Ciclo di seminari organizzato da Maddalena Moglia, Fabrizio Pagnoni e Giacomo Vignodelli
Il ciclo coinvolge studiose e studiosi provenienti da università e istituti di ricerca nazionali e internazionali e ha una forte connotazione metodologica: obbiettivo non è soltanto quello di presentare e portare all’attenzione indagini e iniziative di ricerca in corso, ma anche di discutere e confrontarsi sugli approcci metodologici di volta in volta adottati nell’analisi delle fonti, nel dialogo con la storiografia. Per il taglio scelto, gli incontri si rivolgono dunque non soltanto a docenti e ricercatori di ambito medievistico, ma anche a dottorandi e studenti. Di seguito gli interventi tenuti nel secondo ciclo di seminari, nell’a.a. 2022-23.
Caterina Cappuccio (Bergische Universität Wuppertal), Tra evangelizzazione e istituzionalizzazione. L’edizione delle epistole papali ad Tartaros (XIV sec.), 20 ottobre 2022.
Il tema della prima giornata del ciclo di seminari “Storia medievale. Metodi e ricerche” è stata la presentazione del progetto Lateinische Kirche im Sondermodus (La Chiesa latina in modalità speciale) che, nell’ambito degli studi sui processi di evangelizzazione e istituzionalizzazione delle terre mongole nel XIV secolo, si propone di realizzare un’edizione critica delle epistole papali inviate dai pontefici avignonesi ai governanti tartari tra il 1307 e il 1343.
Tale progetto, avviato nel 2020 dalla prof.ssa Wendan Li (Peking University), è attualmente guidato da Caterina Cappuccio, relatrice del seminario svoltosi a Milano e ricercatrice presso la Bergische Universität Wuppertal.
Da un punto di vista storiografico, il lavoro si pone in dialogo con tre filoni principali. In primo luogo, quello della storiografia sul papato, legata ai concetti forse limitanti di “centro” e “periferia”, in rapporto con la Global History che, parallelamente, porta a superare la categoria dell’universalità del Papato, per indagare più ampiamente le relazioni tra papato ed estremità della terra e i contatti tra i due mondi. In secondo luogo, quello della storiografia sugli Ordini Mendicanti, già ricca di numerosi studi sulla presenza cristiana in Oriente, nei quali tuttavia il papato non viene quasi mai affrontato come forza istituzionale; tra questi si possono citare i lavori di Golubovich, Fedalto, Sella e il volume edito nel 2020 dalla Società Internazionale di Studi Francescani. Infine, il filone che comprende i due recenti contributi di Wendan Li sulla ricezione dell’arrivo dei frati francescani nelle fonti cinesi (in particolare lo studio I viaggi dei frati mendicanti nelle fonti cinesi), che costituiscono l’apporto più originale ai fini dell’edizione delle epistole.
La finalità del progetto è quella di pubblicare l’edizione critica delle lettere papali riguardanti i regni tartari nel XIV secolo, arricchita di un’introduzione sul contesto storico. Gli estremi temporali coincidono con l’epistola Cum hora undecima di Clemente V del 1307 e l’epistola di Clemente VI al khan Yanbek del 1343, anno a partire dal quale, a causa dello scoppio della peste, si interrompono i contatti. Attualmente sono state pubblicate solo alcune delle lettere e la banca dati Ut per litteras apostolicas ne presenta solo la trascrizione: la mancanza di una trattazione sistematica pone quindi le premesse per un loro studio aggiornato e completo. L’edizione proposta da questo progetto si pone comunque in continuità con l’edizione critica di Lupprian (1981), ad oggi quella più importante.
Il corpus dell’edizione comprende 112 lettere, delle quali solo 2 sono indirizzate dall’Oriente alla Sede Apostolica, mentre 31 risultano inviate in eundem modum a diversi destinatari. I documenti sono conservati per lo più in registri papali e nel registro Vaticano 62, qualcuno nella Bibliothèque Nationale de France e uno alla Laurenziana.
Le lettere si inseriscono nel contesto storico delle relazioni tra Papato e Mongoli, fiorite durante l’espansione del regno tartaro da parte di Gengis Khan all’inizio del XIII secolo e di suo nipote Ogodei Khan, che raggiunse i territori dell’attuale Polonia e Ucraina. Nel 1245 il Concilio di Lione definì tra i pericoli per la cristianità la saevitia tartarorum e pose le premesse per la prima missione diplomatica francescana, che ebbe come protagonista Giovanni di Pian del Carpine (1246) e a seguire Guglielmo di Rubruk (1253). I primi segnali di una presenza stabile della Chiesa in Oriente arrivarono nel 1289, con la missione di Giovanni da Montecorvino, che si spinse fino al regno Yuan, sotto il regno di Kublai Khan, divenendo vescovo della città di Khanbaliq. Si innescò così il processo di istituzionalizzazione della Chiesa: Clemente V conferì ai vescovi il diritto di nomina dei loro successori e decretò la nascita di un’ulteriore provincia ecclesiastica, affidata ai predicatori.
I destinatari delle lettere ad tartaros possono essere quindi ecclesiastici, come vescovi o chierici ai quali si ribadiscono i dogmi della fede, oppure laici come principi e sovrani tartari ai quali si annuncia l’arrivo di nunzi o nuovi vescovi. I contenuti riguardano l’evangelizzazione, attraverso gli inviti alla conversione rivolti ai tartari, richieste di salvacondotto o protezione per i religiosi, l’istituzionalizzazione delle nuove diocesi, l’edificazione di nuove chiese o la possibilità di suonare le campane e infine temi mercantili.
