Julian Gewirtz, Unlikely Partners: Chinese Reformers, Western Economists and the Making of Global China, Harvard University Press, 2017.
Con il termine «Unlikely Partners» Julian Gewirtz esamina il ruolo del pensiero occidentale nelle scelte riformiste del governo cinese. Il periodo preso in considerazione inizia subito dopo la morte di Mao, il Grande Timoniere, e l’ascesa al potere di Deng Xiaoping fino alla morte di questi e le riforme di Zhu Rongji. L’autore, storico formatosi ad Harward e Oxford e attualmente Director for China nel National Security Council, fornisce una visione dettagliata del dibattito interno al Partito Comunista facendo ampio uso di documenti ufficiali e di discorsi pubblici dai leader politici cinesi.
Ogni capitolo, dieci in totale, contiene nel suo titolo un riferimento allo scorrere di un fiume e al suo attraversamento. Tale immagine si collega al motto dei riformisti cinesi, divenuto un vero proprio mantra in quegli anni di apertura e riforme: «crossing the river by feeling the stone». L’opera di Gewirtz mette dunque in luce la consapevolezza da parte della leadership del Partito Comunista Cinese della necessità di una stagione autenticamente riformista. Consapevolezza elaborata dopo la catastrofe economica e umanitaria dovuta alle politiche di pianificazione degli anni ’50 e alle ripercussioni della Rivoluzione Culturale, quando molti leader politici furono colpiti da epurazioni e inviati nelle campagne per essere rieducati, tra questi anche lo stesso Deng Xiaoping, futuro architetto delle riforme nel Paese.
“Attraversare il fiume” dopo la morte del Grande Timoniere e il breve intermezzo di Hua Guofeng significa dunque per i riformisti perseguire l’obiettivo di sollevare la Cina dalla povertà endemica, senza tuttavia rinunciare alla guida di tale processo, ossia senza intaccare il primato del Partito e del Socialismo in Cina. L’atteggiamento di Deng era quindi eminentemente pratico: «il socialismo è una cosa, il modo specifico in cui lo si costruisce un’altra». Da qui la definitiva accettazione della «liberazione delle forze economiche» nella società, muovendosi però per tentativi, in modo non ideologico ma empirico. Come affermato dallo stesso Deng, risultava ora necessario «cercare la verità nei fatti» attraverso un’«emancipazione di pensiero». Ma i fatti a cui Deng alludeva erano essenzialmente fatti economici, che pertanto seguivano proprie leggi non ascrivibili all’ideologia politica. L’emancipazione del pensiero invocata da Deng era dunque un richiamo a imparare a gestire l’economia con mezzi economici. Qualora questi mezzi non fossero stati disponibili, diventava allora indispensabile ricercarli al di fuori della Cina stessa, attraverso lo studio di altre economie e il contatto con esperti economici stranieri, soprattutto occidentali.
Gli anni Ottanta sono dunque caratterizzati dai viaggi di studiosi e politici cinesi sia nell’Europa dell’Est che in quella Occidentale e nelle Americhe. Di grande rilevanza sarà il contatto con paesi che stavano sperimentando modelli eterodossi di socialismo. Non è un caso che l’incontro con economisti come il polacco Włodzimierz Brus e l’ungherese Janos Kornai avrà un particolare rilievo nella formazione del pensiero economico dei riformisti cinesi. Stupisce inoltre l’apertura con cui il Partito accetta il confronto con studiosi quali Milton Friedman, alla guida dei Chicago Boys e campione della teoria neoliberale. Friedman sarà invitato in Cina all’inizio del processo di apertura, nel 1980, e una seconda volta nel 1988, pochi mesi prima della crisi di Tienanmen. Tale apertura sarebbe stata impensabile senza l’operazione concettuale promossa da Deng, ossia la liberazione dello studio dell’economia dalla gabbia di una certa ideologia politica marxista-leninista.
