Nell’ambito della seconda giornata del convegno dal titolo Minoranze tra Italia e Contesto Globale (XIV-XX secolo): nuove esperienze di ricerca, si è tenuta in aula Elena Brambilla la presentazione del volume I confini della salvezza. Schiavitù, conversione e libertà nella Roma di età moderna (Viella, 2022), della professoressa Serena Di Nepi, docente di storia moderna all’Università di Roma La Sapienza.
Ha presieduto e aperto l’incontro la professoressa Beatrice Del Bo che, dopo i saluti di rito e un ringraziamento alla professoressa Tamar Herzog della Harvard University per la presenza, ha sottolineato l’importanza del volume della Di Nepi nell’ambito del convegno soprattutto perché la tematica trattata offre la possibilità di svariati approfondimenti ulteriori in una moltitudine di altri campi di ricerca. La prospettiva sulla schiavitù offerta nel testo, prosegue la Del Bo, è una prospettiva centrale perché si parla di Roma, ma è proprio dalla Città Eterna che si guarda a tutto il Mediterraneo attraverso l’indagine sulla schiavitù stessa. Un libro che quindi permette di sfruttare per l’analisi il punto di vista geografico e quello tematico, dove si parla di una delle più grandi discriminazioni, se non la più grande, ma non presentandola come tale. Nel testo si parla di circa un migliaio di schiavi, con nome e cognome, ma non per parlare della schiavitù in sé, ma di politica, di azione politica e di una sperimentazione di pratiche di governo dell’alterità a Roma: un concetto interessante utilizzato come escamotage per offrire una reinterpretazione dell’azione politica stessa nei secoli presi in esame nel testo. L’autrice, conclude la professoressa Del Bo, nel suo volume parla di etica, di cultura e di utilizzo della parola per restituire la libertà, offrendo suggestioni e suggerimenti su varie tematiche anche per permettere di sviluppare nuovi filoni di ricerca in merito.
La parola viene poi ceduta alla professoressa Tamar Herzog, la quale evidenzia fin da subito come l’autrice nel suo testo spieghi che le autorità locali romane concessero a circa novecento schiavi la libertà e la cittadinanza, previo l’accertamento che essi fossero bravi cristiani e in buona salute. La maggior parte di essi era musulmana ed era arrivata a Roma dai territori iberici, mentre un altro venti per cento circa da Genova e il restante da altre zone dello Stato Pontificio. La natura di ciò che questi individui decidevano non era affatto chiara: mentre le implicazioni della libertà erano ben delineate, ciò che comportava la loro cittadinanza era molto meno ovvio, poiché gli ex schiavi si trovavano spesso in una posizione difficile con una cittadinanza che prevedeva diritti solo parziali. La domanda che l’autrice si pone, prosegue la Herzog, è come si possa spiegare questa procedura eccezionale, che non ha incontrato quasi nessuna contestazione? La tesi della Di Nepi è che, anche se il numero degli individui implicati in questa pratica non era elevato, essa è comunque importante per ciò che può dirci sia sulla Chiesa che su Roma. La conclusione a cui si giunge nel testo è che la liberazione di tali schiavi permise alle autorità romane e ai papi successivi di rivendicare uno status speciale sia per se stessi che per la propria città, secondo l’idea che la città fosse il luogo della redenzione assoluta, dove solamente le autorità cattoliche potevano dirigere il progetto di salvezza universale, un progetto che richiedeva la liberazione di persone che erano nate cristiane o convertite al cristianesimo in una fase successiva; a questo scopo presentarsi come cristiani davanti alle autorità locali era sia una garanzia di status di cristiani sia la rappresentazione di un viaggio simbolico di espiazione e pellegrinaggio. Gli schiavi che si convertivano al cristianesimo venivano presentati come i migranti ideali e le autorità che li manomettevano e naturalizzavano incarnavano simbolicamente la volontà cristiana nell’accogliere coloro che coglievano la necessità di convertirsi per la salvezza.