Per fare un esempio, in una lettera del 1336 indirizzata al pontefice dai principi alani, si domanda di inviare un legato che possa sostituire il vescovo Nicola, ormai deceduto, facendo notare come la richiesta fosse già stata avanzata invano in passato: alludendo alle promesse non mantenute dalla Sede Apostolica, i principi insistono così su come i cristiani di quelle terre non fossero abituati al concetto di menzogna. Questa epistola offre uno spaccato molto realistico della cristianità tartara del XIV secolo e aiuta a comprendere il passaggio dall’evangelizzazione all’istituzionalizzazione della Chiesa in queste terre: il vescovo rappresenta ora una presenza stabile in un organismo ormai istituzionalizzato.
Benedetta Martinoli
Giulia Zornetta (Università di Venezia), Storie di straordinaria incomprensione. Ludovico II e l’affermazione dell’autorità politica in Italia meridionale, 23 novembre 2022.
Il seminario si è posto l’obiettivo di mostrare come l’imprigionamento dell’imperatore Ludovico II e della consorte Engelberga da parte di Adelchi II di Benevento nell’871 non sia stato un atto estemporaneo, bensì il frutto di una escalation nei rapporti tra sovrani carolingi e principi beneventani che, con alti e bassi, durava dalla conquista carolingia della parte settentrionale del regno longobardo. Al 774 bisogna infatti far risalire la formazione di un rapporto ambiguo, basato soprattutto sull’assunzione da parte beneventana della titolatura principesca. Come si può spiegare tale titolo? Le due ipotesi più concrete sono un riferimento alla tradizione longobarda oppure a quella franca. Nel primo caso la titolatura principesca nel mondo longobardo servirebbe a sottolineare due punti in particolare: la continuità nella guida politica del regno da parte dei principi beneventani e, allo stesso tempo, il cambio di dinastia e della zona di provenienza della stessa. È questo il senso che assume questa titolazione nel prologo alle leggi di re Ratchis. Invece, nel mondo franco, la titolatura principesca è attribuita ad alcune realtà politiche regionali periferiche, i cui duchi godono di una vasta autonomia pur riconoscendo l’autorità regia. È questo il caso di realtà come la Baviera. L’ambiguità delineatasi sin dal 774, sembra venire meno nel 787: Carlo Magno, sollecitato dal pontefice, scende nell’Italia meridionale e ottiene la sottomissione di Arechi. È da sottolineare come la sottomissione non includa un obbligo militare ai Franchi, questo aspetto subentrerà solamente con l’ascesa alla carica imperiale di Ludovico II. L’autonomia del ducato si può notare anche nella Diviso regnorum con cui nell’806 Carlo regolò la divisione dell’impero tra i figli: nei territori conferiti a Pipino, scelto per guidare l’Italia carolingia, erano menzionati quelli spoletini, mentre erano assenti quelli beneventani.
L’ambiguità tra le due realtà continuò durante i regni di Bernardo e di Lotario, mentre troviamo un’opposizione ai Franchi e la difesa esplicita della propria indipendenza a partire dall’849. In quell’anno Ludovico II intervenne militarmente nel sud Italia per porre fine alle tensioni presenti nell’aristocrazia del principato. La divisione dell’antico ducato comportò la formazione di due nuove realtà politiche soggette alla sovranità franca. Infatti, alcuni tratti salienti del patto dell’849 stabilivano il divieto per le due nuove realtà di intrattenere rapporti di alcun genere con l’emirato islamico di Bari, ma anche il divieto per Adelchi e suoi “vassalli” di attaccare Siconolfo (principe di Salerno) e i suoi “vassalli”: l’uso di questa terminologia franca nel Pactum divisionis è un interessante spia testuale dell’interpretazione carolingia della società politica locale. Esso stabiliva inoltre imminenti e future azioni militari contro i musulmani dell’Italia meridionale: i due principi avrebbero dovuto fornire un supporto militare al futuro imperatore.
Ludovico II così iniziava ad affermare in modo deciso la propria sovranità sui territori del meridione italiano, ma non tardò ad arrivare una risposta a questa forte intromissione da parte di Adelchi II. All’epoca, uno dei modi più importanti per affermare l’autorità politica era la raffigurazione sulle monete e il principato beneventano, sotto la guida di Adelchi II, dimostrò una grande attitudine alla sperimentazione in quest’ambito; la spiegazione più plausibile per tale attitudine è la volontà del principe di affermare la propria sovranità. Certo, le monete beneventane erano destinate al pubblico molto ridotto dell’Italia meridionale, ma su queste monete troviamo mutuato il linguaggio con cui i sovrani carolingi esprimevano la loro sovranità, corretto però in modo da sottolineare l’autorità politica di Adelchi. Un altro atto con cui Adelchi manifestò la sua insofferenza verso quelle che erano ritenute ingerenze e limitazioni alla propria sovranità, fu l’emanazione di un capitolo di leggi nel momento in cui Ludovico II annunciò la sua imminente partenza per il meridione allo scopo di conquistare i territori in mano all’emiro di Bari. Nel prologo di tale capitolo possiamo individuare un chiaro manifesto dell’indipendenza beneventana (text of identity), nonché il compito del principe di porsi quale difensore dei longobardi dalle altre genti. Non solo: l’emanazione di un capitolo di leggi, di per sé già elemento di affermazione della propria autorità politica, a Benevento era avvenuta solamente in un’altra occasione, poco prima della campagna di Carlo Magno nel meridione italiano. I principi beneventani emanavano capitoli di leggi solamente nel momento in cui sentivano la propria sovranità e indipendenza in pericolo, per rivendicare la propria autonomia e diversità ricollegandosi all’esperienza del regno longobardo nell’Italia settentrionale.
