Ben Jackson, The Case for Scottish Independence. A History of Nationalist Political Thought in Modern Scotland, Cambridge University Press, Cambridge, 2020.
Nel suo libro Ben Jackson, docente di Modern History all’Università di Oxford, analizza l’evoluzione ideologica del nazionalismo scozzese a partire dalla nascita delle prime formazioni nazionaliste sino al referendum per l’indipendenza del 2014. The Case For Scottish Independence è sicuramente uno strumento imprescindibile per chi intende studiare quest’argomento, in quanto offre una panoramica generale, fondamentale a chi si approccia per la prima volta al tema, e anche una serie di spunti per nuove ricerche. La monografia è composta da 5 capitoli tematici che hanno un loro ordine cronologico e si basa su un’amplia mole di fonti, principalmente, archivistiche, provenienti dalla National Library of Scotland, e a stampa, come libri e articoli sia di periodici sia di giornali.
Nonostante il testo sia maggiormente ricco di informazioni sui decenni che vanno dagli anni 60 agli anni 90, il primo capitolo permette di avere una sintetica, ma efficace, presentazione delle principali linee di pensiero della prima fase del nazionalismo scozzese. Secondo l’autore, infatti, l’obbiettivo dell’indipendenza della Scozia iniziò a prendere forma solo nel periodo tra le due guerre mondiali e il mezzo per perseguire questo scopo fu lo Scottish National Party fondato nel 1934. Per descrivere l’ideologia di questa prima fase sono analizzate le riflessioni di diverse personalità a partire dal poeta Hugh MacDiarmid, i cui scritti ispirarono molti nazionalisti, per arrivare a leader del partito come John MacCormick e Robert McIntyre.
Nel secondo capitolo, il focus si sposta sulle ragioni culturali del nazionalismo scozzese, che è un tema ricorrente nel volume, riguardo al quale si sono soffermati vari pensatori di diversi periodi, sebbene Jackson sottolinei fortemente come questo non sia mai un aspetto predominante a favore dell’indipendenza. Argomento centrale per l’autore è la questione dell’autonomia del sistema educativo scozzese nel pensiero del filosofo George Davie. In proposito, sono riportate anche le idee di personaggi come: Stephen Maxwell, Craig Beveridge e Ronald Turnbull.
Il terzo capitolo è dedicato principalmente al pensiero di Tom Nairn che iniziò a dedicarsi alla questione scozzese a seguito della prima vera affermazione elettorale del SNP che si ebbe solo nel 1967 con la “Hamilton by election” vinta da Winifred Ewing. Nel suo primo articolo sul tema, Nairn criticò aspramente l’SNP per il modo in cui concepiva il proprio nazionalismo, ciononostante considerava positiva la battaglia per l’indipendenza scozzese poiché essa sarebbe stata un duro colpo contro lo Stato inglese. Questo era, però, solo l’inizio di un complesso viaggio intellettuale che avrebbe portato Nairn a considerare sempre più positivamente il nazionalismo scozzese, al punto che, negli anni 70, gli aspetti nazionalisti del suo pensiero iniziarono a eclissare quelli socialisti. L’autore evidenzia esplicitamente come Nairn abbia progressivamente abbandonato Marx per adottare un repubblicanesimo nazionalista ispirato a Rousseau.
