Giovanni D’Antoni, La memoria pubblica dell’antifascismo nell’Italia repubblicana. Snodi, questioni, polemiche, tesi di laurea triennale in Storia, relatore prof. Massimo Baioni, Dipartimento di Studi Storici, Università degli Studi di Milano, a.a. 2020/2021.
In occasione dei 75 anni della Repubblica italiana si è deciso di condurre un’analisi critica sullo stato di salute del mito fondativo su cui essa è stata legittimata, l’antifascismo resistenziale: la nuova “religione civile” scelta dai “vincitori” alla guida dello Stato nel secondo dopoguerra. Nella prima parte viene ricostruita la genesi della Costituzione come “Bibbia laica” delle forze vincitrici, accomunate dall’antifascismo ma detentrici di perenni “memorie inconciliate”; viene descritto il contenuto della narrazione pubblica egemone, compresi i tabù di Stato, sviscerando le fasi altalenanti del racconto ufficiale e le molteplici contraddizioni nel tradurre lo spirito antifascista dalla Carta costituzionale ai fatti attraverso le varie leve con cui le istituzioni hanno declinato la memoria pubblica. Nella seconda parte si analizza come il crollo della Prima Repubblica dei partiti abbia delegittimato anche il basamento su cui essa era stata edificata, lasciando un vuoto riempito ben presto da due nuovi paradigmi della memoria pubblica, rispettivamente “antitotalitario” e “vittimario”, strumentalmente affiancati a quello ufficiale in virtù di una presunta “pacificazione” (o “parificazione”) del tutto destoricizzata, sull’onda di un revisionismo storiografico e di un uso politico del passato da parte di una coalizione di centro-destra “anti-antifascista” più volte al governo durante la Seconda Repubblica. A fronte della tabula rasa delle differenze tra partigiani e repubblichini in nome di una pretesa “riconciliazione”, delle tendenze centrifughe nonché di una sequela di giornate della memoria in cui la merce contesa è diventata il dolore secondo una logica livellatrice, con un rischioso sorpasso della memoria sulla storia, il presidente della Repubblica è stato costretto a un crescente interventismo come ultimo baluardo rimasto a tutela dell’antifascismo fondativo, in supplenza del sostanziale vuoto istituzionale dimostrato dal sistema dei partiti e dal Parlamento. Nella parte conclusiva si spiega come non debba destare sorpresa che il paradigma dell’antifascismo non si sia dimostrato pienamente efficace nel suo tentativo di unire le memorie inconciliate delle “tante Italie”, dato che un paradigma della memoria pubblica, per sua stessa definizione intrinsecamente selettivo e di parte, non potrà mai assolvere con pieno successo al difficile compito, per quanto auspicabile e nobile, di cementare in maniera efficace e duratura i cittadini di un’intera Nazione, soprattutto dopo una lacerante guerra civile. A ogni modo esso va custodito e difeso giacché, per quanto tormentato, logorato dal tempo e persino da frequenti “cortocircuiti” istituzionali interni, si è rivelato tenace: dopo tre quarti di secolo non si è mai spento, conservando radici non essiccate. Da qui un “Antifascismo programmatico” rivolto al futuro in virtù di un lascito morale ancora vivo nel solco tracciato dai Padri costituenti, come patrimonio irrinunciabile di valori, anche perché non ne possediamo altri, in buona parte non ancora dispiegati appieno e cui attingere per la comune crescita democratica. Infine, la conoscenza storica critica viene indicata come l’unica, vera epurazione possibile dal passato fascista che l’Italia repubblicana ancora aspetta: non una fallita epurazione penale o una controversa amnistia, né una comoda lettura autoassolutoria, né un’astratta epurazione delle colpe altrui mediante un retorico “dovere della memoria”, bensì una concreta epurazione culturale attraverso una comprensione critica di tutte le pagine, incluse quelle più scomode, della nostra storia, da approfondire e discutere coinvolgendo un pubblico più ampio possibile con la Public History senza tralasciare nessuna delle sue innumerevoli contraddizioni, per comprenderla nella sua miseria e nella sua grandezza, nelle sue verità e nei suoi errori, perché solo una matura conoscenza storica diffusa a livello sociale può costituire il presupposto di un’efficace memoria comune.