”. Nel 1929 il primo nucleo di GL è in contatto con il gruppo parigino, mentre nel 1930 la capitale della resistenza clandestina si sposta a Torino. L’altra origine è Gobetti e la sua Rivoluzione Liberale vista da Bresciani – afferma Baldoli – come “un partito non partito”. In GL c’è una polemica rispetto ai partiti: andare oltre ai partiti. Questa polemica la ripropone Salvemini nel 1927 sulla “Libertà”, quando scrive che i vecchi partiti non bastano più.
La fuga dall’Italia – sostiene Baldoli – è un tema fondamentale, perché su questo si concentrano tante percezioni, emozioni, dubbi (cosa vuol dire fuggire dall’Italia?). Già nel 1926 i rapporti dalle questure, dalle prefetture e dal Ministero dell’interno riguardo ad alcuni antifascisti, dimostrano la volontà di non farli uscire. Si cerca di controllare i confini e le coste. Ci sono tantissimi telegrammi che arrivano alle prefetture. Ci sono, inoltre, tantissime punizioni e richieste disciplinari nei confronti di alcuni luoghi di frontiera. Un esempio noto è quello nei confronti delle autorità di Savona, per via della fuga di Filippo Turati. Qui c’è anche il lato avventuroso della fuga. Sulla“Libertà” ci sono le descrizioni degli arrivi di Turati a Nizza e poi in treno a Parigi. Ci sono molti dibattiti tra gli antifascisti in merito all’uscire o non uscire. Bresciani – ricorda Baldoli – scrive che fuoriuscito sia una parola sprezzante che usa il regime. Il significato di questa parola, utilizzata anche dai fratelli Rosselli, era riconducibile al tradimento o, meglio, alla resa. Secondo Roselli, l’emigrazione è una necessità contingente che ha senso solo se collegata con la cospirazione in patria. Si sente subito il timore di quello che un po’ succederà, cioè una divaricazione tra il modo in cui il fascismo è vissuto all’estero e in Italia. Gli esuli tendevano spesso a sottovalutare i legami sempre più saldi tra fascismo e società italiana. Dall’estero è difficile capire questi legami, soprattutto negli anni Trenta quando la dimensione di questi rapporti era chiaramente percepita dai militanti in Italia. Questa percezione era molto chiara ai militanti in Italia. Fino al 1928 “La Libertà” vede il fascismo come transitorio, ovvero come qualcosa che sta per finire. Questo va avanti un po’ di più tra gli esuli all’estero. Con la guerra di Etiopia molti esuli pensano, erroneamente, che l’Italia venga sconfitta e che il regime crolli.
La necessità di un antifascismo nuovo che superi i vecchi partiti è centrale per Giustizia e Libertà, in quanto si lega a una questione generazionale: molti sono giovani già nel 1927 quando iniziano questa polemica nel “Quarto Stato”. L’Aventino, invece, mette insieme diverse generazioni. La compagine giovanile condivide con gli antifascisti di più lunga data una disponibilità a sacrificare il presente per il futuro. Essere antifascisti in quel momento significava che la vita privata non esisteva più. Rosselli sul “Quarto Stato” del 26 giugno 1926 critica la “mentalità aventiniana” che definisce dannosa, perché finiva per impedire “ogni opera positiva, ogni azione politica”.
Il giudizio di Rosselli non è stato sempre negativo, lo diventa solo per quello che l’Aventino ha rappresentato dopo il 3 gennaio del 1925. Fino a quel momento, scrive Rosselli, “le forze di opposizione erano state numerose e multicolori”. La percezione nel 1926 è che la lotta dall’anno precedente è radicalmente cambiata: è da qui che si prende consapevolezza che i vecchi partiti non servono più. Adesso è una nuova fase e la lotta può essere armata. Il tirannicidio è inutile, perché il fascismo è un’autobiografia della nazione: uccidendo Mussolini non si risolve la questione. Sulle pagine della rivista milanese “Il Caffè”, nell’aprile del 1925, Ferruccio Parri rivolge un appello all’Aventino dicendo che la crisi non si può risolvere con un miracolo o con delle capacità taumaturgiche dei vecchi notabili. Nello stesso anno sulla rivista “Non mollare!” si ribadisce lo stesso concetto: se il fascismo fosse finito senza una lotta di liberazione, l’esperienza sarebbe stata inutile.
