Seppur in Italia la legge per il diritto divorzio venne approvata nel 1970 (e confermata con il referendum del 1974), in Separazioni e divorzi nel lungo Ottocento torinese Andrea Borgione mostra con particolare attenzione come in realtà tale tematica fosse stata oggetto di discussione da molto tempo. Sin dai tempi dei padri della Chiesa l’indissolubilità del matrimonio fu infatti messa in dubbio, approvando e concedendo le separazioni per motivazioni più o meno ampie a seconda del periodo storico: se il Concilio di Trento del 1563 segnò infatti un punto di forte riduzione della pratica e un maggior controllo sulla vita coniugale, il XVIII secolo invece venne caratterizzato nuovamente, grazie anche alla diffusione degli ideali illuministi, da un graduale aumento delle separazioni e, in particolare, di quelle consensuali. È importante sottolineare però come separazioni e divorzi siano concetti completamente diversi, seppur spesso confusi: le prime, infatti, permettono l’allontanamento dei coniugi ma non la possibilità di risposarsi. Tale pratica portava di conseguenza a situazioni di concubinaggio dettate da motivazioni non solo sentimentali ma anche economiche (in particolare, le donne separate di ceti medi e bassi spesso non potevano permettersi una vita di solitudine vista la scarsità di lavori a loro dedicati fino ad almeno la fine del 1800 – da ciò ne conseguiva che la maggior parte delle volte il concubinaggio fosse una soluzione obbligata).
Secondo l’analisi di Borgione, però, il periodo di maggior fermento può essere riscontrato a partire dalla fine del 1700, quando l’arrivo delle truppe francesi e l’instaurazione fra il 1798 e il 1799 di un governo provvisorio in Piemonte portarono non solo a tumulti ma anche a grandi novità ispirate al modello francese, come il passaggio della gestione delle pratiche coniugali a enti laici, culminando nel 1803 con l’introduzione del Codice Civile che permise, per la prima volta, l’istituto del divorzio. L’avvento della Restaurazione a partire dal 1814 riaprì le porte alle pratiche del passato (vedesi la reintroduzione del tribunale ecclesiastico e l’abolizione del divorzio) nonché a un maggior controllo sulla vita dei coniugi piemontesi, volto non tanto a tutelare la morale del popolo quanto a controllare la vita pubblica nella sua interezza, in ottica di diminuire gli scandali e di conseguenza le possibili tensioni sociali. Le separazioni furono però oggetto, ancora una volta, di un andamento altalenante: con l’avvento dei moti risorgimentali e la diffusione degli ideali romantici tale pratica tornò ad aumentare, alla ricerca della felicità personale e di matrimoni d’amore, non più di convenienza, visti come la principale causa delle separazioni. Con maggior insistenza crebbero le richieste in termini di riforme sul matrimonio che portarono, seppur con difficoltà nell’iter di approvazione, alla promulgazione del matrimonio civile nel 1866 grazie al Codice Pisanelli. Ancora una volta, come sottolineato da Borgione, un periodo di maggior rigidità si prospettò per la popolazione piemontese nel periodo dell’Unificazione: la necessità di frenare le libertà e le idee rivoluzionarie da parte del partito monarchico-moderato peggiorarono una situazione già difficile dettata dalla crisi economica nata dallo spostamento della capitale da Torino a Firenze nel 1864. Un nuovo aumento delle separazioni avvenne tuttavia verso fine 1800 grazie all’incremento di lavori aperti alle donne (come, ad esempio, i ruoli di maestre, impiegate, operaie).
È importante però notare come, nella maggior parte dei casi, la separazione non fosse di facile ottenimento e, il più delle volte, consisteva in un vero e proprio stigma sociale che colpiva spesso la controparte femminile, in costante necessità di dover dimostrare la propria rispettabilità sessuale e morale per poter trovare un alloggio e un lavoro in una società che promuoveva (in particolar modo nel periodo Risorgimentale) ideali di libertà e di ricerca della felicità personale universalmente concepiti ma generalmente concessi solo alla controparte maschile. Inoltre, la necessità di giustificare il proprio status familiare tramite certificati ufficiali, come sottolineato da Borgione, non era che il riflesso di una società in crisi: infatti, se in passato era la comunità stessa ad avere il controllo sulla vite delle persone, ciò venne meno con l’aumentare delle migrazioni dalle campagne alle grandi città, il cui grande vantaggio era la possibilità di sfuggire alle logiche di un piccolo paese e godere quindi di un maggior anonimato. Borgione, tuttavia, mostra come talvolta fossero le donne stesse ad opporsi al concetto di divorzio e separazione, in particolar modo quelle provenienti dai ceti più bassi della società, poiché non solo influenzate dalla forte moralità della Chiesa (le cui opinioni erano di forte peso soprattutto fra i contadini) ma anche perché il matrimonio rappresentava una tutela in termini economici e soprattutto difendeva la loro identità sociale di madri e mogli. I dibattiti stessi sul divorzio, ripresi a fine Ottocento grazie a deputati come Morelli, Villa e Zanardelli, ebbero risultati fallimentari dovuti ancora una volta ad una visione fortemente legata alla Chiesa, anche se il risvolto fu allo stesso modo rappresentativo di come il governo dell’epoca fosse portavoce di un’esigua parte della popolazione.
