Storia medievale. Metodi e ricerche è un ciclo di seminari organizzato da Maddalena Moglia, Fabrizio Pagnoni e Giacomo Vignodelli.
Il ciclo coinvolge studiose e studiosi provenienti da università e istituti di ricerca nazionali e internazionali e ha una forte connotazione metodologica: obbiettivo non è soltanto quello di presentare e portare all’attenzione indagini e iniziative di ricerca in corso, ma anche di discutere e confrontarsi sugli approcci metodologici di volta in volta adottati nell’analisi delle fonti, nel dialogo con la storiografia. Per il taglio scelto, gli incontri si rivolgono dunque non soltanto a docenti e ricercatori di ambito medievistico, ma anche a dottorandi e studenti. Di seguito gli interventi tenuti nell’a.a. 2021-22.
Alberto Luongo, La peste e l’Italia del Trecento: considerazioni sul valore periodizzante dell’epidemia, Milano 27 gennaio 2021, cronaca di Ilaria Longhin. Obiettivo del seminario è stato quello di impostare un discorso di carattere storiografico sulla peste nel limite cronologico del XIV secolo, individuando le posizioni principali della storiografia italiana e internazionale in merito. In modo particolare, ci si è concentrati sulle nuove possibili prospettive sullo studio dell’epidemia, che possono emergere da un ulteriore approfondimento rispetto alle ricerche passati. Guardando alla Gran Bretagna, ovvero il Paese che maggiormente si è occupato dell’argomento, è possibile riscontrare diversi approcci, come quelli malthusiano e marxista, ma anche quello più prettamente medico (è il caso di Samuel Cohn). L’interesse inglese per il tema è legato alla little divergence, ossia il processo che ha portato l’Inghilterra ad essere il primo Stato a sviluppare la Rivoluzione industriale: come mostrano infatti i risultati della ricerca di Mark Bailey (After the Black Death: economy, society and Law in the fourthteenth century England), proprio le conseguenze della peste sui meccanismi di domanda e offerta avrebbero dato origine all’economia inglese moderna. La peste viene quindi considerata nel panorama inglese come un evento sconvolgente, che ha però permesso il raggiungimento di una nuova stabilità nel Quattrocento. Diverso è il caso italiano: gli studi degli storici anglosassoni, infatti, non vi sono infatti facilmente applicabili a causa delle differenze del contesto urbano e sociale del Trecento nostrano rispetto a quello inglese. Nonostante questo, però, un dialogo fra le due storiografie è possibile e, anzi, potenzialmente ricco di nuovi stimoli per il panorama italiano, che spesso si è invece adagiato sulla posizione malthusiana, senza analizzare in modo specifico le proprie peculiarità. Si è insistito di conseguenza sulla necessità di partire dalle fonti, e quindi di sviluppare prima di tutto un discorso di carattere metodologico. Citando il lavoro di Elisabeth Carpentier sulle fonti del comune di Orvieto e poi quello di William Bowsky su quelle di Siena, si è voluto richiamare un preciso tipo di approccio, che invece è stato più tardi accantonato; esso, partendo strettamente dalle fonti, analizza in modo particolare gli anni immediatamente successivi alla peste, studiandone non tanto le conseguenze di lungo periodo, quanto quelle immediate. In questo modo, si evita il rischio di trattare la peste soltanto come uno dei tanti elementi che hanno influito nella storia economica del Trecento, dandola così quasi per scontata, e riuscendo invece a considerarla come evento in sé. Al contrario, l’inserimento della peste in discorsi di respiro più ampio ha impedito di avere un vero focus sull’anno 1348 e sulle sue conseguenze dirette sull’economia e non solo. Utilizzando quindi anche gli atti del convegno tenutosi a Todi nel 1993 (La peste nera. Dati di una realtà ed elementi di una interpretazione), è possibile ripercorrere la storia dei primi decenni della seconda metà del XIV secolo, analizzando in quale modo la peste ha influito su ambiti diversi. Per compiere questa operazione è necessario uscire dal dualismo che contrappone un “prima” a un “dopo” la peste, per considerare in primo luogo che alcuni processi, come il calo demografico, erano già in atto prima dell’arrivo dell’epidemia (la quale però, naturalmente, tende a dare loro un’accelerazione), e in secondo luogo che la società e le istituzioni esistenti prima del 1348 sono le stesse che ritroviamo immediatamente dopo. Questa continuità, frutto anche della resilienza della società medievale, emerge ad esempio da quelle fonti che mostrano come le commissioni create dai Comuni per rispondere all’emergenza si limitassero ad applicare in modo più consistente misure già esistenti nell’ambito