Il linguaggio diventa sempre più forte e arriva una versione intransigente di antifascismo. In alcuni casi però si avverte la tentazione di leggere il fascismo come rivolta generazionale. Il tema dell’ibridazione e della mancanza di staticità tra fascismo e antifascismo ha ancora a che fare con la questione generazionale. Quello che vuole fare questa nuova generazione di antifascisti è guardare al futuro e non solo parlar male del fascismo. Nelle elezioni del 1924 gli antifascisti parlano solo del fascismo e dei suoi aspetti negativi, senza una prospettiva futura. Da adesso in poi si inizia a pensare al futuro dell’Europa e al postfascismo. L’antifascismo è prodotto dal fascismo, ma non solo. Per questo si vuole guardare oltre alla questione della contrapposizione al fascismo, attingendo a una cultura antifascista preesistente. Nel caso di GL ci sono rapporti fra liberalismo e socialismo, legati da un organico e reciproco rapporto. In una parte dell’antifascismo – spiega Bresciani – si trova il principio della sovranità popolare, del sistema rappresentativo, del rispetto dei diritti delle minoranze, del rifiuto al ricorso alla violenza. Molti antifascisti, sulla scorta dell’eredità dell’Aventino, vogliono trovare un terreno comune contro il fascismo.
L’esilio come laboratorio è un’altra parte importante nel volume. Tra le iniziative dei fuoriusciti, centrale è la concentrazione antifascista che comprende i due partiti socialisti, i repubblicani, la CGIL, la Lega italiana dei diritti dell’uomo. Queste formazioni si ricompattano in una specie di nuovo Aventino, al cui interno ci sono numerosi aventiniani (Turati e Treves). La concentrazione doveva servire come collante per la lotta al fascismo da Parigi, senza naturalmente i comunisti. Gli stessi si erano tolti dall’Aventino, perché pensavano che il partito del proletariato avrebbe dovuto rivestire un ruolo egemonico su tutto l’antifascismo. Anche per GL la concentrazione nel 1929 è troppo passiva. Per questo motivo sorge un dibattito sulla natura del fascismo all’estero che mostra l’importanza dell’esilio nell’antifascismo, anche da un punto di vista intellettuale. In questo volume si parla di esilio come “una fondamentale esperienza di revisione e formazione dei percorsi politici e intellettuali dei giellisti”; si parla, inoltre, di “stimoli estranei alle culture politiche nazionali”. Quest’ultimo elemento è importante perché in esilio a Parigi si discute con altri esuli provenienti da altri Paesi, come la Germania.
Con loro si discute anche della crisi dell’Europa e della democrazia europea. Qui forse – sostiene Baldoli – fascisti e antifascisti si rendono conto allo stesso momento che il fascismo è fenomeno non solamente italiano. Il senso di transnazionalità – secondo Baldoli – nasce subito nei fascisti, mentre negli antifascisti sorge negli anni Trenta; in modo particolare dall’ascesa del nazismo. Quindi questa è una questione non solo italiana, perché viene dibattuta non solo in Italia e non solo in Francia. La crisi è complessa e non basta più il discorso dell’agonia del capitalismo ventilata dai comunisti, perché risultano intaccati i valori: è una questione morale. Nella capitale francese il gruppo dirigente di GL percepiva sempre più assillante la questione del declino morale e dei valori, sulla scorta dell’eredità aventiniana. In esilio si sviluppa anche la questione dell’alleanza con i comunisti e il giudizio sull’Unione sovietica che cambia, in quanto per GL fermo è il rifiuto per la dittatura di una classe e dello statalismo staliniano. A Parigi ci sono influenze incrociate e rilevante è la presenza degli anarchici. Una figura importante dell’esilio parigino è Camillo Berneri che da anarchico, partecipa alla vita dell’antifascismo democratico.
