Negli ultimi anni vi è stata una “domanda di storia” sempre più crescente da parte dell’opinione pubblica. In parallelo sono però aumentati anche i casi di interpretazioni approssimative di alcuni avvenimenti, assieme a veri e propri falsi storici, trovando nell’iperconnessione che contraddistingue la società contemporanea terreno fertile per una loro ampia diffusione e consolidamento. Proprio per contrastare tale fenomeno la collana “l’antidoto”, edita da Viella, si propone, attraverso i suoi volumi, di decostruire e confutare interpretazioni e narrazioni prive di credibilità scientifica, ma che ormai fanno parte dell’immaginario pubblico e storiografico. Il libro di Michele Sarfatti qui preso in considerazione nasce, dunque, con una finalità programmatica già ben definita da questa collana in cui è inserito. Data la sua profonda conoscenza della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel XX secolo, l’autore è chiamato ad intervenire su tale tematica. Nello specifico di questo saggio, Sarfatti rivolge la sua attenzione a otto situazioni differenti riguardanti l’antisemitismo in Italia durante il ventennio fascista, partendo dall’introduzione dell’antisemitismo di Stato, passando per il periodo della persecuzione dei diritti degli ebrei e toccando infine il momento della persecuzione delle vite. Tre fasi che Sarfatti riepiloga brevemente nell’introduzione, sottolineando i tornanti storici più significativi. L’oggetto principale di ogni focus è perlopiù rappresentato da asserzioni di storici rivelatesi erronee, ma viene anche toccato l’ambito dell’informazione enciclopedica on-line e quello dell’assegnazione di onorificenze nazionali. Questi «inciampi alla comprensione» e «deragliamenti nella ricostruzione», come vengono definiti dallo studioso stesso, hanno una caratteristica comune: la tendenza a minimizzare il fenomeno dell’antisemitismo durante il Ventennio, mostrando le difficoltà della società italiana, ancora oggi presenti, ad accettare quel passato. Inoltre, l’intento dello studioso è altresì quello di riflettere non solo sul contenuto, ma anche sulla genesi e sul percorso di quegli errori, e quindi sul metodo storiografico stesso. Questo risulterà meglio evidente tramite una sintetica esposizione degli otto casi di studio trattati nel volume.
Come ricordato in Il fulmine espiatorio, nel 1952 Giovanni Mira e Luigi Salvatorelli, pubblicando una delle prime ricostruzioni storiche del fascismo, definiscono l’introduzione dell’antisemitismo come un colpo di fulmine. Una similitudine ripresa nel 1961 da Renzo De Felice nel primo studio storico dedicato agli ebrei nel periodo fascista. La ricerca di Sarfatti mostra però come non vi siano memoriali e testimonianze edite dei perseguitati che facciano riferimento a tale immagine, se non posteriori agli anni Settanta. L’affermazione dei tre storici è quindi più un giudizio storiografico che una sintesi di fonti testimoniali. In secondo luogo, la ricostruzione storica scaturita dall’immagine delle leggi razziali come fulmine non è condivisibile. Vi sono, infatti, diverse fonti di ebrei in Italia, come lettere e riviste, che già prima del 1938 attestano il timore di una svolta antisemita e persecutoria dell’Italia fascista.
Nell’edizione del 15 luglio 1938 de “Il giornale d’Italia”, viene pubblicato un decalogo ideologico-scientifico sul razzismo senza un titolo formale. Nel 1961 De Felice lo definirà “manifesto degli scienziati razzisti” attenuando così, come sottolinea Sarfatti, sia la responsabilità di Mussolini sia la sua importanza all’interno della storia del fascismo e dell’Italia. I firmatari del decalogo sono dieci e su di essi non vi sono dubbi. Senonché, nel 1995, all’interno di un opuscolo diffuso in occasione di una mostra allestita a Pavia, appare un Primo censimento di razzisti elencante 330 nominativi, da cui il titolo del secondo saggio La moltiplicazione delle firme. Un supplemento al settimanale “Avvenimenti” riprende quell’elenco e qualifica i 330 come aderenti al manifesto. In seguito, tale elenco si diffonde rapidamente, finendo nello spazio web e dallo spazio web nel 2005 ritorna su carta stampata, all’interno di un libro di Franco Cuomo, ricevendo così una definitiva legittimità. Sarfatti evidenzia come tale falsità influisca notevolmente sulla ricostruzione storica del fenomeno poiché implicitamente sembra contrapporre alla stragrande maggioranza degli italiani solo 330 razzisti.