dell’igiene pubblica; queste commissioni, inoltre, tendono a non travalicare il loro ruolo, ma restano subordinate alle magistrature di governo ordinarie. Nonostante le narrazioni drammatiche, spesso legate a topoi letterari, la malattia viene insomma vista come un fatto inevitabile, che va semplicemente gestito (da qui l’utilizzo nelle fonti dei termini fatalitas e mortalitas). Ci sono, però, degli aspetti per i quali la peste ha avuto una valenza tanto forte da essere davvero periodizzante. Il principale fra questi è ovviamente l’altissima mortalità da essa causato, inedita per il mondo bassomedievale. Guardando invece alla storia istituzionale, sono stati individuati esempi per i quali la peste è stata probabilmente determinante nel decidere la sorte di un Comune o di un’intera area regionale: è il caso di Gubbio, dove la morte di gran parte della classe dirigente aveva portato al governo una generazione meno esperta, causando forse la perdita dell’autonomia da parte del Comune; un altro esempio è quello di Firenze, la quale solo dopo l’arrivo della peste riesce finalmente ad allargare il suo dominio nel resto della Toscana. In conclusione, è stata mostrata la necessità da un lato di trattare la peste non soltanto come un elemento inserito all’interno di dinamiche più ampie, ma anche oggetto di studio indipendente da altri campi, dall’altro di arricchire il tema con ricerche di prima mano. Un approccio di questo tipo fa emergere l’immagine di un secondo Trecento colpito sì dal trauma dell’epidemia, ma al tempo stesso, e forse di conseguenza, in fase di cambiamento e alla ricerca di una sua nuova stabilità.
Paolo Tomei, Ritorno a Maleo: forme della parentela e caratteri dell’azione aristocratica nella Lombardia tra X e XI secolo, Milano 24 febbraio 2022, cronaca di Luca Belluscio. Il seminario di Paolo Tomei, ricercatore dell’Università di Pisa, ha fornito una rilettura del dossier relativo alla famiglia della media aristocrazia lombarda dei “da Bariano/da Maleo”, studiato con perizia da Cinzio Violante e tassello fondamentale per la ricostruzione del processo di signorilizzazione. Violante la definì una “famiglia feudale”, strutturata in senso dinastico-patrilineare, che perseguiva, generazione dopo generazione, il raggruppamento del patrimonio fondiario intorno a centri incastellati, base per la formazione della signoria. Tale strategia si realizzò attraverso il fenomeno denominato “arrotondamento”: l’incameramento dei terreni interposti tra i possedimenti familiari e di quelli a essi contigui. Per Violante ciò avveniva di norma con permute e donazioni; solo eccezionalmente con privilegi regi, come fu per i da Bariano/da Maleo. Costoro, infatti, ottennero due diplomi: il primo da Ottone III nel 998, in cui sono menzionate analiticamente oltre quaranta località; il secondo da Enrico II nel 1022, in cui le località si riducono a tre, poiché esse comprendono al loro interno i possessi “arrotondati”. Tomei non ha inteso mettere in discussione la lettura analitica delle carte condotta da Violante, ma proporre spunti di riflessione in ordine a due questioni, che consentono di inquadrare la vicenda in nuovi termini: la centralità della corte e del circuito di risorse che era in grado di redistribuire e le forme di parentela aristocratica. Per quanto concerne il primo punto, Tomei ha rilevato come i da Bariano/da Maleo trassero la propria fortuna da un accostamento graduale alla corte di Pavia, imparentandosi con una famiglia di giudici del sacro palazzo, entrando nella rete vassallatica del vescovo – anch’egli estremamente vicino alla corte – sino ad arrivare al cuore del potere regio. L’ascesa sociale della famiglia può essere quindi letta non nell’ottica di una contrapposizione con un potere pubblico “evanescente”, ma anzi come conseguenza dell’avvicinamento alla corte, poiché solo tale prossimità permise di entrare nel processo di redistribuzione e, dunque, di arrotondare i propri patrimoni. In questo senso, la famiglia non deve essere tuttavia considerata “feudale”: il rapporto di fidelitas nei confronti di Ottone III non ha, infatti, tale coloritura e mai si incontra il termine “feudo” nel dossier documentario studiato. Il processo di arrotondamento non pare dunque in contrasto con il potere pubblico; il potere regio, infatti, non si limitò ad assecondare le pretese delle aristocrazie, ma usò il sistema redistributivo per controllarle: più queste si avvicinavano al cuore del regno, più si avvantaggiavano, ma, al contempo, si rendevano controllabili. Il secondo aspetto che Tomei ha messo in luce riguarda il peso determinante della linea femminile, poiché vi si possono sovente