Tutta questa questione si complica con i fronti popolari dal 1934 in poi e con la Guerra di Spagna. Prima del suo assassinio Carlo Rosselli aveva scritto alcuni articoli su “Giustizia e Libertà”, raccolti in una serie intitolata “per l’unificazione politica del proletariato italiano”. Qui Rosselli sostiene che il proletariato era la classe i cui interessi non potevano coincidere con quelli del fascismo. La questione della classe e del proletariato è molto dibattuta, però sicuramente si rafforza con la Guerra di Spagna. Tutto cambia, però, con il Patto Molotov-Ribbentrop del 1939, che contribuisce alle mutazioni dell’antifascismo sulla base degli sviluppi degli eventi internazionali.
Baldoli chiude con una riflessione di Bresciani in merito a GL, vista non come fallimento ma come sconfitta. L’interrogativo che pone Baldoli è: “quale eredità lascia Giustizia e Libertà?”. C’è forse un’eredità nei valori condivisi che poi si trasmettono nel primo dopoguerra: democrazia e disponibilità al compromesso.
Al termine della presentazione dei libri da parte dei docenti del Dipartimento di studi storici si è aperta la sessione dedicata alla discussione, che è risultata molto ricca grazie alla partecipazione di numerosi studiosi, presenti in aula e collegati a distanza: tra loro Simona Colarizi, Giulia Albanese, Andrea Ventura, Marco Bresciani, Matteo Pasetti, Andrea Rapini, Andrea Ricciardi.
In particolare, Simona Colarizi, con un ampio intervento, ha voluto tratteggiare il clima culturale e storiografico in cui ha iniziato a scrivere e a occuparsi di fascismo e antifascismo. Erano passati poco più di vent’anni dalla caduta del fascismo; perciò – sostiene Colarizi – il clima del confronto era accesissimo. Il discorso politico e civile investiva pienamente il dibattito storiografico al tempo. Questo è un dato – afferma Colarizi – che non deve essere dimenticato. Soprattutto se uno storico fa storia con una forte motivazione civile. Negli ultimi anni è tornato centrale il discorso politico dell’antifascismo; quindi, molti storici si sono nuovamente imbattuti in questa tematica.
Negli anni Settanta, in quella temperie storiografia prima tratteggiata, Colarizi pubblica un testo in cui parla di antifascismo democratico. La storiografia comunista, che ha dominato per molti anni gli studi sull’antifascismo, ha criticato questa scelta sostenendo che Nenni e Turati non contribuirono in maniera attiva alla lotta antifascista. Loro si limitavano a essere dei testimoni del passato, senza partecipare in prima linea alla lotta contro il fascismo. Con questa lettura comunista – sostiene Colarizi – bisogna fare i conti.
L’antifascismo e il fascismo vanno collocati nella cornice delle potenze e di quello che succede nel mondo, altrimenti non si comprendono alcuni fondamentali elementi: quando si salda il fronte antifascista e perché i comunisti accettano la democrazia, che non è nella loro ideologia. Di questa cosa la Guerra di Spagna è la dimostrazione. Su questi aspetti – evidenzia Colarizi – bisogna riflettere. I comunisti avevano il bisogno di legittimarsi e nella Resistenza, giustamente, trovano la legittimazione. Nella Resistenza si creano le basi politiche del secondo dopoguerra: la lotta è su chi si assume le basi di massa del fascismo. Sono i due partiti più importanti di quell’epoca a prendersele. La Democrazia Cristiana si prende in parte gli antifascisti cattolici, che però non sono la maggioranza delle basi di massa del fascismo. Questo perché la DC si prese anche tutta la fascia grigia della Resistenza. Mentre il Partito Comunista si muove quando l’esercito si sbanda: è lì che i comunisti riescono ad attirare consensi.
Il regime non ha mai dato clamore alla Marcia su Roma, perché era un’Italia divisa. Quella memoria era rimasta nel corpo della classe operaia e contadina. Colarizi critica la definizione di Biennio Rosso, perché sostiene che in quegli anni il fascismo non si era scagliato solo contro il proletariato e le organizzazioni socialiste, che cadono relativamente presto. La guerra che i fascisti fanno, prese di mira anche i contadini (che non erano tutti rossi), i cattolici e i liberali. Quella dei fascisti fu una guerra contro gli italiani. Allora si domanda Colarizi: “perché non chiamarla Resistenza?” Questo è un paradosso, ma permette di ricomporre la storia di chi ha continuato a battersi per la libertà.
Gabriele Coccia, Marco De Tommasi, Gianluca Matteo Zumbo