La Di Nepi, spiega la Herzog, sostiene che queste considerazioni erano talmente importanti per il papato da giustificare un’eccezione alla regola generale secondo la quale la conversione della persona ridotta in schiavitù non produceva automaticamente la sua libertà: a questo proposito si sottolinea nel testo anche la differenza fondamentale nel trattamento dei convertiti dall’Islam rispetto invece alle popolazioni indigene delle Americhe. Solo nel 1537 tramite la bolla Sublimis Deus il papa riconobbe gli indigeni come liberi. La soluzione della libertà e della naturalizzazione, dice la professoressa di Harvard, concessa dai pontefici alle persone schiavizzate che si erano convertite al cristianesimo, potrebbe anche essere vista come un tentativo di risolvere la tensione tra una Roma multireligiosa e una Roma monoconfessionale. Fatto stà che la città emerse all’epoca come porto sicuro per coloro che si univano alla “religione giusta”. Tutte le tematiche toccate dalla Di Nepi nel suo libro, dice la Herzog, si collegano al più ampio tema della schiavitù grazie a un’attenta differenziazione tra Atlantico e Mediterraneo, non dimenticando ciò che è accaduto nel passato e ragionando sull’uso che ne facciamo nel presente, evitando che una storiografia si imponga sulle altre. La schiavitù nel Mediterraneo era una presenza costante e minacciosa che poteva influenzare la vita di quasi tutti, sia che ci si trovasse su una nave, che si abitasse sulla costa o nei pressi di una fortezza. Non solo la schiavitù era una possibilità che incombeva, ma gli schiavisti potevano essere i vicini di casa. Con la distinzione tra tollerance e tolleration, la vicinanza e la famigliarità con l’ “altro” cambia la naturalezza dell’interazione, perché la posta in gioco della tolleranza è la necessità, dice la Herzog, di non convivere come estranei, portando allo sviluppo di una tolleranza pragmatica. La schiavitù mediterranea si differenzia da quella atlantica anche per il legame tra schiavitù e guerra: nel XVI secolo il Mediterraneo era uno spazio conteso tra musulmani e cristiani e la frontiera religiosa e politica funzionava anche come una zona di contatto. Come storica della cittadinanza, la Herzog si è voluta interrogare sul legame tra manomissione e cittadinanza. Secondo i romani l’atto della manomissione era basato sull’editto di Caracalla che, nel 212 d.C. estendeva la cittadinanza romana a tutti gli abitanti liberi dell’impero, ma naturalmente gli abitanti a cui veniva data la cittadinanza erano già liberi; tale editto ripeteva il noto assioma secondo cui solo le persone libere potevano essere cittadini romani. La domanda che dobbiamo porci, secondo la professoressa, non è perché le autorità romane abbiano proceduto in questo modo, ma perché questa regola non sia stata applicata in altri luoghi e tempi. Forse una risposta può essere trovata nella storia spagnola: l’art. 5 della prima costituzione liberale spagnola, quella di Cadice, definiva gli spagnoli come “tutti gli uomini liberi nati e domiciliati nei domini spagnoli, tutti gli stranieri con lettere di autorizzazione e tutti i liberi che hanno ottenuto la libertà in Spagna”. Tutti concordavano, nella Spagna del 1812 come nell’antica Roma, che per essere spagnoli bisognava essere liberi; infatti, chi nasceva in spagna da genitori spagnoli era spagnolo solo se era libero. L’articolo 12 della stessa Costituzione prevedeva che il cattolicesimo sarebbe stato unica religione ammessa in Spagna, dando per scontato che tutti gli spagnoli fossero cattolici; pertanto, sebbene la costituzione non dicesse nulla sull’effetto della conversione, si riteneva che essa fosse importante poiché rimuoveva un impedimento alla naturalizzazione.