scorgere i passaggi nodali dell’ascesa sociale dei da Bariano/da Maleo; non tenerne conto significherebbe, in effetti, non comprendere appieno le strategie adottate. Tomei ha presentato una precisa cronologia: se l’ascesa si identifica con il pieno secolo X e con l’inizio di quello successivo, ovvero durante il culmine dello sviluppo del sistema di redistribuzione, la crisi si stabilisce nel primo quarto del secolo XI, in concomitanza con le guerre civili e con la crisi endogena del sistema, causata dal numero troppo elevato di nuclei aristocratici che vi presero parte. Il crollo di tale sistema fu “involontario”, giacché ne traevano vantaggio sia il potere regio sia le aristocrazie. Contestualmente calò anche l’importanza della linea femminile, poiché si ebbe la necessità di controllare maggiormente la discendenza e l’unità del patrimonio familiare. Con la caduta di questo sistema i da Bariano/da Maleo dovettero appoggiarsi sempre più al vescovo locale, Olderico, al quale finì la totalità dei beni incamerati nel corso del tempo. In conclusione, durante il seminario si è rilevato come la storia della famiglia debba essere confrontata con altri dossier per verificare se quello dei da Bariano/da Maleo possa essere ritenuto un caso esemplare e rappresentativo della parabola di altre parentele di simile livello.
Igor Santos Salazar, Governare la Lombardia carolingia (774-92), Milano 10 marzo 2022, cronaca di Matteo Furiga. Nel corso del seminario, Igor Santos Salazar, ricercatore presso l’Università degli Studi di Padova, ha presentato i risultati delle proprie ricerche che recentemente sono confluite nel volume monografico Governare la Lombardia carolingia (774-924), pubblicato da Viella nel 2021. Non si è trattata di una presentazione in sé del volume, ma l’incontro ha permesso all’autore di esplicitare alcuni dei “problemi” relativi alla documentazione lombarda, emersi nel corso della ricerca. In primo luogo, l’autore ha sottolineato come, osservando il corpus documentario lombardo, si possa notare come l’azione franca sui beni fiscali regi, in precedenza in mano ai sovrani longobardi, sia iniziata fin dai primi mesi successivi alla conquista del regno da parte di Carlo Magno, nel corso del 774. La Lombardia, al centro della ricerca di Salazar, non corrisponde alla più ampia Longobardia dell’accezione medievale, e non rispecchia nemmeno i confini attuali della regione, comprendendo aree ad essi esterne: il novarese ad ovest, parte del comitato di Piacenza a sud-est e alcune aree circostanti al Lago di Garda, facenti parte del comitato veronese. Questa Lombardia è intesa come un Königlandshaft, un territorio saldamente controllato dai re carolingi, attraverso i propri ufficiali. Concentrandosi sul corpus documentario di una Lombardia così definita, che, se considerato complessivamente, rappresenta per estensione il terzo corpus giuntoci per quanto riguarda il regno (dopo quelli di Lucca e Piacenza), Salazar ha sottolineato l’importanza delle modalità con cui esso sia arrivato fino a noi. Se ci si sofferma su questi documenti, si rende evidente come molta di questa documentazione sia pervenuta per vie tortuose, indirette, all’interno di raccolte redatte in epoche successive. La gestione della documentazione, infatti, per tutta l’età medievale era, prevalentemente, nelle mani dei grandi archivi ecclesiastici. All’interno di questi archivi, le autorità ecclesiastiche (vescovadi e monasteri) mettevano in atto un’accurata selezione della documentazione da conservare, eliminando progressivamente tutti quei documenti che risultavano superflui in relazione ai propri interessi. Santos Salazar ha, dunque, sottolineato come, più del “fuoco”, delle guerre e dell’incuria, sia stata proprio questa selezione a portare alla perdita di una parte consistente della documentazione per il periodo preso in analisi. Tale lacuna è oltremodo evidente per quanto riguarda il primo periodo della dominazione franca (774-818). Infatti, per questo arco cronologico, che va dalla conquista del regno all’accecamento di Bernardo da parte dello zio Ludovico il Pio, ci sono giunti pochissimi documenti, e, spesso, solamente dei riferimenti testuali a questi ultimi all’interno di documentazione posteriore. Soffermandosi, in seguito, sulle modalità di gestione dei beni del fisco regio in Lombardia, Santos Salazar ha evidenziato il particolare approccio, da parte dei sovrani carolingi, agli stessi. I beni fiscali in questione sono “fluidi”, ovvero sono continuamente ceduti tramite diplomi dalle autorità pubbliche a soggetti giuridici terzi (fideles, vescovadi e abbazie), per poi essere re-incamerati dal fisco e in