Il libro Selve oscure e alberi strani è una raccolta di quattordici saggi dedicati al tema del bosco nel Trecento italiano. Il curatore è Paolo Grillo, professore di Storia medievale presso l’Università degli Studi di Milano ed esperto di storia delle città italiane nei secoli XII-XIV, nonché sostenitore di un approccio interdisciplinare alla storia sociale, dei paesaggi e degli ambienti medievali. Tale tipologia di approccio è molto ben esemplificata da questa raccolta di saggi, tra i cui autori, seppur per la gran parte storici medievisti, figurano anche storici della letteratura italiana, esperti di botanica e archeobotanica, archeologi.
Il sottotitolo I boschi nell’Italia di Dante, oltre che fungere da richiamo e omaggio per il settecentenario dalla morte del Sommo Poeta, ha la funzione di calare il lettore in un ambito e contesto specifico, quello appunto dell’Italia a cavallo tra XIII e XIV secolo, e di aprire la strada ad alcuni saggi che trattano in maniera dettagliata di questioni inerenti a Dante stesso e alla sua opera.
Apre il volume l’introduzione di Grillo, che funge da cornice metodologica dell’intera opera, andando a delineare problemi e dibattiti in ambito storiografico relativamente all’oggetto di studio del volume. Innanzitutto è chiarito l’approccio articolato e inclusivo (p. 8), basato sulla cooperazione fra specialisti di diverse discipline; questo pare essere proprio il punto focale dell’opera, insieme alla convinzione che la storia ambientale ampiamente intesa possa illuminare aspetti del passato che non sempre si ritrovano nella storia istituzionale e politica.
I saggi dei quali si compone il volume sono divisi in due parti: la prima dedicata alle narrazioni e descrizioni del bosco, la seconda invece al suo utilizzo e alla convivenza con esso. Questa distinzione si rivela molto efficace nel mostrare come i boschi non fossero intesi solo come territori da sfruttare, ma fosse diffusa anche una narrazione su di essi che rimanda spesso al linguaggio simbolico tipicamente medievale.
Per illustrare in questa sede i diversi saggi si è scelto di rispettare la suddivisione nelle due parti operata nel volume, modificando solo l’ordine di presentazione dei saggi all’interno di esse, al fine di sottolineare i diversi approcci e punti di vista utilizzati dagli autori. Si è inoltre scelto di sottolineare, laddove essa non sia di tipo strettamente storico, la “provenienza disciplinare” degli autori: ciò per mettere ancor più in risalto l’intenzione del volume nel dare un taglio interdisciplinare alla ricerca.
Il primo saggio tratta, coerentemente col sottotitolo, del ruolo del bosco nella Commedia e, in particolare, delle tre foreste dantesche: la selva oscura, il bosco dei suicidi, e la foresta dell’Eden; l’autrice, Sandra Carapezza, è docente di letteratura italiana e quindi il suo è un discorso prettamente linguistico. Questo è il saggio più “dantesco” dell’intero volume, insieme a quello di Ilda Vagge (docente di botanica), che però guarda a Dante concentrandosi sul rapporto tra questi e la botanica, illustrando quali fossero le opere di botanica più diffuse nell’antichità e nel medioevo, e che quindi Dante conosceva e potrebbe aver utilizzato per i riferimenti alle piante nelle sue opere. Il breve saggio di Vagge si conclude con una riflessione di genere sul ruolo delle donne nell’utilizzo delle erbe per la cura delle malattie, sorta da alcuni versi di Dante relativi al XX canto dell’Inferno.
In altri saggi il discorso si amplia passando dalla produzione dantesca alla più generale trattazione o documentazione medievale riguardante o comprendente i boschi. Abbiamo così un saggio (Lidia Zanetti Domingues) che si concentra sull’uso del termine e del concetto di bosco (e sinonimi) nei materiali relativi alla predicazione e all’omiletica bassomedievale, soprattutto in exempla e distinctiones. Il nocciolo del saggio è la confutazione della teoria di Lynn White sul ruolo svolto dalla teologia cristiana medievale nel porre le basi dell’attuale crisi ecologica, diffondendo l’idea che la natura sia stata creata da Dio per essere posta al servizio dell’uomo. Ci si sposta poi con Maddalena Moglia al trattato di agronomia medievale per eccellenza, cioè quello di Pier de’ Crescenzi, scritto nel primo decennio del XIV secolo. Tema suggestivo che viene sollevato in queste pagine è quello della interdipendenza fra colto e incolto nell’Italia medievale, logica entro la quale si iscrive il giudice bolognese che vede il bosco come qualcosa di strettamente legato e funzionale rispetto alle terre coltivate. La trattazione del De’ Crescenzi è molto pratica e volta a dare le conoscenze per un migliore e più funzionale sfruttamento delle risorse del bosco. Infine, è affrontato (Louise Gentil) il rapporto fra i boschi e i monaci cistercensi di Chiaravalle milanese, in particolare per quello che si evince dalla documentazione prodotta internamente al monastero tra XII e XIV secolo. Si tratta della presenza o meno di aree boschive nella Pianura Padana del Trecento, per passare ad un’analisi dei termini usati per indicare il bosco nei documenti del monastero milanese.