Interviene poi la professoressa Raviola suggerendo una lettura del volume della Di Nepi in due dimensioni, una spaziale, in cui Roma si pone al centro di un contesto sia locale sia universale, l’altra cronologica, con particolari riferimenti alle Relazioni Universali di Botero, testo che ha conosciuto più edizioni e rielaborazioni (partendo da quella del 1591 e terminando con quella del 1611) e che adotta uno sguardo di lunga durata su un contesto non solo Mediterraneo, ma anche globale. Nelle Relazioni, spiega la Raviola, l’autore fa riferimento più volte al tema della schiavitù sul quale fanno luce le parole del saggio Schiavitù dell’anima e perfezione dell’universo, un viaggio nella predicazione di Federico Borromeo fra Roma, Milano e mondi nuovi di Marzia Giuliani, contenuto nel volume Schiavitù del corpo e schiavitù dell’anima, a cura di Emanuele Colombo, Marina Massini, Alberto Rocca e Carlos Zeron, (Centro ambrosiano, 2018), citato dalla professoressa. In primis Botero si identifica per una distinzione sul piano linguistico-lessicale fra i termini schiavitù e servitù, il che lo pone come un autore riconsiderabile oggi storiograficamente anche da questo punto di vista. Tuttavia, l’autore affronta ampiamente il tema anche nella parte seconda e terza dell’opera. Al termine del secondo volume infatti, seguitamente a una disamina geopolitica mondiale, Botero affronta la condizione schiavile nello stato attuale della cristianità, affermando come, con riferimento alla situazione portoghese, la conversione degli schiavi, auspicata dall’autore in quanto religioso, e le conseguenti emancipazioni e libertà siano osteggiate per motivi economici dai proprietari, dimostrando così al lettore il possesso tanto di una ferrea morale quanto di acume statistico-economico. Nella parte terza il gesuita tocca puntualmente il tema del volume della Di Nepi soffermandosi sui commerci mediterranei e interreligiosi, ma costruendo anche uno stereotipo dello schiavo, antitetico rispetto ai protagonisti de I confini della salvezza. La professoressa, inoltre, sottolinea anche come Botero tratti di un ulteriore tema presente nel saggio, quello delle compagnie di riscatto degli schiavi cristiani, che permettono, in virtù della presenza sul territorio italiano, di allargare la prospettiva di ricerca spazialmente e temporalmente. A dimostrazione di ciò è la citazione del saggio di Fabrizio Figlioli Uranio, L’economia del giving tra atto fondativo e riscatto degli schiavi: San Paolo, le élite torinesi e l’Ordine Trinitario come super-holding di età moderna, dal volume La vita in atto, donazioni, lasciti e testamenti tra Torino e Italia settentrionale, secoli XVI-XVIII a cura di B. Alice Raviola e Anna Cantaluppi (Quaderni dell’Archivio Storico della Compagnia di San Paolo, 2023), nel quale si descrive nella Torino del XVIII secolo un lascito per la fondazione di una compagnia torinese e per la costruzione di una cappella dedicata.
Infine, per rispondere alle domande sollevate e agli spunti proposti dai due precedenti interventi, prende la parola l’autrice, la professoressa Di Nepi che, riprendendo la fine dell’intervento della Herzog, evidenzia come il riprendere la stagione post rivoluzionaria porti a riflettere su quali siano i prerequisiti per entrare a far parte di una comunità che si sta riformando, che è una delle grandi domande dell’ottocento su tutti i tre grandi percorsi della diseguaglianza che il secolo dell’emancipazione prova a mettere in campo: la diseguaglianza legata alla condizione ebraica, la diseguaglianza legata alla condizione della schiavitù e la diseguaglianza legata alla condizione femminile. La riflessione, dice la Di Nepi, ci obbliga a tenere insieme e considerare diversi aspetti di fragilità delle cittadinanze nel tornante ottocentesco, il quale vorrebbe risolvere tutto e invece paradossalmente finisce per complicare un quadro rendendolo a sua volta estremamente incerto e fluido, dove nulla sembra mai abbastanza per chi fino a poco prima era stato strutturalmente escluso dagli spazi della politica. Quali sono quindi i tasselli che costruiscono l’appartenenza a una comunità? È una domanda che tendenzialmente interroga pezzi della storia dell’Ottocento e che invece bisogna riuscire a mettere in dialogo con il prima. Sulla centralità di Roma, spiega l’autrice, va sottolineato che nel XVI secolo la città era in crisi a causa della deflagrazione luterana, la quale mette la città stessa, la Chiesa e lo Stato Pontificio in una situazione decisamente difficile che affatica anche il pontefice stesso. Pio V cerca di mettere ordine spiegando le linee fondamentali per il dopo, quali la resistenza nel Mediterraneo da una parte e il tentativo di provare a imporre le regole del gioco dall’altra, un’imposizione che non può che partire dalla città del pontefice. Per concludere, la Di Nepi, spiega come bisogni interrogare il modo più recente di fare la storia, in cui si è portati a parcellizzare alcuni campi di indagine e alcune metodologie, mentre nelle teste dei contemporanei tutto era legato. La sfida che ci si può quindi proporre, alla luce anche delle considerazioni su Botero, è di rileggere tutta questa grande compartimentazione disciplinare proprio a partire dalla storia di quelli che sono “diversi” e di come i vari “diversi” si pongono nel mantenimento della loro differenza rispetto a delle maggioranze che vorrebbero delle cose che non riescono ad ottenere. L’augurio finale della Di Nepi, con cui si conclude la discussione, è quindi il provare a ragionare sulla seguente domanda: può una società che ha bisogno di darsi un senso stare senza coloro che sono “altro” in quella stessa società?
Ariel Giuliano e Flavio Luigi Fortese