seguito essere rimessi in circolo, tramite nuove donazioni. Proprio sulla scorta di queste modalità di gestione, Salazar ha sottolineato il fatto che anche lo stesso Berengario I (888-924), marchese del Friuli salito al trono italico in seguito alla deposizione di Carlo III detto il Grosso (879-887), gestì questi beni fiscali usando modalità pienamente “carolinge”. Ciò è di particolare interesse poiché la deposizione di Carlo III, ultimo discendente per linea maschile e in età adulta di Carlo Magno, è stata solitamente interpretata dalla storiografia come il punto di cesura fra l’età carolingia e la successiva età post-carolingia. Se in passato le numerose cessioni, tramite diplomi, di proprietà del fisco regio a soggetti terzi da parte di Berengario furono interpretate come indizi di un potere regio particolarmente debole, a partire dagli studi di Barbara Rosenwein negli anni ‘90 questa prospettiva è stata progressivamente ribaltata. La cessione di questi beni da parte del re a fideles via via sempre nuovi e i successivi re-incameramenti, sono lo spettro di una politica regia volta a garantire il supporto delle élites nei confronti del potere centrale e a rappresentare il re come unica fonte legittima, per l’aristocrazia, di questi benefici. L’autore, in chiusura, ha esplicitato che, in relazione a questo aspetto, l’888 perde di rilievo come data spartiacque per quanto riguarda il Regnum Italiae; a questa data dovrebbe essere preferito il 924, anno della morte di Berengario, ma, soprattutto, anno che segna un progressivo “ricambio generazionale” dei più alti funzionari (laici ed ecclesiastici) del regno.
Matteo Ferrari, L’iconografia politica comunale: problemi, fonti, metodi, Milano 14 aprile 2022, cronaca di Ilaria Longhin. Il tema del seminario, l’iconografia politica, si trova alla frontiera fra storia e storia dell’arte. Proprio in virtù del taglio interdisciplinare, obiettivo del relatore è stato quello di mostrare alcuni esempi in cui una fonte iconografica è stata studiata andando al di là dell’analisi esclusivamente formale e tenendo in considerazione anche il contesto storico, con un approccio che permette di tenere insieme più elementi e, quindi, di donare una visione più completa sulla fonte stessa. Dal punto di vista disciplinare, è difficile collocare gli studi sull’iconografia politica. A lungo, infatti, essa è stata oggetto di studi da parte degli storici del pensiero politico e dei filologi, ma non degli storici dell’arte. Ciò è ben evidente nei dibattiti scatenatisi attorno agli anni Ottanta, per esempio a seguito degli studi dello storico dell’arte anglosassone Gordon Moran riguardo all’affresco senese Guidoriccio all’assedio di Montemassi, che ben sintetizza le difficoltà di approccio critico allo studio delle raffigurazioni iconografiche adottate. Anche gli studi consacrati da una storica dell’arte come Maria Laura Gavazzoli Tomea alle pitture dei broletti di Novara e di Milano (1979 e 1980) lamentavano del resto l’assenza di uno studio sistematico che analizzasse i messaggi simbolici sottesi alle pitture dei palazzi italiani, e che approcciassero queste ultime attraverso un’analisi non solo formale, ma estesa anche alla committenza e al contesto storico-istituzionale, avvalendosi, quindi, di strumenti propri della ricerca storica. Oggi, gli storici dell’arte che si occupano di temi iconografici legati all’arte civica tendono ad accostarsi ad essa in modo originale, mirando a ricostruire i contesti di produzione e fruizione delle opere e interrogandosi sul messaggio che esse vogliono trasmettere, senza limitarsi ad analizzare il mero dato formale. In altre parole, si tratta di utilizzare l’immagine come una fonte, così come farebbe uno storico. In conseguenza dell’adozione di questo nuovo approccio, si pongono diversi problemi, fra cui quello della collocazione della frontiera fra storia e storia dell’arte e quello della legittimità di studiare le immagini prescindendo dal loro valore come fonte. Su questi temi le opinioni degli studiosi divergono, ma una sintesi ci viene offerta da Maria Monica Donato: il ruolo dello storico dell’arte, al di là dell’analisi stilistica, può essere quello di costituire delle tradizioni, ossia inserire le opere all’interno di generi iconografici, evitando il rischio di leggere le pitture come se fossero la trasposizione materiale di testi, tramite l’utilizzo della documentazione scritta come strumento di analisi. È possibile osservare un esempio concreto di quanto spiegato fin qui attraverso l’analisi di alcuni casi concreti. In primo luogo, Matteo Ferrari si è soffermato su una raffigurazione presente in un’aula del Palazzo