Partendo da un passo de La Storia di Elsa Morante, nel successivo contributo intitolato Il censimento di Nora,lo storico mostra la reticenza esistente fra gli intellettuali italiani a metà anni Settanta nell’affrontare un momento drammatico come quello dell’identificazione degli ebrei destinati ad essere perseguitati dalle leggi razziali, prima con la normativa antiebraica del 1938 e poi con quella del 1943.
La Dichiarazione sulla razza del 6 ottobre 1938 permette ad alcuni ebrei, in base a specifici criteri, di essere quasi totalmente esenti dalle norme discriminatorie. Il Regio decreto del 17 novembre 1938 Provvedimenti per la difesa della razza italiana difatti rende quell’esenzione di minima consistenza. De Felice, nel suo libro sulla storia degli ebrei, riprende entrambi i testi ma non fa alcun cenno allo stravolgimento che avviene nel passaggio fra i due. Questa disattenzione ha generato successivamente incomprensioni e giudizi storici inesatti, continuando a circolare nel mondo degli studi per un lungo periodo, come mostra Sarfatti in Il discrimine delle discriminazioni. Sebbene nell’ultimo decennio questa tematica sia arrivata ad avere una narrazione adeguata, la vecchia ricostruzione è tuttora presente.
Nel capitolo Sulla storia del proprio antisemitismo e razzismo, Sarfatti analizza gli scritti giovanili, in particolare articoli di giornale, di Enzo Santarelli, Giorgio Bocca e Gabriele De Rosa in cui i tre prendono posizioni nettamente antisemite. Ciascuno di loro poi parteciperà in modalità diverse alla lotta di Liberazione. Lo studioso sottolinea come negli anni Novanta tutti e tre critichino il loro passato, ma solo con una finalità autoassolutoria. Non vi è alcun tentativo di indagine approfondita di quel particolare momento storico e dell’impegno richiesto a giovani come loro nel diffondere il pensiero antisemita.
La prima retata antiebraica nell’Italia appena occupata dai nazisti sarebbe dovuta avvenire a Napoli, come dimostra un documento tedesco desecretato nel 2000. Questa informazione già basterebbe per rispondere al quesito iniziale Tutte le deportazioni partono da Roma? Al contempo un altro resoconto tedesco attesta che i rastrellamenti sarebbero dovuti avvenire con azioni fulminee e non reiterate in una stessa città. Nei volumi del 1975, Actes et documents du Saint Siège relatifs à la seconde guerre mondiale, si attestano le dure reazioni vaticane alla retata avvenuta a Roma il 16 ottobre 1943, finendo quasi per accreditare un ruolo di rilievo alla Santa Sede nel rilascio di diversi ebrei e nella sospensione degli arresti. Sarfatti evidenzia come ciò, pur non corrispondendo al vero, abbia influito su studiosi successivi.
Subito dalla fine della Seconda guerra mondiale, gli studiosi stranieri, a partire da León Poliakov, hanno molto influenzato la ricostruzione storica della persecuzione antiebraica in Italia, mostrando, almeno fino agli anni Ottanta, uno sguardo minimizzante o assolutore rispetto alle azioni dell’Italia e degli italiani nei confronti degli ebrei. Una visione funzionale ad enfatizzare, per contrapposizione, le colpe della Germania nazista. Il saggio Le brume del Nord e gli arresti del Sud approfondisce dunque il percorso storico di tale comparazione mistificante. Perché vi sia un forte intervento in senso opposto nel dibattito storiografico internazionale, bisogna attendere un articolo del 1986 della studiosa Liliana Picciotto, in cui emergevano tutte le responsabilità della politica antiebraica adottata dalla RSI dal novembre 1943.
Nell’ultimo contributo, Il merito della storia, Sarfatti compie una disamina di alcune onorificenze al merito civile attribuite a Comuni o singoli individui all’inizio degli anni Duemila. Nelle motivazioni compaiono discutibili scelte lessicali, dati erronei e in alcuni casi non vi sarebbe addirittura alcun riscontro della loro veridicità a livello storiografico, come per il famoso caso di Gino Bartali.
In conclusione, si può affermare che questo saggio sviluppi e porti a compimento in maniera efficace il proposito divulgativo iniziale. La voluta sinteticità e lo stile diretto e incisivo contribuiscono a sviluppare tale intento. Sarfatti riesce dunque a delineare una panoramica di aspetti controversi restituendone al lettore non solo un giudizio più appropriato, ma anche fornendo una significativa riflessione sull’importanza del metodo storico, strumento quantomai necessario per cogliere la complessità dei fenomeni presi in esame.
Toniutto Michele