La storiografia sull’Inquisizione si dota di una nuova pubblicazione, che indaga la Firenze cinquecentesca in relazione al modo in cui il popolo reagì alla crisi economica e in particolare a quella religiosa. Rinascimento sotterraneo, Inquisizione e popolo nella Firenze del Cinquecento è l’ultimo scritto di Lucio Biasiori, storico della cultura e della religione nella prima Età Moderna, professore a Padova, formatosi alla Scuola Normale Superiore di Pisa. L’autore riporta in totale sette casi di processi inquisitoriali, uno per capitolo, gran parte esaminati dal francescano Dionigi Sammattei, scrupoloso inquisitore fiorentino dal 1578 al 1603. Per ognuno di questi Biasiori, grazie a una prosa limpida e convincente, ricostruisce le dinamiche sociali e culturali popolari.
Nei primi due capitoli l’autore delinea difatti l’assimilazione parziale e la rielaborazione popolare delle convinzioni riformate eterodosse nel popolo, tanto precoci negli anni di maggiore attività inquisitoriale quanto di larga diffusione e di potenziale minaccia dell’autorità. Ad Arezzo, nel 1524, il notaio Antonio del Giallo e il novizio Donato Sandri cavalcarono il clima pestilenziale, l’eco delle idee riformate e un’indulgenza di Clemente VII per dare pubblico adito alle proprie convinzioni. Fondamentale per i due fu lo scritto I viaggi di Sir John Mandeville, che influenzò anche Menocchio. Nottetempo, con più tentativi, affissero dei cartelli per la città, esortando alla trascurabilità del mediatore ecclesiastico nel rapporto del fedele con Dio. Tuttavia, il brulicare nel popolo di idee eterodosse portò Donato a costituirsi, denunciando anche del Giallo. Diversa fu invece la vicenda fiorentina, più tarda, di ser Francesco Puccerelli, notaio a servizio di Cosimo I. Segnalato all’Inquisizione come eterodosso poiché esortava il fratello a non comunicarsi, egli fu influenzato dalla Lettera di fra Bernardino a papa Paolo III sviluppando un proprio modo di intendere la fede, distante dal luteranesimo, più affine all’anabattismo e con una concezione del libero arbitrio umano personale, secondo cui l’uomo con le sue azioni potesse sempre compiacere Dio. Tanto elusivo rispetto alle domande degli inquisitori quanto fermo su alcune convinzioni teologiche, Puccerelli al termine del processo fu costretto ad un’abiura e alla richiesta di grazia del Duca che, paladino dell’ortodossia, gli negò. Al termine dei due capitoli Biasiori delinea dunque una situazione in cui nel sostrato cittadino fuori e dentro Firenze nella prima metà del Cinquecento nacque una rielaborazione della Riforma, coadiuvata da testi eterodossi, che costituì un problema politico per il Ducato.
L’autore prosegue introducendo i primi casi che si sottopongono a Sammattei, nel 1578 e nel 1581, concentrandosi sui ceti subalterni. Il primo caso riguarda un vinattiere di nome Francesco Calvelli, denunciato da un suo acquirente. Mostrando il proprio carattere zelante, l’inquisitore fermò il processo nelle sue fasi istruttorie. Il racconto dell’accusatore dipinse un Calvelli che, a partire dalla conoscenza di Dante, da un lato negò l’esistenza dei regni ultramondani, dall’altro la valenza delle opere, il tutto con un accento di libertinismo. Proprio su questo riflette Biasiori, giungendo alla conclusione che anche se il vinattiere si possa considerare espressione del libertinismo popolare, questo si debba sfumare fra le posizioni dicotomiche di chi è deciso a svelare l’imposizione religiosa e chi la voleva di pubblico dominio. Si dimostra anche come certe tendenze si possano ricondurre al Beneficio di Cristo, non tanto perché esso ancora circolasse a Firenze, bensì perché le idee del testo erano oramai ben radicate nel sostrato sociale.
Il secondo caso di Sammattei riguarda un calzolaio, Prospero Africano. Il nome ne indica la provenienza dalla costa meridionale del Mediterraneo, dalla quale fu strappato per diventare schiavo presso la famiglia siciliana Imperatore. Libero, iniziò il suo peregrinare per l’Italia e l’Europa, incontrando sulla propria strada numerosi eterodossi. La sua fede lo portò ad un processo in Sicilia nel 1572 dal quale uscì con una condanna al remo per tre anni. Fuggito a Ginevra, quale riformato, fu poi processato da Sammattei e condannato a morte nel 1581. Proprio sulle parole in punto di morte si concentra la riflessione più interessante di Biasori. Prospero, infatti, dichiarando di voler morire da buon cristiano come figlio della Chiesa, dimostrò la pratica ecclesiastica, ampiamente sostenuta dalle confraternite, di salvare l’anima di chi aveva il corpo oramai perduto, considerando la morte imposta come un dono della Provvidenza per ottenere il Paradiso.