La campagna militare contro l’emirato islamico non fece che deteriorare la situazione. Sfruttamento delle risorse beneventane, esautoramento dei capi militari longobardi, coniazione di monete recanti le effigi di Ludovico II ed Engelberga ma non di Adelchi. Poco dopo la vittoria e la cattura dell’emiro di Bari, nell’agosto dell’871, Ludovico II fu imprigionato assieme alla consorte a Benevento, segnando uno dei momenti più difficili dei suoi venticinque anni di regno. L’imperatore un mese dopo fu liberato, ma solo dietro la promessa di non tornare più nei territori meridionali. Appare ora più chiaro che la decisione di imprigionare l’imperatore non fu una scelta improvvisa e dettata da legami logorati esclusivamente nel periodo immediatamente precedente all’accaduto, ma si trattava dell’esito di un rapporto ambiguo, caratterizzato da incomprensioni tra due realtà politiche che perdurava ormai da quasi un secolo.
Fabio Spinoni
James Norrie (University of Birmingham), Urban change in Milan and Northern Italy, c. 1050-1150. The view from below, 15 dicembre 2022.
In quest’incontro James Norrie, ricercatore dell’Università di Birmingham, ha voluto interrogarsi sulle cause e gli effetti dei cambiamenti avvenuti nelle città italiane nel periodo cruciale che va dalla metà dell’XI secolo alla metà del XII.
È noto come la tensione generata dal prolungato periodo di guerre civili che interessò l’Italia fra quei due secoli esercitò una notevole pressione disgregatrice sulle forme di governo locale che erano andate affermandosi nei secoli precedenti, portando prima al potenziamento del governo vescovile delle città e poi, con la crisi del prestigio vescovile dovuto ai continui conflitti, a forme sempre più elaborate di autogoverno cittadino. Questi fattori comportarono un’intensificazione della vita pubblica all’interno delle città, processo che è stato finora letto dalla storiografia principalmente come un cambiamento guidato dall’alto, dalle grandi e piccole élite delle città e delle aree circostanti: le parti sociali che più si distinsero nella fase vescovile del governo cittadino furono infatti principalmente quelle nobiliari dei capitanei e dei vasvassores. È importante qui menzionare l’opera di J.-C. Maire Vigueur, che ricorda che i milites erano sia proprietari di terreni, sia professionisti, ma erano comunque accomunati da una cultura e da valori condivisi. Al contrario, studiosi come Chris Wickham hanno sottolineato le distinzioni interne al ceto dirigente, indicando per esempio la presenza di giuristi non aristocratici nel primo comune. James Norrie sottolinea quindi che gli agenti principali appartenevano all’élite: un’élite media, composta in parte da professionisti, ma nondimeno un’élite. Lo studioso prova quindi a rispondere a un altro quesito, a cui non è ancora stata data una risposta esauriente: cosa pensava la “gente comune” dei mutamenti in atto nel loro ambiente sociale. Si tratta di un quesito meno battuto dalla storiografia, anche in virtù della scarsità di fonti che trattano degli strati sociali più bassi e soprattutto delle loro opinioni. Lo studioso si rivolge quindi a ricerche più propriamente archeologiche o antropologiche. Chiama in causa quindi due volumi: The dawn of everything di David Graber e David Wengrow, e Killing civilization di Justin Jennings. Quello che Norrie trae da queste opere è la grande fluidità delle strutture sociali nelle città in rapida crescita, il ritardo con cui gerarchie verticali si affermano su nuclei urbani in espansione e il carattere spontaneo di quelle organizzazioni che pionieristicamente cercano di inquadrare la massa urbana in rapida evoluzione, alimentata da flussi migratori che portano nuovi abitanti in città. Bisogna infatti ricordare che le città hanno a lungo avuto un tasso di crescita naturale negativo, e che la loro crescita in età preindustriale era alimentata essenzialmente dall’ingresso di forestieri, comunità che rimanevano per qualche tempo al di fuori delle istituzioni cittadine costituite e spesso combattevano per mantenere questa autonomia.
Norrie presenta quindi una serie di esempi tratti dall’antichità e dalla contemporaneità, pur suggerendo di non applicare direttamente i modelli che se ne possono trarre, ma di prestare attenzione alle specificità del contesto storico, politico, sociale. In particolare le città padane erano tutte state fondate prima del medioevo ed erano già dotate di istituzioni amministrative; ma l’aumento esponenziale di densità abitativa a cavallo dell’anno Mille rese le città dell’XI secolo creature radicalmente diverse dalle medesime città nei secoli precedenti. È molto difficile trarre dati accurati per la popolazione cittadina di questi secoli, ma possiamo fare delle stime e interpretare alcune tracce archeologiche. Innanzitutto, possiamo notare che la superficie racchiusa dalle mura medievali rispetto a quelle romane in molti casi raddoppia. Poi, comparando varie stime, possiamo generalizzare dicendo che la popolazione urbana aumenta da 5 a 10 volte per la maggior parte delle città in questo periodo.