L’ampio affresco delineato da Borgione mostra quindi il vero aspetto, tutt’altro che idilliaco, dei matrimoni del passato: una realtà senza dubbio più complessa e conflittuale di quanto ci venga proposto quotidianamente o che noi stessi siamo soliti immaginarci. Il volume inoltre, insignito del Premio per gli studi storici sul Piemonte nell’Ottocento e nel Novecento istituito dal Comitato di Torino dell’Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano e dall’Assessorato alla Cultura della Regione del Piemonte, si basa su un’ampia e attenta analisi di fonti giudiziarie, consistenti in particolare nelle carte conservate presso l’Archivio arcivescovile di Torino, l’Archivio storico della Città di Torino, l’Archivio di Stato di Torino e l’Archivio diaristico nazionale. L’uso di tali fonti ha permesso la ricostruzione di una situazione sociale complessa in un contesto, come quello ottocentesco, in continua trasformazione e fermento. Borgione stesso suggerisce infatti come il Piemonte, unico Stato ad aver mantenuto una costituzione in vigore e aver aperto le proprie porte agli esuli nel corso dei moti risorgimentali, sia un caso unico in Italia e sarebbe per questo interessante studiare le ripercussioni degli avvenimenti storici ed economici in città differenti come Roma o Venezia.
Da un punto di vista tematico, il saggio suggerisce diverse chiavi di lettura, alcune delle quali di forte interesse. Si pensi ad esempio come le classi aristocratiche vivessero le separazioni in modo completamente diverso dai ceti sociali più bassi: per figure come la contessa di Castiglione (1857) la separazione equivaleva spesso a un allontanamento dalla casa maritale ma mai una vera e propria separazione in termini economici visto il forte intreccio di titoli nobiliari e proprietà materiali. Per un membro dei ceti più bassi invece la separazione significava spesso difficoltà non indifferenti, come già accennato. Lo stesso trattamento subito in tribunale da un aristocratico dell’Ottocento era diverso da quello subito da un operaio: se per il primo una sola parola o frase sgarbata potevano rappresentare violenza e quindi giusta causa di separazione, per il secondo il tribunale vedeva la violenza come normale, qualcosa di insito in questo “segmento” sociale. Un’altra tematica certamente interessante può essere l’evoluzione dei diritti delle donne: il testo mostra come le modifiche e gli allentamenti alle separazioni, oltre al dibattito per l’introduzione del divorzio, non fossero apportati in ottica di migliorare la condizione femminile. Al contrario, come dimostrato dallo studioso stesso, esistevano numerose clausole giudiziarie a sfavore delle donne: basti pensare ad esempio alla doppia moralità sessuale o alla giustificazione della violenza fisica nei confronti delle mogli per diritto di “correzione” da parte del marito o per diritto di difesa del proprio onore. Infine, caso eclatante già citato, la visione maschilista degli ideali di libertà romantici, che auspicavano per le donne il ruolo di moglie perfetta e innamorata che si sacrifica e sopporta con pazienza e dignità la sorte e le decisioni del marito. Borgione ha pertanto portato alla luce un suggestivo spaccato della società, permettendo non solo al lettore di entrare a stretto contatto con i dubbi, le perplessità e le insicurezze di un’epoca ma di empatizzare anche con i protagonisti delle vicende presentate grazie alle numerose citazioni di cause di separazione realmente occorse, permettendoci di capire che la società e la vita coniugale stessa, ora come allora, non sono ascrivibili a un unico aspetto, ma sono anzi ricchi di variabili e sfaccettature.
Milena Vismara