della Ragione di Mantova, che ospitava i consigli e i tribunali del Comune. Si tratta del frammento di una rappresentazione di San Giacomo, che si sovrappone ai dipinti realizzati in precedenza, databili intorno al 1250. I caratteri formali della pittura ci permettono di datare con maggiore esattezza questo frammento al periodo a cavallo fra Tre e Quattrocento; tuttavia, un’analisi che consideri anche i complementi verbali presenti nell’immagine e i testi che ne parlano permette di inserire tale opera all’interno di una tradizione ben precisa. In questo caso, possiamo collegare la raffigurazione del Santo alla norma statutaria del 1313 secondo la quale per rendere riconoscibili i banchi dei giudici ai cittadini andava rappresentata, al di sopra di questi, l’immagine del santo del quartiere sul quale essi avevano competenza. Si trattava, in realtà, di un uso già attivo nella città e diffuso anche in altri Comuni dell’Italia centro-settentrionale. A Como, per esempio, i seggi dei consoli di giustizia erano dotati di pannelli raffiguranti animali. Grazie all’uso, frequente negli atti comunali, di nominare i giudici facendo riferimento alla loro insegna, è addirittura possibile creare una mappa che mostra la diffusione di questa pratica, a prescindere dalle raffigurazioni delle insegne stesse, di cui sono rimasti solo pochi frammenti. Un secondo esempio dell’importanza di un approccio pluridisciplinare allo studio della comunicazione visiva dei comuni lombardi ci viene offerto da un dipinto presente nel broletto di Brescia (attualmente situato nel sottotetto dell’edificio). Esso raffigura un gruppo di persone, fra le quali, nella parte centrale, un diacono, un notaio e un uomo inginocchiato che sembra prestare giuramento allungando la mano verso una mensa su cui si trovano alcune suppellettili sacre, e, dalla parte opposta, un vescovo. Già nel Settecento questo dipinto era stato interpretato come una rappresentazione della pacificazione delle fazioni cittadine tenutasi nel 1298: il vescovo sarebbe quindi Berardo Maggi, mediatore in tale contesa, e l’uomo inginocchiato un membro della società di Popolo che aveva rappresentato il Comune nelle trattative per la pacificazione. Successivamente, grazie a lavori di restauro è venuta alla luce anche la parte inferiore della pittura. Qui si trova un’iscrizione, cioè la trascrizione del giuramento che i cittadini bresciani avrebbero pronunciato durante la pacificazione, il quale conteneva anche la dichiarazione di fedeltà nei confronti di Berardo Maggi, che al momento della pacificazione reggeva la città. Questo ha portato a datare il dipinto tra 1298 e 1311 (in corrispondenza della fine della signoria dei Maggi). Alcuni studiosi hanno proposto come datazione, in particolare, l’arco cronologico che va dal 1306 al 1308, ossia durante il periodo del secondo mandato della signoria di Berardo Maggi. Da questo punto di vista, la rappresentazione pittorica si inserirebbe all’interno del tentativo del vescovo di consolidare il proprio potere, ribadendo il giuramento del 1298: per quanto riguarda l’uomo inginocchiato, si tratterebbe in tal caso di Tebaldo Brusati, fautore nel 1298 della pacificazione, ma successivamente, nel 1303, cacciato dalla città proprio dai Maggi, insieme ad altre famiglie avversarie. Ci sono, però, alcuni elementi che contrastano con questa interpretazione: il modo in cui la scena è rappresentata, per esempio, suggerisce che il dipinto risalga ad un momento in cui la città era effettivamente pacificata e in cui il ruolo del vescovo non era messo in discussione, ossia prima del 1303. Oltre a ciò, non si avrebbe avuto motivo di accompagnare la raffigurazione con l’iscrizione del giuramento, che ormai, in un clima di rinnovate tensioni politiche, aveva perso la propria attualità. Sappiamo infine da altri casi simili, come quelli di Bologna o Tarquinia, che dipinti di questo tipo venivano realizzati a breve distanza dall’evento che rappresentavano. Il dipinto del broletto di Brescia si inserisce, quindi, all’interno di una tradizione documentata, ossia quella della consequenzialità fra un provvedimento e la sua rappresentazione nello spazio pubblico. Concludendo, questi esempi hanno mostrato come un approccio che sia solo formale o, d’altro canto, solo documentario non sia in grado di fornire tante informazioni quante ne offre un’analisi che coinvolga entrambe le discipline: soltanto sfumando i confini tra storia e storia dell’arte e aprendosi a un approccio di indagine pienamente pluridisciplinare è possibile cogliere le diverse valenze delle opere d’arte, che non sono solo estetiche, ma anche sociali, culturali e politiche.