Un indicatore di questa crescita può essere dato dagli incendi. Infatti, trattandosi di eventi particolarmente memorabili, li troviamo registrati con una certa costanza nelle cronache cittadine, e inoltre possiamo desumerne la loro frequenza e constatare lo sviluppo dei provvedimenti antincendio. Le raccolte di leggi altomedievali che sono pervenute fino a noi, come quella salica e quella longobarda, Il non contenevano elementi riferibili al governo delle città, suggerendo una perdita di centralità e di complessità politica e sociale rispetto al mondo romano. La legislazione antincendio inizia a riemergere nell’XII secolo, in un momento in cui crescono sia la capacità legislativa cittadina, sia le sopravvivenze documentarie, sia la frequenza degli incendi, dovuta al crescere delle città e soprattutto di quartieri nuovi, abitati da immigrati, caratterizzati da strutture disordinate ed erette in legno, e di edifici adibiti ad attività produttive.
Un altro indicatore significativo è la diffusione di epidemie, anche queste più diffuse in popolazioni rurali di recente immigrazione meno avvezze alle condizioni malsane della città, e pertanto indice di crescita demografica. La diffusione della lebbra può quindi essere presa come indicatore dell’affollamento della città, come a Milano, dove nel XII secolo troviamo ben due lebbrosari, che peraltro sembrano essere nati come organizzazioni orizzontali, nate per fornire cure reciproche fra malati, indipendentemente da patrocini ecclesiastici e autonomi dal punto di vista finanziario, almeno fino al XIII secolo.
Il relatore si è poi concentrato sulle forme e sui momenti in cui maggiormente le fasce non appartenenti all’élite hanno sfidato l’autorità socio-politica costituita. Nella cornice geografica-temporale prescelta ciò riporta primariamente alla pataria milanese, accesa nel terzo quarto del XI secolo, periodo in cui anche Cremona e Firenze vivevano una fase di disordini urbani. Il caso milanese rappresenta il primo caso di grande protesta spiccatamente cittadina in Europa occidentale dalla fine del mondo classico, riaprendo quindi la fase di centralità delle città dopo i secoli altomedievali. Le proteste contro la corruzione del clero si concentrarono in particolar modo attorno al settore nordorientale della città, quello di Porta Nuova e di Porta Orientale, in cui si trovava anche l’abitazione del leader patarino Arialdo. Che questa fosse una zona particolarmente influenzata dai sommovimenti sociali è suggerito anche dalla prosecuzione delle tensioni negli ultimi decenni del secolo XI. Norrie propone di spiegare tale propensione notando che questo settore era quello di maggiore insediamento degli immigrati, che provenivano in particolare dal nord della Lombardia, dai distretti di Vimercate, di Monza e di Cantù, e in cui quindi tendevano a riproporsi relazioni e reti sociali orizzontali, di parenti, amici e vicini, simili a quelle delle zone di origine, in un dialogo fra tessuto sociale urbano e rurale. Inoltre, si trattava di zone in cui da qualche decennio andava affermandosi un sistema economico basato sulla commercializzazione dei prodotti agricoli, e che quindi erano particolarmente sensibili alle implicazioni economiche della simonia.
Cercando di posizionare la pataria in uno specifico contesto sociale, Norrie propone che a tramutare in spinte propulsive di un grande movimento sociale le riflessioni degli intellettuali che guidarono il dibattito teologico sui sacramenti fu la precisa cronologia e topografia del mercato urbano e dell’immigrazione, che risentirono dell’effetto talvolta destabilizzante della mercatizzazione dell’economia agricola della zona a nord-est di Milano. Qui si creavano quei network orizzontali che, traslati in città, portavano a coinvolgere un maggior numero di persone a impegnarsi per lottare per riforme radicali e a confrontarsi apertamente con le élite urbane. Ciò può suggerire il modo in cui tracciare i movimenti delle fasce popolari tanto nella vita quotidiana quanto negli eventi dirompenti di questo periodo, nonostante la scarsità di fonti.
Andrea Da Lio
Dario Internullo (Università di Roma 3), Sui beni pubblici nel Lazio altomedievale. Una nuova interpretazione del cosiddetto “Breve di Tivoli”, 26 gennaio 2023.
Il seminario ha avuto per oggetto l’analisi dell’unico polittico conservatosi riguardante il Lazio altomedievale. Proprio per la sua unicità la fonte è stata analizzata da vari studiosi. Essa è stata considerata a lungo come il prodotto dei vescovi tiburtini: un documento loro utile per supportare le loro rivendicazioni territoriali nelle contese con il monastero di Subiaco. Il documento originale risale, con buona probabilità, alla metà del secolo X e la copia a noi giuntaci è databile invece alla metà del secolo XII; essa appare essere guasta di una parte del testo, ma è possibile che già al momento della sua realizzazione il documento originale fosse mancante della medesima parte. A supportare la tesi che vede nell’azione dei vescovi tiburtini la produzione del breve è proprio la presenza della copia del XII in un cartulario vescovile di Tivoli composto nel medesimo periodo, contenente altri documenti utili a supportare la causa dei vescovi tiburtini contro le pretese del monastero sublacense.