Gli ultimi tre capitoli vedono come protagonisti tre soggetti peculiari: un ebreo convertito, una prostituta ed un folle. Il primo processo dell’Inquisitore fiorentino riguardò il medico e rabbino Vitale Medici che venne consultato da un nobiluomo, assieme ad un prete ed un manovale, per recuperare un tesoro nascosto nella dimora di famiglia. La funzione dei due sacerdoti era quella di eseguire dei riti negromantici per scacciare gli spiriti, mentre il manovale avrebbe fatto il lavoro materiale di estrazione. Scavando per giorni e non trovando nulla, Vitale pretese di essere pagato ugualmente, al che il gentiluomo lo denunciò a Sammattei nel 1581. Si impose ancora a Vitale prima di non uscire dal ghetto e poi dalla città e di incontrare l’inquisitore a ritmo regolare. Proprio da questi incontri maturò la sua conversione al Cristianesimo. L’autore non si concentra tanto sugli effetti del cambiamento di fede su Vitale, che per questo però venne accoltellato, ma sulla sua famiglia e in particolare sulle figlie. La conversione del padre portò a quella forzata di tutta la prole, assicurando un destino fruttuoso per i maschi, ma tremendo per le figlie, costrette chi ad una vita di convento, chi a lasciare il promesso sposo. La riflessione assume dunque un carattere di tipo sociale: si indaga con perizia sui i rapporti interpersonali e le loro conseguenze, non limitandosi al racconto evenemenziale. Lo stesso accade per il secondo episodio, legato alla prostituta Caterina “la Pazzuccia”. Nel 1587 fu denunciata da un suo ex cliente con l’accusa di detenzione di una testa di moro in un vaso. Il processo terminò con l’abiura della ragazza, che fece seguito alla tortura imposta dall’inquisitore per comprendere le reali posizioni della giovane in ambito magico. L’autore non si concentra tanto sulle dinamiche processuali, quanto sulla somiglianza della vicenda con la novella boccacciana di Lisabetta da Messina. Esaminando le numerose possibilità legate alle convinzioni magiche e rituali popolari in merito, Biasiori, a seguito di interessanti pagine che possono accendere un dibattito vivo, sostiene che è possibile affermare le plausibili radici di tradizione storica del testo di Boccaccio. Egli indica ed indaga, dunque, un’origine popolare del racconto che si sente ancora viva per secoli e che si manifesta negli strati più bassi caratterizzati da una vita precaria, ricorrenti a pratiche magiche tradizionali per far fronte alle proprie condizioni.
L’ultimo processo di Sammattei è riservato a Zanobi Niccolini. Denunciato da un conoscente, a seguito di accuse di eresia relative alla sua concezione della grazia espressa durante la domenica dell’Avvento del 1581, dovette affrontare un iter processuale lungo e travagliato. Proprio nella descrizione di questo, l’autore delinea, partendo dalle accuse rivolte a Zanobi, tanto le convinzioni eterodosse popolari quanto le preoccupazioni degli alti ceti cittadini. Così Biasiori, ad esempio, affronta il tema del culto di fra Savonarola, ancora preoccupante per i Medici, e quello della certezza della grazia, esposto dal confessore del protagonista, fonte di assillo per la gerarchia ecclesiastica. Quello di Zanobi, personaggio folle, negli atteggiamenti e nelle convinzioni, è l’unico caso che Sammattei rendirizzò a Roma ma che non vide una conclusione, a causa del ricovero di Nicolini alle Stinche, sede del manicomio e delle prigioni della città. Di rilievo è la riflessione secondo cui Zanobi, riuscendo a sovrapporre il campo del misticismo a quello della malattia mentale, inconsapevolmente riuscì a rendere le sue idee non giudicabili dall’Inquisizione.
Biasiori delinea dunque il sostrato culturale di Firenze (talora fuoriuscendo dalle mura cittadine), nel quale il misticismo, l’esegesi e la precarietà unite a opportunità e necessità costituiscono una fucina di idee eterodosse non generate da grandi teologi ma dal popolo, riportando magistralmente alla luce un Rinascimento fino ad ora inosservabile, sotterraneo appunto.
Flavio Luigi Fortese