Il quarto capitolo è dedicato all’orientamento di sinistra del nazionalismo scozzese e inizia focalizzando l’attenzione sull’affermazione nel Regno Unito, nel secondo dopoguerra, del welfare state. Questa premessa è necessaria a introdurre il fatto che, secondo Jackson, si iniziò a concepire la Scozia come una “regione” che avrebbe dovuto ottenere aiuti dallo Stato finalizzati a sostenere la crescita economica, se così non fosse stato la richiesta per una maggiore autonomia avrebbe guadagnato molti consensi. In questo contesto, tra gli anni 60 e 70, il nazionalismo scozzese iniziò a presentarsi come un’ideologia moderatamente socialdemocratica mirante alla decentralizzazione. Durante gli anni 70, però, in Scozia circolavano anche idee più radicali, come quelle di Ray Burnett, il quale sosteneva come il socialismo britannico fino allora esistente non avesse riconosciuto il fatto che la società civile scozzese fosse molto differente da quella inglese e, pertanto, un socialismo scozzese per avere successo avrebbe dovuto fronteggiare le specificità del modo in cui il capitalismo era divenuto dominante in Scozia. La confluenza di idee nazionaliste e socialiste trovò il suo apice nel volume The red paper on Scotland, curato da Gordon Brown, del 1975. Nel 1976 si arrivò alla fondazione, da parte di Jim Sillars, dello Scottish Labour Party finalizzato proprio a unire socialismo e nazionalismo scozzese. Tre anni dopo, vi fu una scossa anche all’interno del SNP allorché venne a formarsi il “’79 Group” con l’intenzione di dare al partito una più decisa connotazione di sinistra. Superati gli anni 70 e 80, la figura chiave per rielaborare il nazionalismo di sinistra fu quella di Alex Salmond. Sul piano economico l’evoluzione del partito, da lui favorita, si nota per il fatto che i paesi da prendere a modello non erano più le socialdemocrazie nordiche bensì l’Irlanda. La soluzione suggerita era, dunque, una forma di socialdemocrazia che sottolineava il ruolo centrale nella creazione della ricchezza da parte del settore privato. Questi ultimi due capitoli sono i più collegati tra loro e si possono considerare il vero centro del volume dal momento che permettono di comprendere meglio come il nazionalismo scozzese, nelle sue diverse anime, si posizioni a proposito dei diversi temi col passare degli anni.
Il capitolo conclusivo si concentra sul concetto di sovranità e presenta, per esempio, le posizioni di nazionalisti, degli anni 40 e 50, come Douglas Young e John MacCormick, che sostenevano come in Inghilterra la sovranità fosse sempre stata concepita come un qualcosa concesso dall’alto, mentre in Scozia a essere sovrana fosse la comunità. A riguardo, l’autore analizza molto dettagliatamente come siano stati usati a supporto di questa tesi un documento medievale come la Dichiarazione di Arbroath del 1320 e il pensiero dell’umanista scozzese del XVI secolo George Buchanan. Jackson procede poi nell’analizzare come questo linguaggio, che fa riferimento alla sovranità popolare, venga sempre più utilizzato per sostenere l’idea secondo la quale l’autorità del parlamento britannico sulla Scozia non sia legittima.
È presente anche un paragrafo dedicato all’analisi delle evoluzioni delle posizioni dei nazionalisti scozzesi riguardo a un possibile ingresso della Scozia nella CEE prima e nella UE poi. Se inizialmente nel SNP, durante gli anni 70, prevaleva la contrarietà all’adesione alla CEE, la svolta europeista nel partito avvenne nel 1983. Precedentemente, era stato l’SLP a schierarsi con la formula “Scotland in Europe”, in linea col pensiero di Tom Nairn, uno dei membri del partito, che già nei primi anni 70 aveva intuito gli aspetti positivi per la causa scozzese derivanti dal processo d’integrazione europea (a riguardo Jackson ha scritto nel capitolo 3).
Nelle conclusioni viene svolta una riflessione sulla situazione interna al SNP dagli anni successivi alla devolution, ottenuta grazie al referendum del 1997, sino a un altro referendum di importanza cardinale come quello sull’indipendenza del 2014. L’elemento che più emerge da queste pagine, a cui potrebbero essere dedicate ricerche più approfondite, è la mancanza di dibattito interno al partito. Secondo Jackson, infatti, una volta ottenuta la devolution, i quadri del partito non hanno voluto sfidarsi nell’arena del dibattito pubblico per cercare di delineare degli obbiettivi politici precisi che non fossero soltanto l’indipendenza. Questo per l’autore si spiega col fatto che i nazionalisti, sentendosi circondati da avversari nei media e nell’industria oltre che, ovviamente, dai partiti unionisti, ritenevano che aprire delle discussioni interne al partito li avrebbe soltanto indeboliti.
Pietro Lazzeri