Il breve riporta i detentori di proprietà e le rendite che devono versare in virtù della stipulazione di contratti di enfiteusi. Gli enfiteuti sono riportati con vari titoli all’interno del documento mostrando così l’ampio spettro della realtà sociale presente nella regione tra IX e X secolo. Ad ottenere quote maggiori di appezzamenti fondiari sono esponenti dell’aristocrazia romana e laziale che troviamo presentati con il titolo di duces o con quello di comes. Troviamo nominati anche soggetti legati al patriarchio romano e altri enti ecclesiastici, seppur detentori una quantità inferiore di beni fondiari. Da notare è anche la presenza di soggetti a cui non viene collegato alcun titolo: la grande quantità di soggetti in questa condizione e, soprattutto, la varietà nella quantità di beni fondiari loro concessi induce a pensare che l’assenza del titolo non corrisponda a un ruolo economico o sociale irrilevante di tali soggetti nella realtà locale.
Il territorio preso in analisi era detto “patrimonio tiburtino” ed era legato ai vescovi di Roma dalla fine del VI oppure dall’inizio VII secolo. Dopo la riconquista della penisola da parte dei bizantini a seguito della guerra greco-gotica e il loro rapido arretramento dopo l’ingresso nei territori italici dei Longobardi, i vescovi di Roma riuscirono gradualmente a sostituirsi quale autorità pubblica nel territorio laziale. Ben presto i pontefici iniziarono a mettere in circolazione, tramite contratti enfiteutici, i territori finiti sotto il loro controllo. Alla fine dell’VIII secolo è probabile che essi si fossero ormai imposti e legittimati quale autorità pubblica nella regione, venendo così a sostituire il lontano imperatore di Bisanzio. Tivoli rimase sotto l’egida papale sino all’inizio del governo di Alberico su Roma nel 932. Quest’ulitmo impose una politica di smembramento della proprietà ai pontefici, vescovi che dovevano buona parte della propria elezione proprio alla volontà del figlio di Marozia. Tale politica fu favorevole ad alcuni monasteri dell’area orientale di Roma che videro ingranditi i propri possedimenti.
La proposta del professor Internullo si inserisce in questo momento. Se analizziamo il cartulario in cui è inserito il brevenon seguendo l’ordine cronologico dei documenti, come è stato fatto fino ad ora, ma piuttosto tenendo conto del loro ordine all’interno del cartulario stesso, si può dare una lettura differente della storia e della funzione del cartulario, nonché della stessa area presa in analisi. I primi documenti che si incontrano sono infatti tre privilegi pontifici di conferma del possesso di tutta la campagna tiburtina da parte del vescovo di Tivoli. Essi sono datati 973, 991 e 1029. Ciò che appare è dunque che nel 973 il possesso del patrimonio tiburtino fosse ora del vescovo locale e che, dato che il privilegio è di conferma, questa situazione dovesse essere tale da un periodo maggiore di tempo, ma che il documento comprovante ciò fosse venuto meno. Considerando che il primo livello vescovile, concesso dunque dal vescovo di Tivoli, nell’area analizzata risale al 954, è presumibile che negli anni precedenti a quella data sia avvenuto il passaggio dell’amministrazione diretta del territorio dal pontefice romano al vescovo locale. Come è possibile spiegare questo cambio di amministrazione del patrimonio tiburtino alla metà del X secolo? Furono molto probabilmente i vescovi di Tivoli ad esercitare pressione, per quanto possibile, sul pontefice, quasi sicuramente Marino II, perché cedesse loro il controllo del patrimonio fondiario piuttosto che smembrarlo a favore delle realtà monastiche locali. Il breve, documento che segue i tre privilegi di conferma nel cartulario, sarebbe stato prodotto negli anni immediatamente precedenti la cessione del patrimonio dalla curia papale. Lo scopo era quello di racchiudere in un unico documento, contenente gli elementi fondamentali, i contratti di enfiteusi che i pontefici avevano concesso dall’800 fino al 939 e che, presumibilmente, all’epoca della realizzazione della copia originale del breve erano contenuti nel patriarchio. Esso fu, plausibilmente, ceduto ai vescovi di Tivoli assieme al documento che attestava loro il controllo del patrimonio fondiario.
Nonostante la cessione del territorio ai vescovi tiburtini, i vescovi di Roma continuarono a influenzare e controllare indirettamente l’area, come mostrano le donazioni effettuate in vari momenti dell’episcopato tiburtino al monastero sublacense indotti da precetti pontifici.
Fabio Spinoni
Riccardo Rao, Paolo Buffo (Università degli Studi di Bergamo), Ricostruire il paesaggio medievale di Monaco: dalle fonti documentarie al GIS e al 3D, 9 febbraio 2023.
Durante il seminario, i relatori hanno presentato i risultati relativi alla prima fase del progetto Sources et technologies pour l’histoire du paysage monégasque, esponendone premesse e obiettivi ed enucleando i principali snodi metodologici della ricerca ancora in corso.
Il progetto – volto alla ricostruzione del paesaggio della Monaco medievale a partire da un lavoro di edizione critica e di valorizzazione di alcuni fondi documentari conservati presso le Archives du Palais Princier de Monaco e l’Archivio di Stato di Torino – ha fatto emergere fin dall’inizio un problema di ordine metodologico: quello di come ricostruire il paesaggio storico a partire da un materiale documentario estremamente eterogeneo. Infatti, accanto a fonti seriali che, come quelle catastali, ben si prestano ad un’indagine sistematica di tipo quantitativo, le altre tipologie documentarie – quali registri notarili, estimi, inventari, carteggi – richiedono l’impostazione di un’analisi di tipo qualitativo. Ne consegue che, accanto al passaggio dal mero dato quantitativo al dato qualitativo, si richieda anche la riduzione della scala su cui estendere l’indagine e, dunque, si renda necessario lavorare su un livello di micro-toponomastica.
