I dati sulla lettura in Italia presentano significative differenze rispetto agli altri paesi sviluppati, con una ristrettissima minoranza di lettori abituali e una maggioranza di non-lettori. Giorgio Caravale inquadra questa situazione in una dinamica di lungo periodo, che affonda le sue origini nella prima età moderna, con un’analisi delle traversie affrontate dalla cultura italiana sottoposta alla censura ecclesiastica. Grazie a tale prospettiva il caso italiano può anche essere inscritto e posto a confronto con le diverse vicende che caratterizzarono gli altri paesi europei, in cui il rapporto tra potere politico e religioso era diversamente bilanciato.
La svolta impressa dall’invenzione della stampa e dalla diffusione della Riforma rischiava di minare alla base la tradizionale concezione elitaria della cultura e il ruolo di mediatore tra le sacre scritture e i fedeli svolto dalla Chiesa; perciò, le autorità ecclesiastiche ritennero necessario elaborare degli strumenti che permettessero di tutelare da loro stessi i lettori meno avvertiti. Il primo di questi fu la licenza di stampa (imprimatur), un filtro preventivo che però non riusciva a seguire il tumultuoso ritmo del nuovo mercato librario. Emerse dunque la necessità di fornire alle autorità censorie un elenco che permettesse di identificare i testi pericolosi: il primo Indice ufficiale dei libri proibiti fu pubblicato nel 1558.
L’autore individua due peculiarità di questo sistema censorio in vigore in gran parte della penisola italiana in confronto ai corrispettivi europei. In primo luogo, esso era particolarmente rigido, sia per quanto riguarda il suo aggiornamento, sia sotto l’aspetto della sua diffusione e assimilazione. Inoltre, finiva per porsi al servizio di una difesa degli interessi ecclesiastici, in mancanza di un potere politico che lo avocasse a sé e lo sfruttasse come veicolo di accentramento. Caravale illustra poi dettagliatamente le forme e i generi letterari interessati, in quanto il meccanismo censorio non riguardò solo i libri e solo l’ambito religioso, ma furono coinvolte anche le «piccole scritture» (pasquinate, orazioni, canzoni, ecc.), i testi e gli autori che mettevano in discussione il potere temporale del papato e naturalmente scritti di filosofia e scienza che risultavano in contrasto con il sistema teologico tomistico.
A caratterizzare questo sistema censorio, in maniera coerente con lo spirito elitario che univa trasversalmente i vertici della cultura tanto laica, quanto ecclesiastica, vi fu soprattutto una persistente «offensiva verso il volgare». Nell’ambito del sacro il volgare fu ammesso solo quando permetteva la mediazione esercitata dal clero; per quanto riguardava le scritture di ambito mondano, molte opere furono consentite nella versione latina e vietate nella loro traduzione vernacolare. L’attività censoria non colpì soltanto gli scritti: ci fu altresì un intervento sulle immagini, rispetto alle quali durante il Concilio tridentino era stato ribaditi il cruciale fine didattico ed educativo. Fu invece più difficile controllare l’oralità: in questo caso, i risultati migliori furono ottenuti agendo sul canto, rivolgendolo a fini edificanti.
Il lavoro di censura è analizzato in questo volume non solo soffermandosi sull’aspetto della proibizione, ma anche su quello dell’espurgazione, della riscrittura e della correzione dei testi. A seconda dei casi, si poteva per esempio promuovere la cristianizzazione o laicizzazione di personaggi ed eventi, sia della letteratura classica, sia di quella cristiana dei secoli precedenti, che doveva essere aggiornata allo spirito dei tempi. Un altro importante campo che fu oggetto di costante controllo fu quello della scrittura del passato e della sua interpretazione, a beneficio della Curia e della sovranità pontificia, caratterizzata da frequenti avvicendamenti con conseguenti cambi di orientamento.
Se sul piano concreto la procedura censoria scontava numerose inefficienze, come efficacemente dimostrato dall’autore, a causa della corruttibilità dei censori, di non infrequenti aperture all’eccezione, e soprattutto dell’irrealizzabilità di un progetto eccessivamente ambizioso, fu invece sul piano della mentalità collettiva che i risultati più duraturi furono raggiunti. Caravale insiste infatti sulla progressiva assimilazione di una diffidenza generalizzata nei confronti del libro, che si manifestò anche con procedimenti quali l’autocensura, spesso risultato di una riflessione interna alla coscienza dell’autore e non frutto di coercizione, e la dissimulazione.
Le regole censorie tanto stringenti, peraltro, non valevano per tutti: tramite lo strumento delle licenze di lettura si creò un sistema di privilegio, basato su una discrezionale valutazione di affidabilità, ortodossia e moralità, il quale permise ad una ristretta élite di disporre di quasi ogni testo. Allora come oggi, inoltre, i pochi che leggevano molto erano spesso a loro volta scrittori: in questo fenomeno Caravale individua un «tratto utilitaristico» della cultura italiana, contrapposto ad una curiosità personale che la temperie controriformistica tentò di eliminare.
Tommaso Nosetti