Da questo punto di vista, la Conferenza di Bashan, tenuta nell’estate del 1985, fu di assoluto rilievo. Essa fu organizzata dagli organi di ricerca del governo, che scelsero come luogo d’incontro una nave da crociera sul fiume Yangtze. Gewirtz sottolinea l’importanza di questo momento dedicandogli un capitolo posto in una posizione centrale della sua trattazione. La Conferenza di Bashan vide infatti la partecipazione del premio Nobel James Tobin e professori di fama internazionale, quali l’economista inglese Alexander Craincross, il professore oxfordiano di origine polacca Brus e l’ungherese Kornai; come uditori le figure di spicco dell’ala riformista del PCC. Le idee sorte dal lungo dibattito di quei giorni divennero una vera e propria guida nell’operato dei riformisti per gli anni a seguire. In questo laboratorio emerse chiaramente la consapevolezza che la Cina non avesse bisogno di una “cura shock” bensì un’apertura graduale, guidata sapientemente per mezzo di progressive liberalizzazioni dei prezzi. Divenne evidente la necessità di attuare delle riforme nell’ambito dell’industria statale attraverso un aumento dei vincoli di bilancio e della responsabilità manageriale. Infine, venne abbozzata la creazione di un sistema bancario centralizzato, per dare la possibilità di controllare in modo indiretto l’economia attraverso politiche monetarie.
Il percorso di quegli anni di apertura e riforme non fu tuttavia lineare. La dialettica interna del Partito mise in posizioni contrapposte l’ala dei riformisti e quelle dei conservatori, i quali riuscirono a imporsi in due momenti di grave crisi: la prima a seguito dell’aumento dell’inflazione nel 1987 e la seconda dopo le proteste di Tiananmen nel 1989. La trattazione di Gewirtz mostra tuttavia quale fosse il totale coinvolgimento delle sfere più alte della dirigenza del Partito nel progetto di riforma, soprattutto da parte dell’ormai anziano Deng. Le riforme proseguiranno infatti sotto il suo protégé Zhu Rongji, sindaco di Shanghai, che nel 1990 annuncia il lancio del Shanghai Stock Exchange, primo mercato borsistico cinese. Zhu diventerà una figura centrale nel panorama economico, assumendo la carica di premier e traghettando la Cina nel World Trade Organization nel 2001.
Gewirtz mette dunque in luce le dinamiche del cambiamento in atto in Cina, dando rilievo alla natura fluida di tale processo. Il riferimento all’acqua si mostra dunque essenziale, e ancora più quella del fiume, poiché in questa immagine ritorna il senso di un movimento lento e costante, seppure talvolta tumultuoso. Il cambiamento economico intrapreso dai riformisti è presentato dunque non come il completo compimento di un fine teleologico, sia esso la democrazia neoliberale o una nuova dittatura, bensì uno stato di continua ridefinizione, che talvolta agli occhi occidentali si mostra, per questo motivo, ambiguo. A tale proposito, all’’indomani della riforma dei termini costituzionali per la carica di Presidente della Repubblica Cinese, Gewirtz pubblica un articolo, in cui afferma con decisione che è necessario non dare un’interpretazione errata di ciò che sta accadendo in Cina (https://www.chinafile.com/reporting-opinion/viewpoint/chinese-history-isnt-over; consultato il 01/04/2021). Egli, infatti, mette in guardia chi, tra i commentatori occidentali, vede in Xi Jinping un “nuovo Mao”, ossia un dittatore dedito al culto della personalità, come se questo tipo di autoritarismo sia una sorta di caratteristica predominante della cultura e della storia cinese. Il nuovo consolidamento accentratore messo in moto da Xi Jinping non deve essere considerato come la fine del movimento di riforma e liberalizzazione del Paese. Al contrario, la capacità di comprendere le trasformazioni in atto consiste nella consapevolezza che stiamo assistendo a una parte di un processo più ampio, in un continuo movimento di ridefinizione e rimodellamento compiuto delle forze intrinseche della politica e della società. Non una “fine della storia” dunque, in cui il fallimento, o il successo, sono da interpretare alla luce di un modello predefinito, bensì il continuo e storicizzante impegno all’analisi delle forze in gioco.