Jacopo Paganelli, “Che non facciate mai più contra el capo vostro”. Alcune riflessioni sulla lettera di S. Caterina da Siena a Bernabò Visconti (estate 1375), Milano, 5 maggio 2022, cronaca di Ilaria Longhin. Secondo l’impostazione data al seminario, studiare la lettera che Caterina indirizzò a Bernabò Visconti nel 1375 significa affrontare non solo il tema del rapporto fra la santa e il Signore di Milano, ma anche quelli dell’influenza politica esercitata da Caterina in quegli anni e delle strategie diplomatiche di Bernabò. L’accostamento fra questi due personaggi, la prima una santa, il secondo considerato quasi il “cattivo” per eccellenza del Trecento italiano, potrebbe sorprendere; in realtà, esso è giustificato dal fatto che entrambi hanno agito in modo significativo nello scenario politico italiano, imponendosi come figure fondamentali del loro tempo. L’importanza politica di Caterina era cresciuta notevolmente nel 1374, anno in cui era stata convocata a Firenze, presso il Capitolo generale dell’Ordine dei Frati predicatori, con lo scopo di fugare alcuni dubbi circolanti sul suo conto. Qui, Caterina ebbe modo da un lato di allacciare rapporti con diverse figure significative della parte guelfa, dall’altra di essere riconosciuta come voce carismatica della Chiesa. È da quell’anno che l’azione politica di Caterina si fece più concreta; in particolare, il suo programma verteva su tre punti, ossia il ritorno del papato a Roma, la pacificazione politica italiana e l’allestimento di una crociata per la riconquista dei luoghi santi. Per perseguire questi obiettivi si serviva sia delle lettere, sia della rete di relazioni che andava costruendosi intorno a lei. La politica toscana dei Visconti è stata studiata soprattutto per l’operato svolto da Gian Galeazzo. In realtà, le sue linee di intervento sono quelle già esperite in precedenza da Bernabò; tuttavia, la frammentazione degli studi toscani ha fatto sì che Bernabò fosse ridotto a mero alleato di Firenze. È necessario, al contrario, interpretare gli scenari toscano e lombardo intersecandoli in maniera complementare, poiché la sua azione si è svolta anche oltre l’Appennino. In particolare, la strategia di Bernabò era quella di fare leva su coloro che, nelle città toscane, stavano cercando di insignorirsi, sostenendone l’azione al fine di ottenere in cambio un allargamento della sua area di influenza. È quello che accade, per esempio, nel caso del trattato di alleanza del 1370 fra Bernabò e Giovanni dell’Agnello, ex doge di Pisa, che sperava di riprendere il potere in città e di essere reintegrato anche nel dominio di Lucca, persi a seguito della discesa in Italia di Carlo IV. Il contesto in cui si collocano le due lettere inviate da Caterina ai coniugi Bernabò Visconti e Regina della Scala nel 1375 è quello della guerra dei Visconti contro Niccolò d’Este, iniziata per la città di Reggio nel 1371 e che portò alla scomunica di Bernabò e alla costituzione di una lega antiviscontea voluta da papa Gregorio XI. Negli anni seguenti, visto il prolungamento dei tempi del conflitto, ci furono diversi tentativi di mediazione con Gregorio XI, tutti senza successo. È probabilmente a questo punto che bisogna collocare l’intenzione di Bernabò di avvicinarsi a Caterina (diversi seguaci della quale avevano rapporti con la curia avignonese), con lo scopo di rilanciare la propria reputazione e arrivare a una trattativa con il papa grazie al suo intervento. È possibile che Regina si sia per prima accostata alla religiosità domenicana, avvertendo il carisma di Caterina, e che quindi Bernabò abbia avuto l’idea di contattarla, forse anche a causa della presenza a Milano, in quegli anni, del letterato Domenico di Montacchiello, proveniente da Siena. Sarebbero stati, quindi, i cattivi rapporti di Bernabò con la curia avignonese a spingere lui, e non Galeazzo, a prendere contatti con Caterina; il fratello, infatti, aveva già rapporti con la sede apostolica, e dunque non avrebbe avuto bisogno della mediazione della donna. Lo storico Thomas Luongo ha suggerito di datare questa lettera all’estate del 1375, quindi successivamente alla tregua di Bologna fra i Visconti e il delegato della Sede apostolica, avvenuta nel giugno di quell’anno. Paganelli ritiene, al contrario, che essa vada collocata prima, poiché Caterina, nella