Altri due saggi completano questa prima parte del volume: quelli di Matteo Ferrari e Francesco Violante. Il primo ci porta a esplorare la pratica antica della riunione sotto gli alberi, soprattutto olmi e tigli, nel contesto dell’Italia comunale tra XII e XIV secolo: dalle origini di tale uso al passaggio dall’albero al palazzo civico. L’intervento si conclude con la trattazione incentrata sugli affreschi del palazzo della Ragione di Mantova raffiguranti l’episodio storico del tradimento di Marcaria, nei quali è presente, appunto, un olmo, sotto il quale i congiurati si sarebbero riuniti per coordinare il tradimento. Ferrari conclude discutendo il senso di tale pratica: era dettato da necessità di ordine pratico o di carattere simbolico-rituale? Violante ci porta invece ad allontanarci momentaneamente dall’Italia centro-settentrionale per osservare come la foresta era gestita e concepita nel Regno di Sicilia e soprattutto come il termine foresta indicasse in primo luogo un regime giuridico della terra.
La seconda parte del volume presenta una serie di saggi che indagano il bosco e i suoi rapporti con le comunità in varie località specifiche: si parla qui di bosco vissuto e utilizzato, di bosco reale e non più simbolico. Il primo caso di studio, presentato da Dario Canzian, verte sui boschi della Serenissima tra XII e XIII secolo; le domande alla base della trattazione riguardano l’esistenza e la consistenza di zone boschive nel territorio lagunare e le modalità dello sfruttamento delle risorse boschive da parte della Repubblica, per concludere con l’analisi di alcuni casi ancor più specifici di boschi trevigiani. Erica Castelli ci parla invece della diffusione del castagno nelle Tre Valli svizzere, e della sua gestione e sfruttamento (tra XIII e XIV secolo). Si passa con Philippe Lefeuvre agli usi collettivi del bosco, sia quello selvatico che “coltivato”, attestati nella documentazione fiorentina dall’ XI al XII secolo. Laura Bertoni si sofferma sull’uso e commercio di legna a Pavia alla fine del Duecento, mentre Vittoria Bufanio prende in esame l’area piemontese parlando dello sfruttamento dei boschi per l’edilizia all’inizio del Trecento.
Concludono il volume due saggi che al meglio rappresentano e presentano quello spirito di interdisciplinarietà citata nell’introduzione di Paolo Grillo: si tratta infatti di contributi non di soli storici, che hanno il pregio di mostrarci come una collaborazione fra specialisti, anche molto diversi tra loro, possa portare a un avanzamento nella conoscenza della storia, soprattutto quella ambientale e medievale per la quale, per ovvie ragioni, non sempre la documentazione in nostro possesso può illuminare tutti i processi. Il saggio di Daniele Bortoluzzi e Marco Cavallazzi si concentra sulla pineta ravennate ai tempi di Dante, ma se il primo è uno storico e il secondo un archeologo, il quadro che ne emerge è sicuramente affascinante. Vengono qui citate e utilizzate quelle discipline definite paleoscienze, come la dendrocronologia, l’archeobotanica, la geoarcheologia etc. le quali per forza di cosa necessitano della collaborazione fra studiosi di diversa provenienza disciplinare: solo unendo diverse competenze è infatti possibile interpretare in maniera più completa possibile i dati che queste discipline ci forniscono. Una nota da fare in merito a tale contributo è che, pur essendo chiaro il desiderio di unire le competenze, i due interventi, uno storico (basato sulle fonti d’archivio) e l’altro archeologico (basato su ricerche archeobotaniche e geoarcheologiche), siano nettamente separati all’interno del saggio. Sarebbe forse auspicabile in un futuro che i dati vengano interpretati in modo da giungere non a due visioni sommabili tra loro per avere un quadro più completo, ma a una sintesi comune che renda conto dei dati ottenuti in maniera complessiva e comparata. Infine, Barbaria Proserpio e Mauro Rottoli ci informano sui dati che discipline ibride come l’archeobotanica e la palinologia sono in grado di fornirci in merito ai boschi all’epoca di Dante. Il contributo ha il merito dimettere in evidenza la grave mancanza che l’archeologia medievale vive in Italia. L’obiettivo del saggio è quello di rendere conto dell’estensione e della tipologia della copertura arborea nella penisola del XIV secolo; per fare ciò si usano diversi strumenti e punti di vista: il clima, la demografia e la fondazione di nuovi insediamenti, la palinologia. In questo saggio si può cogliere quello che forse si percepiva meno nel contributo precedente: un’analisi basata sull’incrocio e l’analisi di una serie di dati di diversa origine e natura, senza tralasciare l’apporto fondamentale che le fonti d’archivio possono dare. È forse questo il saggio che meglio prospetta un nuovo e auspicabile modo di fare ricerca interdisciplinare, vero cuore del volume.
Dalla lettura di questo libro non può che derivare una maggiore consapevolezza sull’importanza della storia ambientale, soprattutto per chi voglia studiare il medioevo: tanti sono gli spunti che questi saggi danno in merito. L’altro focus dell’opera è sicuramente quello di imparare a guardare le cose dai vari punti di vista: un bosco non è solo un bosco, ma può essere un luogo letterario e simbolico, una metafora, una risorsa, un campo di studio, un regime giuridico e un luogo che ancora oggi, se indagato con le opportune metodologie, può parlarci del suo passato e divenire fonte storica.
Isabella Bonaschi