Contestualmente alla ridefinizione degli spazi e degli strumenti dell’indagine, è stato necessario ripensare e, quindi, riformulare i quesiti con cui interrogare le diverse fonti: il problema metodologico, infatti, ha sollevato una riflessione di ordine storiografico relativa alle prassi con le quali condurre l’indagine sul paesaggio storico. Data l’impossibilità di tradurre il dato qualitativo in una rappresentazione oggettiva dello spazio continuo, si è ritenuto imprescindibile ripartire dalla definizione antropocentrica del paesaggio – il punto di vista di chi guarda il paesaggio – e, dunque, dalle imaginary cartographies (Smail), quelle mappe mentali capaci di restituire, proprio nella loro discontinuità spaziale, le diverse percezioni del paesaggio.
Dunque, alla fase di digitalizzazione, di descrizione e di edizione critica delle fonti documentarie, è seguito un lavoro di indicizzazione attraverso il quale isolare quelle voci che riguardassero i diversi elementi del paesaggio storico (tra i quali, gli usi del suolo, le specie vegetali e colturali attestate, le infrastrutture per le attività agricole). I dati così ottenuti sono stati georeferenziati attraverso i micro-toponimi e inseriti all’interno di un database. Proprio per il caso monegasco, la notevole continuità e, dunque, la sostanziale rispondenza tra toponimi medievali dedotti dalle fonti e toponimi moderni individuati dalle diverse rappresentazioni cartografiche di età moderna hanno permesso di predisporre una griglia di micro-toponimi di notevole precisione, di geolocalizzare i dati e di procedere alla mappatura delle diverse specie colturali, delle modalità di uso e di sfruttamento del suolo e delle diverse forme di insediamento e di habitat.
Le molteplici operazioni di incrocio di questi dati consentono una pluralità di prospettive con le quali approcciare e interrogare le fonti documentarie e cartografiche edite sul sito PatriMon. Il progetto, infatti, coniugando il lavoro sulle fonti documentarie e la restituzione dei dati attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie, si pone un duplice obiettivo. In primo luogo, quello di tradurre i diversi risultati della ricerca in linguaggi e prodotti che consentano un’immediata intelligibilità, in modo da essere fruibili da parte di un pubblico il più eterogeneo possibile: è il caso dell’indicizzazione delle fonti documentarie e cartografiche, del GIS, della restituzione del paesaggio molitorio in 3D. In secondo luogo, quello di dimostrare come la ricerca storica – e più specificatamente l’indagine sul paesaggio – possa, in sinergia con altre competenze e discipline,
offrire contributi e strumenti notevoli e, talvolta, orientare le politiche di governo del territorio locale: in questo caso, le misure di intervento paesaggistico.
In conclusione, il caso di studio sul paesaggio monegasco offre un esempio concreto di come un’operazione di esegesi della fonte scritta – integrata, ove possibile, con i dati archeologici, materiali, iconografici e architettonici – permetta una ricostruzione regressiva del paesaggio storico: accantonata la pretesa di tradurre dati qualitativi e quantitativi in rappresentazioni oggettive e continue dello spazio, l’individuazione di punti di ancoraggio e la messa a punto di cartografie profonde consentono di restituirci gli spazi vissuti dalle comunità del territorio oggetto della ricerca e, dunque, l’immagine profonda di un paesaggio in continua trasformazione.
Roberta Svanoni
Tommaso Vidal (Università degli Studi di Parma), Tra fonti, sociologia ed economia: la business history alla prova nei contesti ‘periferici’, 16 marzo 2023.
Finalità dell’intervento del dott. Vidal è stata quella di illustrare, tramite un peculiare caso di studio, i frutti di una ricerca che vede attualmente impegnato il relatore, concernente il sistema di produzione delle merci, il loro trasporto e le relazioni commerciali sussistenti nell’arco alpino orientale in epoca tardo medievale. Il tema è stato presentato a partire da un punto di vista molto specifico, quello offerto da un’unica fonte, di carattere ‘straordinario’ (almeno sul piano della geografia documentaria): un registro fiscale del centro alpino di Gemona, sito nell’odierno Friuli, risalente al 1426-1427 (un secondo registro, riferito all’annata immediatamente successiva, è purtroppo in uno stato di conservazione che ne rende quasi impossibile l’indagine).