lettera, utilizza il futuro ottativo, cosa che fa intuire che non si fosse ancora giunti a una pacificazione. È certo, comunque, che nella prima metà del 1375 un’ambasciata viscontea si sia recata a Siena: in quest’occasione Bernabò poté certamente recapitare il messaggio, suo e di Regina, a Caterina. A loro, Caterina rispose separatamente. La lettera a Bernabò insiste sul tema della giustizia e sul fatto che la vera signoria è quella sulla propria anima, ed esorta il destinatario a sottomettersi al papa; a Regina, invece, parla della fugacità dei beni terreni, e chiede di spingere il marito sulla via dell’umiltà e dell’obbedienza. Per quanto incerti siano i dati riguardo alla cronologia della lettera e, quindi, al suo sottotesto, sappiamo però che la mediazione di Caterina e dei suoi devoti funzionò: nel giugno 1375, infatti, una tregua fu raggiunta, con condizioni non sfavorevoli ai Visconti. Dallo studio di questa lettera emergono quindi diverse questioni, fra cui l’azione congiunta della coppia, che si presenta unita, le relazioni fra i seguaci di Caterina e la curia avignonese, nonché l’astuzia della politica di Bernabò.
Maddalena Betti, Nuovi approcci allo studio del Liber pontificalis. Il caso studio della vita di papa Sergio II (844-847), Milano 27 maggio 2022, cronaca di Ilaria Longhin. Il seminario è stato suddiviso in due parti. Nella prima, sono stati presentati la struttura e il contenuto del Liber pontificalis, oltre che l’utilizzo che ne è stato fatto nel tempo e le sue diverse redazioni medievali e edizioni moderne; nella seconda, ci si è focalizzati in particolare sulla figura di Sergio II e sulle sue peculiarità, che rendono interessante la sua biografia come caso studio. Il Liber pontificalis è una collezione di biografie papali, da Pietro a Stefano V (885-891), una raccolta fondamentale di informazioni su nove secoli di storia della città di Roma e del papato. Tramandato a stampa sin dal Seicento, esso è stato studiato secondo precisi criteri filologici da Duchesne, in un’edizione che ancora oggi rappresenta quella più valida. Il Liber viene talvolta utilizzato dagli storici estrapolandone singole parti, senza la contestualizzazione che sarebbe necessaria per lo studio di una fonte così complessa: si tratta, infatti, di un “living text”, ossia una fonte stratificata, che nei secoli ha subito diversi processi di revisione ed interpolazioni. Oltre a ciò, esiste in numerose copie, diverse in base al contesto in cui venivano prodotte e distribuite, e contiene informazioni non riportate da altre fonti. Dalla complessità del documento deriva l’importanza di non trascurare lo studio del testo, dalle ipotesi della sua struttura alle modalità di redazione. Il primo nucleo del Liber pontificalis raccoglie le biografie dei papi dalle origini fino al VI secolo. Il momento della redazione, il VI secolo appunto, non è casuale: da un lato era in corso lo scisma laurenziano, e quindi la compilazione della raccolta era funzionale a giustificare l’elezione di Simmaco o di Lorenzo, dall’altro il papato stava vivendo una fase di passaggio significativa e si sentiva l’esigenza di definire precisamente il ruolo del papato e di Roma come centro della cristianità indipendente dall’Impero. Le vite dei papi successivi al VI secolo vengono aggiunte al nucleo originario, fornendo una quantità di informazioni modesta per i papi del VII secolo e abbondante per quelli dell’VIII e del IX, fino a Stefano V, con il quale cessa l’aggiornamento del Liber. Le vite dei papi dell’VIII e del IX secolo venivano probabilmente scritte subito dopo la loro morte da un collettivo di autori anonimi che lavorava all’interno del palazzo lateranense, con finalità di utilizzo sia interno, forse anche per la formazione dei giovani chierici, sia esterno, per diffondere informazioni ufficiali e promuovere così una specifica rappresentazione del papato. Tutte le biografie sono accomunate da uno schema caratterizzato da alcuni elementi fissi individuati da Duchesne, fra cui, oltre ai punti di riferimento cronologici e topici, l’elenco delle fondazioni e degli abbellimenti nelle chiese romane e le disposizioni in materia liturgica. In questa struttura è possibile riscontrare delle analogie con le biografie degli imperatori, come quelle raccolte da Svetonio nella Historia augusta del IV secolo. Se così fosse, non si tratterebbe della scelta di un modello soltanto formale, ma di un atto profondamente ideologico, teso ad affermare la successione dei papi rispetto agli imperatori romani. L’età carolingia è il periodo di maggiore fortuna del Liber pontificalis: in questa fase, infatti, vengono prodotti ben sei manoscritti che contengono solo il Liber, tre in area franca e tre in area longobarda, ma si trovano anche singole vite in cinque codici miscellanei con valore giuridico-liturgico. Inoltre, si trovano citazioni dell’opera in Paolo Diacono, in Rabano Mauro e in Valfrido Strabone, oltre che nelle decretali pseudo-isidoriane. Questa abbondante circolazione è resa possibile dall’apertura di un canale di diffusione ufficiale con l’Impero, nato naturalmente con l’alleanza franco-papale, il quale fa sì che una copia del Liber sia presente in tutte le principali biblioteche carolinge. La diffusione di versioni epitomizzate mostra, invece, l’esistenza di un interesse verso alcune questioni particolari trattate nell’opera, ad esempio per l’aspetto liturgico. La doppia redazione, franca e longobarda, pone dei problemi per le vite di alcuni papi dell’VIII secolo, ossia Gregorio III, Zaccaria, Stefano II e Paolo. Essi vengono infatti rappresentati in modo diverso a seconda dell’area di produzione: in particolare, nella redazione franca, ossia nei manoscritti detti di classe B (si tratta di manoscritti franchi con interpolazioni franche) si mette in luce il disprezzo di questi pontefici nei confronti dei sovrani longobardi, elemento invece assente nella versione longobarda, mentre si valorizza il loro rapporto con i Franchi. Questo caso pone diverse questioni, fra cui quelle degli autori e del luogo di produzione dei manoscritti di classe B; in merito esistono due scuole di pensiero: alcuni ritengono che almeno una parte delle interpolazioni sia stata prodotta in area franca, altri che tutte le note siano state scritte e inglobate già a Roma. Anche la vita di Sergio II (844-847), unico caso per i pontefici del IX secolo, esiste in due redazioni, la seconda delle quali sarebbe il più antico codice romano in onciale conosciuto. Questo, però, non è il solo motivo per cui lo studio di questa biografia è particolarmente interessante: in questo testo, infatti, vengono presentati per la prima volta degli eventi relativi ai rapporti fra la sede apostolica e gli eredi di Carlo Magno, mentre in precedenza si era preferito evitare di fissare la memoria di fatti che sarebbero potuti in futuro divenire controversi. Nella prima edizione viene raccontato di una “spedizione” a Roma compiuta da Ludovico II e da Drogone, vescovo di Metz, con lo scopo di organizzare un sinodo che giudicasse la validità dell’elezione di Sergio II, che era stata, infatti, piuttosto contestata. Sembra, quindi, che sia stato proprio Sergio, cogliendo l’occasione di ribadire l’idea del primato papale, a voler fissare il ricordo di questo evento, perché ne venisse tramandata la versione dal punto di vista papale. La seconda edizione, detta Farnesina, partendo dal testo della prima, prosegue denunciando il malgoverno di Sergio e riportando un resoconto dell’invasione saracena delle coste laziali del IX secolo. Da questo testo emerge in modo evidente il cambiamento del punto di vista romano sul pontificato di Sergio a seguito dell’elezione del suo successore, Leone IV, avvenuta l’anno successivo al sacco di Roma; è probabile, infatti, che l’assalto saraceno abbia messo in crisi l’autorità di Sergio, accusato di non essere stato in grado di difendere la città. A questo attacco si aggiunge quello relativo al fratello di Sergio, Benedetto, descritto come simoniaco e violento, cui l’imperatore, secondo quanto riportato nella redazione farnesiana, aveva concesso il primato su Roma (secondo Duchesne, si tratterebbe semplicemente dell’incarico di misso imperiale). Qui, Sergio è rappresentato come debole di carattere, completamente sottomesso a Benedetto, il quale ne sperperava le ricchezze e, di fatto, governava la città. Questa seconda redazione, quindi, vuole non solo denunciare il malgoverno di Sergio e Benedetto, ma anche dichiarare lo scontento romano per l’intervento imperiale a Roma, incolpando il suo misso, Benedetto, di essere responsabile della rovina romana, culminata nel sacco saraceno.