Nell’analizzare tale registro, prezioso specchio delle reti economiche dell’epoca, pur come detto nella sua contingenza topica e cronologica, il relatore si è proposto di seguire nella propria esposizione una precisa domanda-guida: la grande frammentazione fiscale, che indubbiamente emerge dallo studio delle vallate friulane dei primi decenni del XV secolo, si rivelò essere un ostacolo o piuttosto una spinta per le relazioni commerciali e per l’organizzazione del lavoro delle comunità alpine del periodo? Dall’analisi delle fonti coeve, la Gemona tardo medievale risulta essere protagonista attiva in un’area tanto cruciale nei rapporti (commerciali e culturali) tra mondo tedesco e Mediterraneo quanto giurisdizionalmente frammentata; contesa tra il Patriarcato di Aquileia, il Vescovato di Bamberga e i duchi di Carinzia, signori della vicina rivale Venzone, la cittadina sul Tagliamento costituiva una tappa obbligata dello snodo commerciale che dalle montagne della Carniola, della Stiria, della Carinzia e da lì dal Salisburghese conduceva, attraverso Tarvisio e la Val Canale, fino a Venezia. Si trattava dunque di un importante centro di una vallata italofona posta lungo un’arteria commerciale germanica; non è un caso che la zona di Gemona e Venzone sia pressoché l’unica in Italia nella quale le fonti attestino l’esistenza del Niederlech, privilegio commerciale caratteristico dell’area tedesca secondo il quale i mercanti, una volta giunta in una determinata località, erano costretti al pagamento di un dazio e ad una sosta giornaliera, durante la quale le merci dovevano essere interamente caricate su carri condotti da agenti locali.
Il registro rinvenuto da Tommaso Vidal è proprio un registro relativo al Niederlech, nel quale l’ignoto scriba, evidentemente poco avvezzo alla lingua tedesca, tiene nota del nome dei mercanti in transito, delle merci da loro trasportate (tipologia e quantità), della località di provenienza e di quella di destinazione (in primis il fondaco dei tedeschi a Venezia). Attraverso l’analisi di tali preziosissime informazioni, il relatore ha posto l’accento su due questioni: nel caso specifico di Gemona, quale nesso sussisteva tra le entrate daziarie garantitele dal Niederlech e lo sviluppo della comunità locale? Quali erano le merci transitanti lungo tale via e, di conseguenza, qual era l’entità delle entrate? In rapporto alla prima questione, il ricercatore ha adottato un’osservazione mesoeconomica, privilegiando l’analisi del contesto sociale, culturale e tecnologico, e sullo studio degli agenti economici in relazione al territorio. Ne emerge una vera e propria “svolta infrastrutturale”: l’intero complesso delle infrastrutture, assolutamente necessarie al commercio e, nel caso specifico, mantenute tramite il Niederlech, andrebbe cioè considerato quale parte integrante dei rapporti sociali ed economici di quel territorio, non più mera somma di elementi antropici.
Siamo così di fronte ad una tipica “fiscalità di transito”: la comunità cresce grazie alle entrate daziarie pagate dai mercanti di passaggio, e gli oneri della tassazione (ad esempio, mantenere le strade pulite e sicure) si traducono in tutela del bene pubblico, alimentando così la crescita della comunità stessa. Interessante notare come lo stesso privilegio del Niederlech, già concesso dal Patriarcato di Aquileia ma mantenuto anche sotto la Serenissima, si traduca in una delega al potere centrale, e pertanto in un elemento connotato anche in senso schiettamente politico.
Riguardo invece alla natura delle merci in transito, dal registro in questione emerge per il 1426 un consistente flusso di metalli diretto verso la laguna veneta mentre, in direzione sud-nord, troviamo olio, pesci e altri tipici prodotti mediterranei. Se ci rivolgiamo poi all’entità delle entrate daziarie – con tutta evidenza ciò che spingeva i gemonesi a compilare puntigliosamente tali libri fiscali – risulta utile ampliare brevemente lo sguardo e cogliere nel suo insieme il ciclo produttivo del ferro (una delle più importanti e redditizie delle merci transitanti per Gemona). Il prezioso metallo veniva estratto a monte, principalmente nelle ricche miniere della Stiria; da qui, convergeva in forma grezza verso il grande centro stiriano di Judenburg, dove iniziava il viaggio verso sud, che prevedeva come tappe obbligate Villach (Carinzia), il valico di Coccau, Tarvisio e la Valcanale da dove, seguendo il corso del Tagliamento, veniva trasportato sino alla costa veneto-friulana per raggiungere infine Venezia. Molto importante sottolineare, ai fini della ricostruzione dell’economia dei centri alpini italofoni della zona, come il ferro lasciasse le montagne austriache come semi-lavorato e venisse trasformato in manufatti finiti soltanto una volta giunto nei centri della Valcanale, geograficamente in area italica ma sotto la medesima giurisdizione del vescovato di Bamberga.
Una volta ricostruito brevemente il ciclo produttivo del ferro nell’arco alpino orientale, resta da analizzare un’altra tematica di interesse: quali rapporti sussistevano tra commercianti e trasportatori friulani? A tale questione Vidal ha riservato l’ultima parte del seminario, tramite però una prospettiva tanto nuova quanto interessante: il tentativo da lui attuato di applicare alla business history del tardo medioevo gli strumenti offerti dalla tecnologia attuale. Nel caso specifico, il registro gemonese del 1426 è stato analizzato tramite Gephi, un software sviluppato appositamente per l’analisi delle reti sociali. Avendo inserito il ricercatore come “nodi” nel software i nomi dei vari mercanti emersi dalla fonte manoscritta, e integratili con varie misure statistiche da lì ricavate, Gephi ha restituito in maniera graficamente efficace i “nodi” dei mercanti più produttivi, ovvero quelli che erano al centro del maggior numero di relazioni d’affari, tra i quali spicca un certo Leonardo da Tarvisio. Il grafico ha permesso altresì di evidenziare come i mercanti di area asburgica si affidassero soprattutto ai mercanti di Bamberga, mentre questi ultimi prediligevano gli operatori veneto-friulani; di contro, il Vescovato di Salisburgo emerge come area del tutto slegata ed autonoma.
Tirando le somme delle evidenze ottenute mediante l’ausilio del software, il relatore ha affermato come il settore orientale dell’arco alpino al tramonto del medioevo presentasse alcune caratteristiche proprie di un “mercato della logistica”, in primis un numero consistente di lavoratori disponibili a concorrere per il medesimo servizio ad un prezzo molto simile; di contro, Vidal ha messo in guardia dal pericolo di incorrere in anacronismi, evidenziando per esempio come i legami di vicinanza e area di provenienza tra i vari operatori economici rivestissero ancora un peso tutt’altro che trascurabile. Proprio il confronto appena accennato tra l’economia “di ieri” e l’economia “di oggi” ha consentito al relatore di chiudere il proprio intervento riallacciandosi alla domanda-guida con cui lo aveva aperto: quale ruolo assegnare alla frammentazione fiscale messa in luce dal caso di studio considerato? Secondo il parere di Vidal, non certo quello di “freno”, contrariamente a quanto la nostra sensibilità economica odierna potrebbe suggerire: nella Gemona di inizio XV secolo risulta infatti evidente come un regime daziario diversificato, unito ad una suddivisione del processo produttivo, abbia permesso una maggiore distribuzione delle opportunità di accesso ai beni e abbia favorito forme di integrazione e specializzazione complementari.
Matteo Bormioli
Giorgia Vocino (Université de Namur), La cultura in rete. La comunità degli irlandesi e la circolazione dei testi nell’Europa carolingia, 5 maggio 2023.
Il seminario ha presentato l’analisi dei testi riconducibili alla mano di un anonimo autore originario dell’Irlanda e operante sul continente fra gli anni Cinquanta e Settanta del secolo IX. La storiografia si è concentrata negli ultimi decenni sull’analisi delle cosiddette “reti sociali” che caratterizzavano il mondo carolingio, anche in merito all’élite intellettuale oggetto del seminario. La fonte presa in analisi è il famoso codice Bern 363, conservato nella Burgerbibliothek della città svizzera. Come altri tre codici, esso mostra la produzione da parte della medesima mano; la sua struttura e il suo contenuto possono fornire molte informazioni in merito alla cultura del copista e alle forme della circolazione culturale in quell’epoca.
Il codice si compone di diverse parti: tre quarti delle sue pagine sono occupate dal commento a Virgilio di Servio, cui segue un ultimo quarto formato da svariate sezioni che contengono testi di diversa natura.
La prima parte si compone, come detto, del commento a Virgilio. Dalla mise en page si intuisce l’uso scolastico cui l’opera era destinata: lo spazio interlineare e i margini ampi confermano tale lettura. Di grande rilievo risultano essere le note in esso presenti: esse sono spesso di rinvio ad ulteriori autori e magister coevi, su tutti Sedulio Scoto e Giovanni Scoto Eriugena, oppure invitano a confrontare dei passaggi del testo con ulteriori opere lette dal copista in varie località del regno di Carlo il Calvo o della Lotaringia. Alcune annotazioni di colore differente rispetto a quelle del testo permettono di ipotizzare come l’autore sia tornato in periodi differenti sull’opera, riflettendo e commentando avvenimenti a lui contemporanei. Sulla base dello studio dei diversi strati di glosse si può dunque affermare che l’antigrafo alla base della prima parte del bernese fosse un manuale ad uso scolastico realizzato da un collaboratore o da una persona vicina a Sedulio Scoto e alla rete di intellettuali, irlandesi e non, a lui legata.
L’ultimo quarto del codice risulta essere formato da testi di natura eterogenea che permettono di conoscere gli interessi dell’anonimo: tra questi la botanica, l’attualità e le poesie d’occasione suggeriscono un diverso luogo e momento per la redazione di quest’ultima parte. Le riflessioni sul divorzio di Lotario II dalla moglie Teutbega consentono di datare la sezione in un periodo compreso fra la fine degli anni Cinquanta del secolo IX e la fine del decennio successivo. L’ordine dei capitoli del De materia medica, trattato di medicina e botanica, da egli copiato e la presenza di poesie dedicate a personaggi del regno italico, come Tadone arcivescovo di Milano, suggeriscono la sua presenza nei confini del regno di Ludovico II. Le note presenti in questa sezione mostrano come tale personaggio fosse a conoscenza di molti grandi intellettuali e figure eminenti dell’epoca e come conoscesse anche il loro pensiero e collocazione rispetto all’affaire di Lotario II. L’anonimo, seguendo le posizioni assunte da molti grandi presuli ed intellettuali della Lotaringia, sostenne inizialmente le posizioni del sovrano, dovendo in un secondo momento cambiarle per l’opposizione al divorzio espressa dal pontefice Niccolò II.
In conclusione, ciò che questa ricerca mostra e conferma è l’alto livello culturale delle élites intellettuali carolingio e la circolazione di testi in grandi reti culturali aventi molti nodi. Insieme ad essa a circolare era anche l’attualità e le informazioni sugli eventi di grande rilevanza, come il caso di Lotario II esemplifica bene. L’importante manoscritto Bernese 363 non fu dunque realizzato nel medesimo luogo e tempo, ma la stessa mano proseguì la produzione del codice in almeno due luoghi diversi e consultando due o più antigrafi differenti, confermando come nell’alto medioevo circolassero uomini e cultura nel vasto impero carolingio.
Fabio Spinoni